martedì 18 settembre 2018

PRETENDO...

Pretendo. Di Maio contro Tria: se non cambia, lo cambiamo

Il vicepremier M5S parla del Governo come di un ente terzo, ma il quadro raffigura due partiti, due leader, due agende, un'incompatibilità sostanziale

"Pretendo", dice Luigi Di Maio al ministro Giovanni Tria, col tono dell'unico interprete del popolo sovrano, cui è stato promesso il reddito di cittadinanza, senza mai spiegare il "come" secondo la retorica che, se si vuole, i soldi si trovano. E se non si trovano, perché il titolare di via XX settembre non cambia atteggiamento, si cambia ministro. Così spiegano fonti di governo vicine al vicepremier, nell'ambito di ragionamenti in cui è labile il confine tra inconsapevolezza e tattica, nel tentativo di mettere sotto pressione il ministro del Tesoro.
"Pretendo", perché nella parola c'è il senso di una campagna verso la propria base, dopo mesi in cui il dividendo politico dell'operazione governo l'ha incassato Salvini, a costo zero sui migranti. E non a caso, su Tria, gli spifferi bellici non hanno la stessa intensità, perché è complicato andare a spiegare all'altra base – il Nord produttivo e delle imprese – che ci si può permettere una crisi di Governo sulla manovra, magari col casus belli del reddito di cittadinanza, che l'elettore medio leghista considera un sussidio di Stato a chi non fa nulla nella vita, o magari ha già un lavoro in nero.
Pretendo che il ministro dell'Economia di un governo del cambiamento trovi i soldi per gli italiani che momentaneamente sono in grande difficoltàLuigi Di Maio
Nelle pretese c'è la fotografia di un cortocircuito: un sistema di coalizione mai nato, come se il Governo fosse una sorta di ente terzo a cui si chiede di fare qualcosa ma che nei fatti, come sistema appunto, non c'è. Ci sono due partiti, due leader, due agende di priorità, due velocità, due diversi andamenti dei sondaggi. Uscendo dalla riunione sulle Olimpiadi, Giancarlo Giorgetti, si è sfogato con qualche collega perché "così non si va avanti". Abituato al pragmatismo di governo, il sottosegretario vede tutti i limiti di un non governo.
Nazionalizzazioni, giustizia, opere pubbliche: è evidente che, dopo l'entusiasmo iniziale, la quotidiana fatica del governo ha mostrato come ci sia una incompatibilità sostanziale, di approccio e cultura politica, tra le due forze. E nel pasticcio sulle Olimpiadi cresce anche il germe del sospetto, con Di Maio che se la prende col Coni, ma in verità pensa che si stata orchestrata un'imboscata sull'asse lombardo-veneto, tra i governatori leghisti Zaia e Fontana e il sindaco di Milano Sala che ha immediatamente appoggiato la loro proposta. Però poi non può dire più di tanto, in quanto prigioniero delle contraddizioni proprie di chi, due anni fa, non volle le Olimpiadi a Roma e a Torino rischierebbe di far cadere la giunta, perché un pezzo del Consiglio comunale è contrario alla posizione favorevole del sindaco Appendino.
Quanto si possa andare su questo schema è domanda che non si pone solo Giorgetti, che pur interpreta nella Lega l'umore diffuso di un vasto fronte, soprattutto del Nord, favorevole a un ritorno al voto, una volta varata la finanziaria, con i sondaggi che vedono il centrodestra oltre il 40 per cento. Chi ci ha parlato in questi giorni spiega: "Anche nel '94 si votò a breve distanza tra Europee e Politiche. In parecchi suggeriscono di andare all'incasso quando siamo al massimo, perché poi arriva un punto in cui si può solo scendere".
Un ministro serio i soldi li deve trovareLuigi Di Maio
Ragionamenti. Scenari. Magari irrealizzabili. Ma che raccontano di una sensazione di paralisi del Governo, arrivati al dunque del primo, vero, passaggio politico della legislatura - la manovra – dopo mesi di chiacchiere in cui, in un fuoco di artificio di annunci, il Parlamento ha varato solo due provvedimenti: il decreto Dignità e il Milleproroghe.
Più volte, anzi diciamo che è una costante, sulla manovra è stato in onda il medesimo film, con diversi protagonisti: il ministro dell'Economia che stringe i cordoni della borsa, i partiti che chiedono più spesa. Il problema nell'Italia del 2018 è la tenuta dei conti ma soprattutto la reazione dei mercati, col rischio di contagio sui paesi meno solidi. Chi è di casa al Quirinale è certo che Tria "non metterà mai la firma sul disastro dell'Italia", superando il limite del rapporto deficit-Pil che consente di evitare la procedura di infrazione e, di conseguenza, il gran falò dei mercati. Anche perché quella cifra diventata una specie di linea del Piave, l'1,6, è essa stessa frutto di un compromesso.
I "falchi" di Bruxelles vorrebbero concederne assai meno, perché comunque stiamo parlando di diversi punti sopra lo 0,9 previsto. Anche in questo caso, nel negoziato, si sconta l'assenza di un Governo. Ai suoi tempi, Renzi riuscì a negoziare margini, nell'ambito di uno scambio sulla questione dei migranti: più gioco sui vincoli di bilancio in cambio di accoglienza. Discutibile o meno, un'operazione politica. È indubbio che l'atteggiamento tenuto dall'attuale governo sullo stesso dossier non ha aiutato l'impostazione del negoziato economico. Dice Tria, in sostanza: io garantisco fino all'1,6, poi facciano loro se sono capaci. Ci vorrebbe però un premier, in grado di imbastire una trattativa con i partner europei. Non due leader in perenne campagna elettorale.

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