domenica 28 ottobre 2018

Benetton e la transizione incompiuta dalla fabbrica al terziario

La morte di Gilberto Benetton non è soltanto la morte di Gilberto Benetton. Gilberto Benetton è stato infinitamente meno noto di Luciano, l’inventore dei maglioncini che hanno trasformato la manifattura povera del Nord-Est (e dell’Italia) degli anni Sessanta e Settanta nel capitalismo glamour degli anni Ottanta. Gilberto – in qualità di perno della Edizione Holding - è stato più importante del carismatico fratello, nei 25 anni segnati dalla diversificazione nei servizi della famiglia di Ponzano Veneto.
La sua scomparsa esprime un’aura tragica, per la coincidenza simbolica dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute – fino alla morte - con la tragedia nazionale del crollo del Ponte Morandi di Genova, a cui hanno fatto seguito la parossistica ricerca delle responsabilità delle società controllate dai Benetton e gli errori di comunicazione e di crisis management compiuti, in uno dei peggiori drammi della storia italiana, dall’intera galassia – familiare e dirigenziale - che ruotava intorno a Gilberto.
Soprattutto la sua scomparsa – in un contesto tanto doloroso e convulso per il Paese - segna una cesura nella transizione – incompiuta – dell’economia italiana dalla manifattura ai servizi, dalla fabbrica al terziario. Sì, perché Gilberto Benetton – nella storia tutt’altro che serena e pacifica della numerosa famiglia di Ponzano Veneto – ha incarnato bene questo passaggio storico.
Questa evoluzione di lungo periodo riguarda tutto l’Occidente. Ma, nel suo passaggio a Nord-Est e nella sua versione italiana, assume tratti specifici su cui è bene compiere una riflessione. La forza innovativa della famiglia Benetton ha avuto nella manifattura tratti di tradizione e di originalità che ne hanno fatto uno dei paradigmi dell’economia e della società italiana. La tradizione: partire dalla manifattura semplice e da una organizzazione capillare a rete, quel terzismo più elementare che ha caratterizzato il tessile del secondo dopoguerra, trasformandolo in un fenomeno industriale coerente e con una sua razionalità organizzativa e strategica interna.
L’innovazione: arrivare in pochi anni ad una manifattura evoluta e con una componente di valore aggiunto immateriale significativa, costituita da una identificazione dei consumatori con i prodotti e alimentata – anche grazie alle campagne di Oliviero Toscani - dall’ambiguità fra il messaggio sociale e la pubblicità, la comunicazione e l’arte. E farlo – in un preciso codice di corporate identity - giocando abilmente fra locale e globale, con una cifra fortemente anticipatrice della globalizzazione che si sarebbe poi imposta negli anni Novanta e appunto della sua ultima versione di ibridazione fra globale e locale - il glocal – degli anni Duemila. Tutto questo, con venti o trenta anni di anticipo e con un successo commerciale, negli anni Ottanta, straordinario.
Il secondo tempo - in questa storia di impresa che è anche la storia del Paese - è stato all’insegna delle concessioni autostradali e dei servizi di ristorazione, delle telecomunicazioni e degli aeroporti. Il fuoco originario di questa fase di sviluppo è la costruzione di Edizione Holding. Un fuoco accesosi soprattutto grazie alle privatizzazioni italiane, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella trasformazione degli interessi della famiglia: non più i maglioncini – attività di mercato e di pura concorrenza progressivamente residuale e sempre meno redditizia, se non foriera di perdite – ma bensì le tariffe, mercato ultra regolato, con un rapporto diretto e tutt’altro che minoritario con la politica, in un passaggio storico peraltro contraddistinto – in una Italia da cui i Benetton sono partiti per compiere importanti espansioni all’estero - dalla combinazione fra il crollo della Prima Repubblica, la ritirata dell’economia di matrice Iri e la riconfigurazione dello scenario partitico intorno al duopolio imperniato intorno alle due figure di Silvio Berlusconi e Romano Prodi e composto da Forza Italia e dall’Ulivo.
Questa traiettoria si è consumata con la necessità di managerializzare le attività della famiglia, selezionando una generazione di dirigenti – in primo luogo Gianni Mion – che hanno fatto la sua fortuna. Questa managerializzazione si è però scontrata con alcuni precisi caratteri del capitalismo familiare italiano, non sempre ben regolato: la primazia familiare assegnata a Gilberto de facto ma non de iure, nelle linee guida ma non in una leadership conclamata e ratificata da meccanismi di governance in grado di attribuire – con nettezza e irrefutabilità – diversi gradi di potere e di responsabilità ai diversi esponenti dei Benetton.
Tutto questo ha assegnato una dimensione mobile ma non solida, robusta ma non coesa ad una diversificazione familiare verso i servizi e verso il terziario che, peraltro, è stata compiuta con la formula societaria della holding. E non ci vuole molto a capire che ogni holding – per definizione – tende ad accentuare – per ragioni legate alla prospettiva dei flussi di cassa e per le scommesse sulla redditività degli investimenti – la scelta di privilegiare i (plurimi) servizi rispetto alla concentrazione nella manifattura.
Da qui la chiusura del cerchio avvenuta mentre, altrove, il tessile diventava un fenomeno redditizio e globale, nella versione pop di Zara e nella cifra extralusso dei portafogli francesi ricchi di marchi della moda di tutto il mondo – inclusi quelli italiani – e segnati da una logistica su scala globale e da una finanza in grado di creare meccanismi virtuosi e moltiplicatori fra la manifattura e i servizi.
Una chiusura del cerchio appunto incompiuta rispetto alla natura originale dei Benetton, famiglia paradigmatica dell’industrializzazione (e dell’anima) di una Italia delle fabbriche che, ad un certo punto, ha scelto di fare altro.

