venerdì 6 aprile 2018

Il Pd è una balena spiaggiata



06 aprile 2018

Il Pd è una balena spiaggiata

L'ala governista dem è attratta da un dialogo con Di Maio. Che però ha già stretto un accordo con Salvini. Con tutti i suoi limiti, l'unico che tenta di arginare i populismi è Renzi. La sinistra invece di opporsi all'ex segretario pensi a riforme vere. E lasci perdere le sirene della responsabilità.


L’ala governista del Pd, che comprende anche autorevoli suggeritori esterni, propone soluzioni che sono figlie dell’ “eccezionalismo” (devastante cultura di sinistra) e non di una visione liberale delle istituzioni, del governo e della vita pubblica. Pensiamo a due temi su cui la discussione si è accesa. Il primo è il dialogo con Di Maio. Con tutta evidenza Di Maio ha già in tasca l’accordo con Salvini e i due stanno tendando il colpo grosso: l’uno di disintegrare Forza Italia, l’altro di fagocitare un pezzo del Pd. Il Pd, se pure decidesse di appoggiare Di Maio, non gli darebbe una vera maggioranza e ci sarebbe sempre bisogno dell’aiutino di Salvini.
NON SI GOVERNA CON PROGRAMMI CONTRAPPOSTI. I “cattivi maestri” (grandi teste d’uovo della sinistra) che stanno dando suggerimenti a Martina, reggente del Pd, lo vogliono in realtà morto. Trascuro il fatto che non si governa con programmi contrapposti, che non si sta sempre al governo con Monti, Verdini, e domani con Di Maio-Salvini se si vuol ricostruire una immagine di partito e non confermare quella di burocrati attaccati al potere. Infine lascio perdere l’ultimo sussulto della cultura della superiorità antropologica di alcuni personaggi di sinistra che pensano di essere in grado di addomesticare il nostrano lepenista e il buffo populista. Ogni volta che questa parte di sinistra presuntuosa ha preso il sopravvento, la sinistra ha preso botte da orbi.
L'OSSESSIONE PER RENZI. La seconda tematica assai poco liberale riguarda la polemica su Renzi. Non devo dire qui la mia avversione verso l’ex premier. Come tanti avevo avuto una iniziale curiosità e desiderio che portasse aria nuova e come tanti, forse ancora di più, dopo pochi mesi, mi sono collocato fra i suoi critici più severi. Ha perso e si è dimesso, ma molti, con tutti i guai che ha l’Italia, sono attratti da un unico interrogativo: si sarà dimesso davvero?
La linea renziana di contrapposizione ai populismi, se verrà mantenuta, è l’unica che colloca il Pd in acque dove si può pescare e non in quel pezzo di mare in cui Salvini e Di Maio pescano a strascico
Vorrei rivelare alcuni segreti. Il primo è che l’eliminazione del perdente è il frutto incivile di una cultura post-Prima Repubblica, nella quale invece il perdente, pensate ai vari leader della Dc, aveva sempre una seconda o terza occasione se godeva dell’appoggio di settori della società e della politica. Secondo: per eliminare Renzi definitivamente, escludendo l’omicidio, proibito dal codice penale, resta solo la strada della costruzione di una linea più convincente della sua e di una candidatura al vertice più forte di quelle che piacciono a lui. Vorrei infine ricordare che Renzi è protetto dalla Costituzione e fino a che non sarà interdetto dall’attività politica è legittimo che la faccia. Non so se sia una scelta da parte sua molto utile, visto che gli servirebbe, invece, stare fuori dalle scene per un buon periodo di tempo.
SERVE UN ARGINE VERO CONTRO I POPULISMI. Quindi Renzi c’è. E sapete perché Renzi c’è? Perché la sua linea di contrapposizione ai due populismi, se verrà mantenuta, è una vera linea politica ed è l’unica che colloca il Pd in acque dove si può pescare e non in quel pezzo di mare in cui Salvini e Di Maio pescano a strascico o con le bombe di profondità. In secondo luogo perché si sta lasciando a Renzi il tempo e lo spazio per definire una prospettiva. Il “macronismo” è una cialtronata del povero Gozi anche perché nessuno sa se il presidente francese ce la farà e se arriverà al secondo mandato. Non è, invece, una cialtronata l’idea di una forza moderata aggressiva verso i populisti e non più verso la sinistra. Voglio dire che se per un certo periodo di tempo è facile immaginare che i due populisti saranno ancora sulla cresta dell’onda, arriverà il momento in cui la società si stancherà di chiacchiere, di finti provvedimenti sociali, di tira e molla sulla politica estera.
In Italia i capi dello Stato, anche quando sembravano orientati ad arginare la destra, hanno dissanguato la sinistra. Il presidente «ce lo chiede» non è un precetto divino. Lui chiede e la sinistra gli dice no
Renzi scommette su questo scenario al quale vuole arrivare con il suo Pd, intero o a pezzi. Chi gli si oppone pensa a un Pd, magari allargato a quelli di LeU, che sia più di sinistra. Questa non è una linea. È una linea di sinistra quella di stabilire le riforme che possono scassare il meccanismo che ha portato al fallimento l’economia italiana. Più Mazzuccato e meno Nannicini, per così dire.