lunedì 22 ottobre 2018

Caro Beppe Grillo...posso chiamarti coglione?

Politica
22 ottobre 2018

Caro Beppe Grillo, lasci perdere gli autistici

Lei denigra e prende in giro persone come mio figlio Luca, tra le più vulnerabili sulla faccia della terra. Ma ormai non mi stupisco più. E questa sì è una malattia nevrotica. 

Carissimo signor Beppe Grillo,
ormai, quasi, non mi stupisco più. Ed è questa è la vera malattia nevrotica di cui dovrei preoccuparmi. Non mi stupisco che si usino persone come mio figlio, di professione autistico a basso funzionamento, per denigrare, per offendere, per denunciare un male sociale. Non mi stupisco, ma dovrei, perché le persone come Luca, che spesso non hanno gli strumenti per controbattere, sono tra quelle più vulnerabili sulla faccia della Terra. È come se, invece di autistici per descrivere dei coglioni, si usassero le parole, che ne so, terroni, froci, negri, mongoloidi. Negli Anni 50, prima di un certo risveglio di alcune sensibilità sociali e, (scusi il parolone) morali, sarebbero tutte passate lisce. Prendere di mira gli autistici, purtroppo, non ha ancora raggiunto il livello di sdegno che le altre diversità si sono conquistate a botte di manifestazioni, litigate, lotte per diritti civili.
 

RACCONTATE LE VOSTRE BALLE, MA ALMENO LASCIATECI IN PACE

Non so se lei conosce una famiglia con una persona autistica, ma le assicuro che passiamo tutto il nostro tempo a cercare anche un piccolo angolo di serenità là dove politici come lei ci usano come esempio di coglioni. Gridiamo a squarciagola, ma in un silenzio quasi assordante, la nostra presenza; cerchiamo disperatamente di spiegare il nostro diritto alla dignità: pensi lei che ci sono ancora grandi gruppi che non hanno ancora raggiunto il privilegio della dignità! Le persone autistiche che, diversamente da mio figlio, hanno la fortuna di parlare sono arrivate a questa conclusione: almeno lasciateci in pace. Fate le vostre politiche, i vostri sermoni, dite le cose che chi vi vota vuole sentirsi dire per acchiappare più consenso possibile, dite le balle che vi sentite di dire, ma almeno lasciateci fuori da questo circo.