LE SIRENE DELLA RESPONSABILITÀ. Resta l’ostacolo del «presidente ce lo chiede». In Italia i capi dello Stato, anche quando sembravano orientati ad arginare la destra, hanno dissanguato la sinistra. Il presidente «ce lo chiede» non è un precetto divino. Lui chiede e la sinistra gli dice no. Non è responsabile, urleranno i governisti. Perché vi pare responsabile mettere un ministro piddino nel caravan serraglio grillino ad approvare un programma tutto chiacchiere e distintivo e con priorità decise fuori dal parlamento da un giovane orfano che parla per slogan?

martedì 3 aprile 2018

Morosini Francesco — Persone — Venipedia®

#AccaddeOggi: il 3 aprile 1688, Francesco Morosini viene eletto all’unanimità con un unico scrutinio. Sarà il 108° doge della Serenissima. Famoso in tutta Europa per la sua magnifica difesa di Candia
Francesco Morosini fu il 108° doge della Serenissima (1688-1694).
venipedia.it

domenica 1 aprile 2018

Sta cambiando la geopolitica italiana?


Sta cambiando la geopolitica italiana?

Laura Lezza via Getty Images

Nella vita si cambia vestito (tutti i giorni, o quasi), casa (qualche volta), paese (assai più raramente). Ci sono cambiamenti che attraggono e altri che spaventano, alcuni più profondi e altri più superficiali. Né più né meno che in politica, dove pure ogni novità viene presentata come fosse epocale, che si tratti di una svolta oppure di una stanca riverniciatura di cose già successe.
Ora che al comando si trovano gli alfieri del cambiamento più radicale converrà dunque dotarsi di strumenti di misura appropriati che ci consentano di distinguere tra novità e rimasticature. E soprattutto di tracciare un solco, ognuno di noi, tra le novità che consideriamo un progresso e quelle che invece rischiano di farci fare un bel passo indietro.
Ci sono tre gradi di novità su cui, secondo me, si può misurare, già oggi, la nuova offerta politica.
La prima novità (il vestito, diciamo così) è puramente scenografica. Ad esempio, il presidente Fico che si fa fotografare in autobus altro non è che la riedizione di un copione già visto. Pertini sull'areo di linea, Rutelli in motorino, Marino in bicicletta. Immagini che a alcuni destano simpatia, a altri fanno venire il sospetto che si stia esagerando con la demagogia. Questione di gusti, viene da dire. Ma non proprio un inedito, nella nostra lunga vita repubblicana.
La seconda novità (la casa) è ancora tutta da vedere. Dovrebbe riguardare l'economia, i conti dello stato, i progetti di riforma. Tutte cose che vengono evocate sempre per titoli, e mai specificate. Forse perché possono annoiare, o forse perché rischiano di deludere. Sta di fatto che sulla flat tax e sul reddito di cittadinanza si resta per ora alla superficie degli enunciati e si fa una gran fatica a entrare nel merito. Troppo presto, si dirà. Eppure la sensazione che si stiano mettendo in campo suggestioni quasi solo virtuali non sembra così campata in aria.
La terza novità (il paese) è infine quella di cui si dovrebbe parlare di più e di cui invece tutti tacciono -o quasi. Il passaggio verso un condominio di governo tra M5s e Lega implica il rischio di un cambiamento negli orientamenti fondamentali della nostra politica estera. Finora, eravamo rimasti saldamente legati all'ortodossia europeista e atlantica. Ora invece si profila il rischio che quella ortodossia venga smentita. E che la non troppo lontana Russia putiniana diventi il lord protettore di un'Italia in cerca di nuovi ancoraggi. Non sarebbero proprio i cavalli cosacchi che si abbeverano a piazza San Pietro, ma una certa apprensione al riguardo è ragionevole nutrirla.
Ora, io non so (e nessuno sa) come andrà a finire la partita di questa legislatura. Personalmente, ho la sensazione che Di Maio e Salvini avranno più facilità a accordarsi sulla data del voto che non sul programma di governo. Ma sono sensazioni, e valgono assai poco.
Il tema vero, invece, è che qualunque nuovo esecutivo, di qualunque colore politico, dovrà chiarire quali sono le coordinate internazionali tra cui intende muoversi. Non fosse altro perché in un mondo globale tutte le sovranità nazionali sono assai relative. E dato il debito che abbiamo, la nostra è perfino più relativa di quella degli altri.
Dovremmo rivolgere lì, la nostra attenzione. E chiederci se stiamo cambiando un vestito, oppure un paese. Peccato che nessuno ne parli.

Di Maio e Salvini, due leader condannati alla rivoluzione

Di Maio e Salvini, due leader condannati alla rivoluzione

Non si può prometterla e non realizzarla nemmeno un po'. Che a governare siano il Movimento e la Lega insieme o solo uno dei due, serviranno mosse iniziali esemplari. A noi non resta che incrociare le dita.



La storia dei governi italiani dice che il Di Maio I venturo, o il Cinquestelle I e chi ci sta, o il centrodestra salviniano I, o comunque il nuovo governo, ha tutto il tempo per venire a maturazione. Dopotutto ci sono state e neanche in anni lontanissimi gestazioni quadrimestrali o quasi, dalle dimissioni dell’esecutivo precedente all’insediamento del successore, durate 127 giorni (dopo il Dini 1996), e 104 giorni (dopo il Prodi 2, 2008) per non parlare dei quattro mesi circa dopo l’Andreotti I e V (1971 e 1979). Tanto tempo quindi. Sempre seguito tuttavia a breve o medio da elezioni anticipate, dopo Dini, Prodi e i due Andreotti. Questa volta con i Cinquestelle soprattutto e anche con Salvini scattano però le logiche “rivoluzionarie” che hanno sempre tempi limitati: non si può aver promesso e promettere la “rivoluzione”, ora dopo le urne a portata di mano, senza realizzarla almeno un po’, e con mosse iniziali esemplari e rapide. L’attesa della rivoluzione stanca, sia essa “il governo dei cittadini” promesso dai Cinquestelle o il “non vedo l’ora di essere al governo per cambiare le cose” di Salvini e Giorgetti.
URGE LA RIVOLUZIONE. La rivoluzione ha tempi stretti, urgono mosse comprensibili che consentano di rivolgersi al popolo e dichiarare – cosa in genere non vera - che l’“odiato” mondo di ieri non c’è più. Per ora siamo all’omaggio colorito e sceneggiato di Beppe Grillo sotto la statua di Jean-Jacques Rousseau, patrono della vittoria, sulla ginevrina vecchia Ȋle aux Barques, da tempo Ȋle Rousseau. Sarebbe inopportuno diffondere per il mondo immagini e testo. Si possono anche vincere le elezioni in Italia, ma non è con questi show che si difende l’italianità nel mondo. C’è poi quanto osservava mezzo secolo fa Hannah Arendt, importante studiosa di rivoluzioni e totalitarismi e critica di un Rousseau pre-totalitario, quando diceva che «il più radicale dei rivoluzionari diventerà un conservatore il giorno dopo la rivoluzione». Finita e vinta la campagna elettorale, non sempre le promesse hanno lo stesso suono e rivelano lo stesso volto speranzoso. Hanno anche altri volti più preoccupanti.
QUEI VALORI OTTOCENTESCHI. Sia la Lega salviniana che i Cinquestelle di Di Maio e Grillo credono nella realtà di alcune mosse giuste e rapide che sistemino molte cose. E hanno un senso di onnipotenza perché a entrambi sono riuscite due operazioni eccezionali. Primo partito italiano in appena nove anni il Movimento, fondato nel 2009 dopo le sporadiche liste alle amministrative di quell’anno. Solo Emmanuel Macron ha fatto meglio, in Francia. E la quasi quintuplicazione dei voti dopo lo sfascio della Lega di Bossi per Salvini. Da veri rivoluzionari, e anche questa è una annotazione della Arendt, più che combattere per il potere «hanno capito quando il potere se ne stava gettato per strada e quando era possibile chinarsi per raccoglierlo». I governi degli ultimi 15 anni, chi più chi meno, lo avevano lasciato su un parapetto non riuscendo a spiegare agli italiani chi eravamo, dove volevamo andare, dove potevamo andare. E sono arrivati Grillo-Di Maio e Salvini con prospettive “rivoluzionarie”, più o meno nazionaliste, quindi fondate su valori in definitiva ottocenteschi. Solo allora la Nazione era tutto.