UNA QUESTIONE DI ANALFABETISMO

Le persone autistiche (Asperger è ormai una diagnosi obsoleta, in caso volesse davvero saperlo, ma non credo interessi) hanno una qualità sopra tutte le altre, che se vuole posso elencarle: non rompono i coglioni a nessuno. Sono troppo presi a cercare di capire il mondo concreto, quello che permette loro di passare più inosservati possibili per non essere bullizzati, pensi un po’ lei. Non mi sembra di aver visto molte persone come mio figlio fare dibattiti in tivù, non mi sembra che la politica italiana sia stata particolarmente scalfita da loro. È stata scalfita permanentemente, quello sì, da persone disoneste, pronte a sparare su tutto e su tutti pur di avere un applauso e tre voti in più da persone che ridono e non si indignano davanti agli insulti. Il problema, a proposito di analfabetismo, come dice lei, è che ormai esiste un’enorme parte della popolazione affetta dall’autismo, che tra l’altro non è un disturbo nevrotico, non c’entra nulla con la nevrosi. Pare sia un disturbo genetico, che di nevrotico non ha proprio nulla. È quasi buffo che una persona che, come lei, denuncia l’ignoranza in Italia parli poi di autismo in questi termini. Ma anche questo è un classico di chi insulta: si fa di tutta un’erba un fascio, tanto la gente che ne sa?

SIGNOR GRILLO, LASCI PERDERE

Come dicevo, non mi stupisco neanche più. A volte si dicono cose senza pensare, si sparano parole alla leggera, senza ponderare troppo le ripercussioni. Capita, capita sempre. Ma i politici, quelli che ci rappresentano, quelli che noi scegliamo per darci un esempio, quelli che in teoria dovrebbero in qualche modo migliorare la nostra vita non se lo possono permettere. Mai. Perché le parole, lo dicono in tanti, pesano come il piombo. Civiltà significa anche saperle usare in modo schietto, cercando di non ferire, di spiegare le nostre idee senza lasciarci dietro cadaveri. Abbiamo già una vita estremamente complessa, noi famiglie con persone autistiche, ci manca anche il politico che ci prende per il culo. Non sono nessuno per dirle come fare il suo lavoro, signor Grillo, ma se mi permette le do un consiglio: ci lasci perdere, piuttosto. Fa più bella figura.
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giovedì 18 ottobre 2018

il testo sulla pace fiscale è stato manipolato

Per Di Maio il testo sulla pace fiscale è stato manipolato

L'accusa del vicepremier: «Nel testo che è arrivato al Quirinale c'è lo scudo per i capitali all'estero. Io non lo firmo e denuncio». Ma il Colle precisa di non aver ricevuto alcun documento. Conte: «L'ho bloccato».

Diventa un caso il via libera alla pace fiscale da parte del governo. La denuncia è opera del vicepremier Luigi Di Maio, perentoriamente smentito dalla presidenza della Repubblica. «Nel testo che è arrivato al Quirinale c'è lo scudo fiscale per i capitali all'estero. E c'è la non punibilità per chi evade. Noi non scudiamo capitali di corrotti e di mafiosi. E non era questo il testo uscito dal Cdm», ha detto Di Maio durante la registrazione di Porta a Porta. «Io questo testo non lo firmo e non andrà al parlamento. Domani andrò in procura a denunciare», ha aggiunto.«Questo è un condono come quelli che faceva Renzi, io non lo faccio votare». A stretto giro è, però, arrivata la precisazione del Colle, per il quale il documento del governo non è ancora arrivato a destinazione. L'ufficio stampa del Quirinale ha precisato che «il testo del decreto legge in materia fiscale per la firma del presidente della Repubblica non è ancora pervenuto». Fonti di Palazzo Chigi hanno riferito che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha in seguito bloccato l'invio del decreto fiscale al Quirinale e che rivedrà personalmente il dl articolo per articolo. Il decreto fiscale, si apprende ancora, è stato anticipato al Colle in via meramente informale come è consuetudine fare in questi casi.