I Cinquestelle più che avere contenuti sono un contenitore. Il loro trademark è la fede nel web e nella rousseauiana democrazia diretta, che negli ultimi 2.500 anni (si favoleggia esistesse ad Atene) non ha mai funzionato
Il futuro è per definizione poco noto ma una cosa certa (o quasi) è che uno dei due schieramenti andrà al governo, forse entrambi. Non si sa per quanto. E non si sa che cosa riusciranno a fare. Il Pd, chiaramente, e non solo, spera che non riescano a combinare molto, eventualmente qualche disastro che porti un numero sufficiente di italiani a un “aridatece er puzzone”. Speriamo invece che si comportino bene e facciano qualcosa di utile, per quel tanto che ci separa dalle prossime elezioni, e dal cruciale voto europeo del maggio 2019, ma due semplici riflessioni non lasciano del tutto tranquilli. I Cinquestelle più che avere contenuti sono un contenitore. Il loro trademark è la fede nel web e nella rousseauiana democrazia diretta, che negli ultimi 2.500 anni (si favoleggia esistesse ad Atene) non ha mai funzionato ed è mediata, ampiamente, da quella rappresentativa nello stesso invocato paradiso svizzero dei referendum cantonali. I grillini si adattano ai tempi. Con la Ue sono diventati più possibilisti perché a Bruxelles, e soprattutto sul filo Berlino-Parigi, potrebbe esservi nel corso del 2018, con l’attivismo europeo di Macron e una Merkel costretta a onorare in qualche modo l’asse con Parigi, qualche novità.
L'ENIGMA SALVINIANO. Meno severità sui deficit, a precise condizioni? La convinzione di alcuni pentastellati, fra quanti masticano di Europa, è che la minaccia di sanzioni è sempre meno efficace e la minaccia di una cacciata dall’euro degli inadempienti, l’Italia e se esce l’Italia anche la Grecia, fa paura a tutti, in una costruzione che non contempla uscite. Ai Cinquestelle e a Di Maio, che si vede già Macron italico, piacerebbe tanto essere gli interlocutori di questa nuova fase. Ma è un gioco complicato, ancora molto incerto, e occorre saperlo giocare, non ci si improvvisa. Dopotutto Macron esce dalle grandes écoles. I nostri hanno una laurea (magari triennale) in Scienze della comunicazione, quando ce l’hanno, e non sono poliglotti. La Lega salviniana sull’Europa è un enigma: con un elettorato in gran parte interessato a mantenere in euro i propri conti correnti, come Marine Le Pen stessa ha ammesso essere il suo elettorato francese, i salviniani attaccano a fondo la moneta unica, auspicano (anzi, per i neo onorevoli Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai è una certezza) la sua fine, e invocano in nome della “sicurezza nazionale” l’uscita italiana, non da soli perché è difficile ma insomma per quello occorre lavorare.
DEBITO, QUESTO SCONOSCIUTO. Sognano la lira. Pilastro di tutto è l’idea che, per una nazione con sovranità monetaria, che batte cioè la sua moneta, il debito non è un problema perché lo monetizza. Mai sentito parlare della Repubblica di Weimar? E come mai dal 1970 al 2008, per prendere solo episodi recenti studiati da Kenneth S. Rogoff, ci sono stati nel mondo una quarantina di default del debito pubblico con ristrutturazioni, ritardi e disastri vari? Non bastava creare moneta, come dice Borghi Aquilini, e perché non lo hanno fatto? Intanto a Ginevra Grillo saluta con enfasi e sbracciandosi come sempre Jean-Jacques, maestro di libertà: «Jean-Jacques, noi dobbiamo democratizzare un popolo, gli italiani. E adesso la tua eredità ce l’ha Casaleggio Davide». Speriamo bene e teniamoci forte

2001 Odissea nello spazio 2


2001 Odissea nello spazio è Dio, il mondo e Nietzsche. Ma anche nulla di tutto questo
Quando lo vide Rock Hudson uscì dalla sala: “Qualcuno può dirmi di che diavolo parla questo film?”. Non c'è nulla da trovare. La cosa migliore da fare, forse, è perdersi.
Nicola Mirenzi Giornalista e blogger

Quando la prima proiezione di 2001: Odissea nello spazio non era ancora finita, Rock Hudson si alzò dalla poltrona e uscì dalla sala domandando: "C'è qualcuno che può dirmi di che diavolo parla questo film?". Da allora – era il 29 marzo 1968, proiezione per Life, prima dell'uscita al cinema il 2 aprile 1968– sono state date a questa domanda decine, forse centinaia di risposte scritte, interpellando il mistero, la divinità, l'infinito, la magia, i totem, l'alchimia, i miti, la psicoanalisi, la numerologia: interi saperi sono stati mobilitati a decifrare l'enigma.
"Ciascuno è libero di fare tutte le speculazioni che vuole sul significato filosofico e allegorico del film", disse Stanley Kubrick in un'intervista con "Playboy", una delle poche volte in cui ne parlò. L'intervistatore, Eric Norden, gli aveva sottoposto l'ipotesi che il suo fosse "il primo film nietzschiano" della storia, individuando una corrispondenza tra l'avvento del super-uomo profetizzato dallo Zarathustra di Friederich Nietzsche e il figlio delle stelle concepito nell'universo alla fine della sua Odissea. "Non è un messaggio che ho mai inteso comunicare a parole", risponde il regista: "2001 è una esperienza non verbale".
Nelle due ore e diciannove minuti del film, i dialoghi tra i personaggi occupano meno di quaranta minuti. Si parla poco, pochissimo nel film – ma, quando è finito, non si fa altro che parlarne. "Per le sue sapienti ellissi e i suoi vuoti, così come per le sue sovrapposizioni arbitrarie di musica e immagine – scrive Michel Chion ne "L'umano, né più né meno" (Lindau) – il film di Kubrick è una macchina per far salivare nello spettatore la ghiandola interpretativa". Le scene diventano così un rimando, un'esca lanciata per far abboccare all'amo del significato, facendo scorgere dietro di esse una chiave che apre la porta del senso. E più le immagini tacciono, più si moltiplicano le esegesi. Sopratutto, filosofiche.
Il preludio di "Also sprach Zarathustra, Op. 30", – la sinfonia composta da Richard Strauss nel 1896 e usata da Stanley Kubrick all'inizio e alla fine del film – rimanda immediatamente al testo di Nietzsche a cui è ispirata, stabilendo – secondo Jerold J. Abrams – un legame tra le due opere. "Attraverso le immagini in movimento – scrive in "The philosophy of Stanley Kubrick" – il regista cattura l'intera epica evolutiva di 'Così parlo Zarathustra'". Il suo film attraversa i medesimi stadi dell'evoluzione nietzschiana, "partendo dalla scimmia, procedendo attraverso l'umanità e culminando in una nuova forma (oltre umana)" di vita, raffigurata da Kubrick con l'immagine del feto che nasce in orbita, nel grembo dell'universo, senza una madre e un padre, volteggiando nel cosmo come la "stella danzante" di cui parlava Nietzsche e che è stata partorita dal caos.