«NON HO RAGIONI DI DUBITARE DELLA LEGA»

«Io non ho ragione di dubitare della Lega perché ci siamo stretti la mano», ha spiegato nella sua denuncia Di Maio, rispondendo a Bruno Vespa che gli chiedeva se avesse qualche dubbio sulla "manina" che avrebbe apportato le variazioni sul testo del decreto fiscale. «Tendo a escludere responsabilità politiche perché abbiamo raggiunto un accordo politico e perché mi fido delle persone che sono al governo», ha poi aggiunto in un altro passaggio. La Lega, da parte sua, ha risposto con freddezza: «Noi siamo gente seria e non sappiamo niente di decreti truccati, stiamo lavorando giorno e notte sulla riduzione delle tasse, sulla legge Fornero e sulla chiusura delle liti tra cittadini ed Equitalia».
«È accaduto un fatto gravissimo!», ha rincarato la dose Di Maio sui social. «Il testo sulla pace fiscale che è arrivato al Quirinale è stato manipolato. Nel testo trasmesso alla presidenza della Repubblica, ma non accordato dal Consiglio dei ministri, c'è sia lo scudo fiscale sia la non punibilità per chi evade. Non so se una manina politica o una manina tecnica, in ogni caso domattina si deposita subito una denuncia alla procura della Repubblica perché non è possibile che vada al Quirinale un testo manipolato!».

SULLA REPLICA DEL QUIRINALE: «SE È COSÌ BASTA LO STRALCIO»

E in merito alla replica del Quirinale: «Se non è così», ha osservato, «allora basta lo stralcio». Le opposizioni intanto sono passate allo sberleffo: Di Maio, per Pd e Fi, è perseguitato dalla teoria del complotto. Nel mirino del leader M5S è finito in particolare «lo scudo fiscale per i capitali all'estero» che nel testo non appare tale in realtà perché permette di sanare due specifiche imposte su proprietà e attività fiscali all'estero già dichiarate anche se in maniera non completa. Ma a non andare giù a Di Maio, «c'è anche la non punibilità per chi evade». È la prima volta che la cosiddetta pace fiscale viene messa nero su bianco e nell'ultima bozza del decreto fiscale, successiva all'approvazione del testo da parte del Consiglio dei ministri, la soglia di 100 mila euro all'anno - si legge nel testo - è relativa alla «singola imposta». E riguarda anche l'Iva. Per il momento l'articolo 9, oggetto dell'invettiva M5s, esclude la punibilità per «dichiarazione infedele, omesso versamento di ritenute e omesso versamento di Iva: i tre reati non sono punibili, fino al 30 settembre 2019, anche nel caso di riciclaggio o impiego di proventi illeciti». Resta da decidere se escludere la punibilità della dichiarazione fraudolenta.
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Ma perché non la finiamo qui e non togliete il disturbo (tutti e due i partiti, intendo)? A nessuno il medico ha ordinato di far politica. Ci avete provato, ok. Ma così non va, non funziona per nulla.
Salvate un briciolo della vostra onorabilità, salvate l'Italia, un minimo sforzo di patriottismo. Dai, che poi starete meglio anche voi.
PS.
Mi esercito nella democrazia diretta: Di Maio, santo cielo, si rende conto che certi documenti partono da un protocollo (di Palazzo Chigi) e arrivano a un protocollo (del Quirinale)? Non occorre neanche fare annunci perché un provvedimento qualsiasi produca gli effetti deliberati. Basta che sia un documento ben formato e autentico, secondo la scienza della diplomazia (che non sarebbe solo ciò che la gente comunemente pensa che sia).
Lei li ha controllati questi benedetti protocolli? E se la manina ignota di cui lei dice non fosse di un funzionario fedifrago, ma di un collega leghista del Governo, non sarebbe questa l'anticamera di una crisi di convivenza a palazzo, se non di una crisi di governo? E se a Palazzo non riuscite a tenere in ordine le carte, mica potete pretendere che lo faccia la Procura, che per il bene della Patria si occupa di reati e non di sospetti.
E infine, sospetto per sospetto, come possiamo impedirci di sospettare che Lei cerchi con mossa audacemente incauta o incautamente audace di rabbonire la sua base, dove notoriamente abbondano i bevitori di fake insieme agli onesti ? Una base che tra i condoni scandalosi di Ischia e i fanghi padani che Le regala il decreto Genova e le intemerate leghiste e il flop del reddito di cittadinanza comincia a fare 1+1=2 e non altri numeri ad nutum principis?
Veda, noi cittadini qualsiasi vorremmo essere felici, come Lei ci ha promesso alcun tempo addietro. Ma non possiamo esserlo, se fate politica in questo modo. Noi abbiamo la precisa sensazione che tra poco il mondo ci cadrà addosso e non vediamo spazio dove ripararci.
Grazie per la cortese attenzione.