C'è un guastafeste, tuttavia, in questo castello interpretativo: e si chiama Dio. Nietzsche, infatti, è il filosofo che ha annunciato la sua morte. Kubrick, invece, dice – addirittura – che il concetto di Dio è "al centro" del suo film. Ma quale Dio? Il regista non ha in mente "un'immagine tradizionale, antropomorfa di Dio", bensì crede sia "possibile formulare un'affascinante definizione scientifica una volta accettato il fatto che esistono circa cento miliardi di stelle solo nella nostra galassia". Leggendo queste righe, il gesuita e scienziato John Braverman ha avanzato "un'interpretazione teologica" del film (è contenuta in "Interviste extraterrestri, Isbn Edizioni). "Il Dio presente in 2001: Odissea nello spazio – scrive – è il Dio dei filosofi. Non è il Dio personale, amorevole, delle relazioni intime caro a Isacco, Abramo e Gesù". Tuttavia, aggiunge, la definizione di Dio che propone Kubrick offre una "teologia molto profonda", giacché i passi logici che egli compie per arrivare ad abbozzare la sua idea della divinità ricalcano le linee logiche della teologia classica, in particolare quelle della "Summa" di San Tommaso d'Aquino. Le due formulazioni hanno uno spettacolare particolare in comune: "L'uso delle informazioni sul mondo naturale per inferire l'esistenza di esseri più intelligenti". Così – conclude Braverman – anche se Kubrick non crede a nessuna delle religioni monoteiste della Terra, la linea del suo pensiero ne segue perfettamente le orme.
È a Dio che torna anche Alberto Moravia, recensendo il film su l'Espresso del 29 dicembre del 1968, definendolo un prodotto e non un'opera d'arte, come invece lo concepisce Kubrick. Nell'articolo, Moravia parla dei monoliti che appaiono per quattro volte nella pellicola e che stanno "a indicarne l'arcana pre­senza" divina. Racconta che gli uomini, temerari, partono in volo per andare a esaminare e decifrare il significato di quella stele che non capiscono, comportandosi come noi spettatori che, di fronte al mistero delle immagini dell'"Odissea nello spazio", cerchiamo subito il conforto di una spiegazione che ci rassicuri, contravvenendo all'ipotesi di compiere, come desiderava Kubrick, un'"esperienza visuale" che oltrepassi l'astrazione delle idee e del significato. "Ho voluto che il film fosse – ha detto il regista – un'esperienza intensamente soggettiva, capace di raggiungere lo spettatore a un livello di consapevolezza interna, proprio come fa la musica: 'spiegare' una sinfonia di Beethoven equivarrebbe a infiacchirla, erigendo una barriera artificiale tra concetto e comprensione". Per questo, ogni volta che gli hanno chiesto di parlare dell'interpretazione del film, Kubrick si è rifiutato di dare una risposta, dicendo che non era sua intenzione fornire una mappa" con la quale orientare il percorso dello spettatore. Poiché in "2001: Odissea nello spazio" non c'è nulla da trovare. La cosa migliore da fare, forse, è perdersi.

"Uno shock anche in musica, quello Strauss mi ha segnato". Intervista al compositore Franco Piersanti su 2001 Odissea nello spazio
"Fu "Così parlò Zarathustra" a segnarmi. È un assunto filosofico soprattutto per la qualità musicale che è così particolare... è un marchio che rimane"




"2001: A Space Odyssey", un titolo e un film che sono leggenda. Cinquanta anni fa, il 2 aprile del 1968, veniva presentato in anteprima a Washington e da allora, quella pellicola ricordata spesso per le sue atmosfere rarefatte, asettiche e incorporee, non ha smesso mai di piacere tanto da diventare una pietra miliare del cinema. Il merito va al suo "creatore", il regista Stanley Kubrick, che la realizzò sulla base di una sceneggiatura originale portata avanti in parallelo come romanzo dallo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke - autore del racconto "La sentinella", considerato a sua volta l'embrione della storia - ma in realtà quella sceneggiatura scritta a quattro mani è da ritenersi originale tanto che gli valse una nomination all'Oscar, assieme a quella per la migliore regia e per la migliore scenografia, ma la statuetta arrivò solo per i migliori effetti visivi.
A distanza di cinquant'anni, il film – che segue la missione di un gruppo di astronauti in viaggio verso Giove affrontando molteplici temi differenti (da quelli fantascientifici all'identità e al destino dell'umanità fino al rapporto di quest'ultima con l'universo e con le intelligenze artificiali) - continua a piacere e ad avere un pubblico enorme di appassionati, tanto che al 71esimo Festival del Cinema di Cannes, in programma dall'8 al 19 maggio prossimi, nella sezione "Cannes Classics" sarà presentato in una versione non modificata in settanta millimetri dal "kubrickiano" Christopher Nolan, regista, tra gli altri, di "Interstellar" e "Dunkirk".
"2001: Odissea nello Spazio" ha rivoluzionato la fantascienza, "è un film che ha cambiato tutti per sempre", recita il claim della nuova locandina creata ad hoc dalla Warner Bros per la Croisette. La pensa così anche Franco Piersanti, da quarant'anni uno dei compositori più apprezzati, amati e richiesti nel nostro cinema, autore di colonne sonore indimenticabili, il preferito da Nanni Moretti (con cui lavora dal 1976, anno di "Io sono un autarchico"), Bernardo Bertolucci e Gianni Amelio, giusto per citarne qualcuno, autore delle inconfondibili musiche de "Il commissario Montalbano" nonché vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, dai David di Donatello ai Nastri d'Argento.
"2001: Odissea nello Spazio" è sicuramente un film fuori dalla temporalità: sarà per questo che piace così tanto?
"Sicuramente, ma soprattutto perché è un film che ha segnato e ha indicato in maniera profetica il futuro del cinema di fantascienza o comunque scientifico con dei risvolti forti e profondi anche sul piano filosofico. Quando uscì era il 1968, subito dopo la tecnologia è avanzata molto...è un film che ha dato un'accelerazione a tante cose. Ancora oggi vediamo dei film straordinari che non sono però a quel livello tecnico e pertanto, questo continua a rimanere sempre come un film di paragone sul piano della realizzazione tecnica".
Nel film c'è un'immagine iniziale e un'immagine finale che non presentano alcun tipo di dialogo per un totale di quasi cinquanta minuti veicolati solo da immagini, suoni e musiche: che effetto le fece vederlo all'epoca?
"Me la ricordo come uno shock e anche piuttosto angosciante ad un certo punto. La mia testimonianza non è di uno spettatore adulto e con un bagaglio culturale...credo che tutti siano stati aggrediti da quel film in senso buono".
Quale fu la sua reazione dopo averne ascoltato le musiche?
"Quando lo vidi, dell'intera colonna sonora, forse, a malapena, conoscevo solo "Sul bel Danubio blu" di Johann Strauss jr. Avevo diciotto anni, studiavo da qualche anno al conservatorio, ma il mio bagaglio culturale era ancora tutto da formare. Fu comunque "Così parlò Zarathustra" di Richard Strauss, il brano che segna l'inizio e la fine, a segnarmi particolarmente. È un assunto filosofico soprattutto per la qualità musicale che è così particolare... è un lemma, è come un marchio che rimane, ma quando vidi il film non lo conoscevo come brano musicale".
Come spiegherebbe quella colonna sonora oggi a chi non ha una certa cultura musicale ed esperienza come lei?
"Da musicista posso dire solo che quel film, offre spunti di riflessione profondi a 360°. Sulla musica, non è stato il primo, ma certamente questo è il film dove Kubrick ha usato soltanto musica di repertorio, una cosa che ha poi ha continuato a fare anche successivamente, penso a Shining ad esempio e Barry Lyndon. Ha sempre usato musica di repertorio".