venerdì 5 ottobre 2018

Def, tre furbate

Def, tre furbate per far tornare i conti

Crescita gonfiata, il ritorno delle clausole e 10 miliardi di privatizzazioni: così Tria chiude una nota indigesta per l'Europa. Verso una manovra da 40 miliardi, per lo più in deficit. 10 miliardi vanno al reddito di cittadinanza, 7 a quota 100

Una crescita ipertrofica, il ricorso monstre a quelle privatizzazioni che sono tradizionalmente foriere di delusioni, le clausole di salvaguardia sull'Iva che restano per il 2020 e il 2021. È un tridente ambizioso, ma fragile nella sua struttura, quello che il governo gialloverde schiera nella Nota di aggiornamento al Def, la cornice della manovra, trasmessa alle Camere con una settimana di ritardo rispetto alla scadenza e dopo lunghissime giornate di fibrillazioni sulla direttrice Roma-Bruxelles, ma anche e soprattutto tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio sulla spartizione della torta, con il Tesoro preso d'assalto per trovare la quadra. È un tridente spuntato perché poggia su tre elementi che per l'esecutivo sono in grado di fare tornare i conti, ma per i principali osservatori e decisori - cioè Bruxelles e i mercati - la prospettiva si delinea già come ben diversa, cioè indigesta.
Un tridente con tre "furbate" per provare a tenere in piedi la promessa di abbattere il debito di ben quattro punti percentuali in tre anni e di ridurre progressivamente il deficit. Scavando, però, dentro l'operazione sui conti si scopre un vulnus profondo, quello relativo al cosiddetto saldo strutturale, l'indicatore a cui guarderà Bruxelles per valutare la solidità e la serietà degli impegni. In tutte le interlocuzioni che il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, ha avuto con la Commissione europea da quando è nato il governo fino a un mese, l'impegno è sempre stato quello di migliorare il deficit strutturale. Ora, nella Nota, è previsto un peggioramento dello 0,8% per il 2019, 2020 e 2021. E così, nero su bianco, il governo scrive che il processo di riduzione dell'indebitamento strutturale partirà solo dal 2022. Altra regola che il governo ammette già di non potere rispettare è quella del debito. L'andamento è decrescente, ma il rapporto debito-Pil nel 2021 è previsto eccedere il benchmark di 3,9 punti percentuali.
La super crescita si diceva. Le stime del Pil (1,5% nel 2019, 1,6% nel 2020 e 1,4% nel 2021) sono portate a livelli molto distanti rispetto alle previsioni dei principali organismi nazionali e internazionali, che collocano in media l'asticella intorno all'1-1,1 per cento per il prossimo anno. Come fa il governo a spingersi così in alto? La risposta si trova tra i numeri della Nota di aggiornamento, accompagnati da un ragionamento politico: l'impatto sul Pil delle misure previste, dal reddito di cittadinanza al superamento della Fornero, è pari allo 0,6 per cento per quanto riguarda il 2019, allo 0,5% nel 2020 e allo 0,3% l'anno successivo. Che sia un'operazione ambiziosa lo riconosce lo stesso Tria nella prefazione che apre la Nota, rilanciando al rialzo: "Questi obiettivi di crescita economica sono ambiziosi ma realistici, e potrebbero essere oltrepassati, per almeno due motivi". Qui entrano in gioco altri due frecce che il governo pensa siano in grado di centrare il bersaglio della crescita, ma che rischiano alla fine di trasformarsi in boomerang: un piano di rilancio degli investimenti pubblici, che negli ultimi anni non sono mai decollati, e la convinzione - si legge sempre nel testo - "che una volta che il programma di politica economica del Governo sarà approvato dal Parlamento, si dissolva l'incertezza che ha gravato sul mercato dei titoli di Stato negli ultimi mesi". In pratica un'inversione dello spread, che però nelle ultime settimane ha mostrato una dinamica totalmente opposta: è salito, anche oltre gli 300 punti, quando le discussioni sulla manovra si focalizzavano su prospettive vicine allo schema finale tracciato per i conti pubblici.
Un'altra bacchetta magica che il governo è pronto a imbracciare è quella delle privatizzazioni. Nel biennio 2019-2020 - è la stima del governo - si punta a incassare circa 10 miliardi in modo da riversarli nell'operazione di abbattimento del rapporto debito/Pil. E' una ricetta antica, che ora viene rispolverata, ma che negli ultimi anni ha avuto un iter alquanto complesso, portando un magro bottino nelle casse dello Stato. Era il 1992 quando si pensò alle privatizzazioni per abbattere il debito. In mezzo ci sono più di 25 anni di operazioni travagliate e insuccessi. Basta pensare al grande piano di dismissioni lanciato da Berlusconi nel 2001: si volevano portare a casa 60 miliardi, ma alla fine il risultato fu il trasferimento delle quote di Enel, Eni e altri asset strategici dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti. C'è la storia del tentativo non riuscito su Alitalia e molti altri esempi. La ricetta, riproposta, ingloba molte incognite e poche certezze. Pacchetto che contempla la vendita del patrimonio immobiliare e il proposito di rivedere di rivedere i canoni di concessionari, riferimento quest'ultimo alla vicenda Autostrade.
Capitolo clausole di salvaguardia sull'Iva. Nel 2019 l'Iva non aumenterà e si farà ricorso all'extra deficit, ma nel 2020 e nel 2021 le clausole ci saranno ancora: saranno ridotte come portata, e questo porterà a un beneficio sul deficit, ma l'altra faccia della medaglia contempla l'aumento, anche se limitato, dell'imposta. Uno schema, quindi, che da una parte punta a un beneficio, ma dall'altro ha un costo politico altissimo. Ma appare una via obbligata perché le risorse per coprire le misure, soprattutto nel 2020 e nel 2021, sono ridotte al lumicino.
Qui si innesta la seconda partita dell'operazione conti pubblici, cioè le misure da inserire nella manovra. Dopo l'ennesima giornata di tensioni sulla spartizione delle risorse, alla fine si decide una composizione che assegna 10 miliardi al reddito di cittadinanza (9 per le pensioni e il reddito, 1 per la riforma dei centri per l'impiego), 7 miliardi alla quota 100 per il superamento della legge Fornero sulle pensioni, 2 per la flat tax al 15% destinata alle partite Iva, 1 miliardi per le assunzioni nelle forze dell'ordine e 1,5 miliardi per i risparmiatori che hanno avuto perdite per colpa dei fallimenti bancari. La spartizione è definita, ma non è detto che accontenti Salvini e Di Maio. Fonti di governo, infatti, riferiscono di malumori in capo al leader della Lega che sarebbe stato costretto a ridurre la portata della quota 100 per chiudere l'accordo con i 5 Stelle. L'importo di 7 miliardi, in effetti, delinea il bacino più ristretto tra tutti quelli ipotizzati nelle scorse settimane: 400mila uscite e quota 100 solo con la formula 62+38 (età anagrafica+anni di contributi) a fronte di 495mila prepensionamenti che sarebbero stati garantiti se si avessero avuti a disposizione 8,5 miliardi.

giovedì 4 ottobre 2018

Manovra 2019, quel tanto che basta per pompare la campagna elettorale

Il ritocco del deficit non basta a Bruxelles. La manovra ha a malapena le coperture per il 2019, ma è quel che serve per la corsa alle Europee. Dopo si scommette su un'Europa sovranista

Più che un segnale per rasserenare i mercati, la mossa, ovvero il ritocco del deficit per il 2020 e 2021, pare un modo per precostituirsi l'alibi del "grande conflitto" con l'Europa matrigna. E tenerlo alto, mettendo in conto che possa bocciare la "manovra del popolo". Ecco, sembra una rassicurazione, ma resta l'azzardo giocato fin qui attraverso una manovra omerica, che si trasmette per tradizione orale, in una conferenza stampa senza domande, negli spin dei partiti e nelle dirette facebook. A una settimana dagli annunci trionfanti dal "balconcino" di palazzo Chigi, non c'è ancora una tabella compiuta, fatta di numeri certi e indicazione di coperture, anche se viene dato come imminente l'approdo in Parlamento.
È l'azzardo di un calcolo politico che tiene come orizzonte le europee, più che la legislatura. Un anno e via, poi si vede, rinviando tutto all'Europa sovranista della prossima primavera, con un'altra Commissione, altri equilibri di forza, altro clima. È la conferenza stampa di due partiti in campagna elettorale, più che di un governo, quella che è andata in scena a palazzo Chigi, con un ministro del Tesoro evidentemente provato e a disagio. E quella che è proseguita nelle dichiarazioni successive e nei numeri forniti dalle "fonti di governo" dei due partiti. La bocca di Salvini non pronuncia mai la parola "reddito di cittadinanza", la bocca di Di Maio non pronuncia la revisione della Fornero o la flat tax, non si capisce quanti miliardi siano destinati all'una e all'altra misura. I numeri che si comprendono raccontano di una tensione destinata a rimanere. Primo tra tutti il rapporto deficit-Pil, al 2,4 per il 2019, vero oggetto di valutazione della Commissione europea che si discosta di parecchio dallo 0,9 fissato nel Def di aprile. E si discosta dal criterio ricordato dal commissario europeo per gli affari economici Pierre Moscovici, secondo cui il deficit strutturale deve comunque migliorare anche se quello nominale resta contenuto sotto la soglia del 3 per cento. col 2,4 c'è invece il rischio che il deficit strutturale non sia nella traiettoria fissata dal patto di stabilità e di crescita. Soprattutto se vengono fatte stime di crescita troppo ottimistiche, come l'1,6, cifra che giustificherebbe l'obiettivo del 2,4. Non c'è un economista o esperto di finanza persuaso dalla possibilità di raddoppiare il tasso di crescita, in un paese in pieno rallentamento economico, facendo leva su misure che, come il reddito di cittadinanza, aumentano la spesa corrente. A conti fatti, in questa lotteria di numeri in libertà mancano almeno 15 miliardi di coperture. Le promesse del "contratto" di governo sono debito, inteso come debito pubblico, su cui svolazza il famoso Cigno nero, l'evento imprevisto che ci avrebbe spinto al punto di non ritorno nel conflitto con l'Europa. Quel cigno è nella logica politica della manovra del governo gialloverde, primo esperimento sovranista e, per molti, anticipazione dell'Europa che verrà. Al netto dei ritocco del deficit per il 2020 e 2021.
Si sarebbe potuto inserire il reddito di cittadinanza come misura "sperimentale" e "temporanea", da oprire col condono, il che avrebbe consentito di ridurre la spesa pluriennale. Se ne è discusso ma è stata un'ipotesi scartata, perché "Di Maio non se lo può permettere politicamente". Così come la Lega fa sapere che 10 miliardi sono per le misure rivendicate dalla Lega, a partire dalla revisione della Fornero, perché "per Salvini è irrinunciabile". È chiaro che siamo di fronte alla "guerra vera" di cui ha parlato Paolo Savona qualche giorno fa. Che non è indolore e a costo zero. Qualunque cosa farà l'Europa, e non è fantasioso prevedere che possa bocciare la manovra, e qualunque cosa faranno le agenzie di rating (e non è fantasioso pensare e un declassamento) Matteo Salvini e Luigi Di Maio potranno tenere viva la narrazione delle "promesse mantenute", della "povertà abolita", dei X milioni di cittadini che hanno avuto il reddito di cittadinanza (che le loro famiglie sono almeno X al quadrato di votanti), "dei poteri forti" che non ci hanno fermato. Per un anno. E poi si vede.