Come saprà, la gestazione di questa colonna sonora non è stata facile, ma lunga e faticosa...
"Sì, infatti all'inizio sarebbe dovuta essere completamente diversa in quanto realizzata da Alex North – autore della musica del kolossal Spartacus, poi, però, quel noto compositore hollywoodiano fu messo da parte, perché Kubrick aveva già in mente di usare questa musica di repertorio. North non era assolutamente consapevole delle scelte del regista, non ne sapeva nulla. I brani erano stati registrati, ma poi non furono inseriti e la partitura originale di North è rimasta una leggenda nel mondo della cinematografia, forse anche perché venne respinta da Kubrick".
A livello musicale, scelte come queste, a dir poco drastiche, cosa comportano?
"Per la musica del cinema è un dato importante perché ancora oggi la musica di repertorio è per alcuni compositori un po' come il diavolo e l'acqua santa, dal momento che quando si trovano a combattere con una musica preesistente, combattono con un'idea già realizzata su cui il regista deve sovrapporre la sua di idea".
Oltre a quelli già ricordati, cosa ci dice degli altri brani del film?
"Ognuno di quei brani è perfetto per quel film, mi riferisco anche a "Atmosfere" "Luce Eterna" "Avventure" e "Kyrie" di Gyorg Ligeti o la suite del balletto "Gayane" di Aram Kachaturian. Le sue intuizioni musicali che ha avuto Kubrick sono state formidabili. L'inizio è straordinario, ha a che fare con l'assoluto, l'infinito, il crescendo, l'alba sulla terra, il sole che sorge...sono tutte immagini che sono diventate delle vere e proprie icone del Novecento assieme alla musica. Dello stesso peso sono state poi anche tutte le altre trovate, come la ruota della stazione spaziale con il "Sul bel Danubio blu" è straordinaria. Colpisce la leggerezza della trovata spiazzante, perché non è una musica certamente che a che fare con la tecnologia quel valzer lì, ma con l'impero viennese e con tutta un'altra cultura. Fa roteare la ruota come quella della ruota circolare al Prater di Vienna, sicuramente. Le ispirazioni e i motivi di abbinamento musicale sono formidabili per questo, perché per la prima volta non è musica scritta apposta, ma trovata apposta e le analogie sono stupende da questo punto di vista. Le due musiche di cui ho parlato all'inizio - "Sul bel Danubio blu" e "Così parlò Zarathustra" - sono quelle che restano di più dentro".
Lei è stato influenzato da questo film e dalla sua musica?
"No, nel mio scrivere musica non c'è stato, ma c'è stato solo un rimanere stupito davanti ad una cosa così profonda. È un film, lo ripeto, che ha dei lati insondabili. Probabilmente lo dico perché la scienza e la tecnologia mi appassionano molto e restano anche un certo mistero. Questo film le racchiude tutte quante da allora. È straordinario, cosa si può dire di più? La parte del cervello HAL 9000 sembra una faccenda shakespeariana quasi, come non amarlo"?
Dunque, un film da consigliare a quei pochi che ancora non lo hanno visto?
"In realtà invidio molto chi non lo ha ancora visto. Sarebbe interessante vedere la reazione di un adolescente, vedere cosa ne pensa alla sua prima visione, anche se in realtà oggi i ragazzi convivono già con quel genere di film. Potrebbero stupirsi che in quegli anni succedeva una cosa del genere nel film, un po' come a noi i film di fantascienza degli anni Quaranta e Cinquanta".
Lo consiglierebbe anche a qualche politico?
"Sì certo, nella maniera più assoluta, magari gli fa bene! Io, personalmente, non lo vedo da tempo, ma la qualità del film dal punto di vista tecnico è straordinaria ancora oggi".
Parliamo di lei: quando scrive una musica per un film è sempre un'esperienza diversa. Qual è la sua regola? Come lavora?
"Gli approcci con un film variano da musicista a musicista e da musicista a regista e al rapporto che hanno. Il regista lo racconta al musicista e già questa è una chiave importante per entrarci. Poi c'è la sceneggiatura, la lettura, ma la cosa più importante è vedere il risultato, non tanto il film finito, ma le prime immagini che sono la proiezione completa del regista stesso. Dalla pagina scritta alla realizzazione: tutte queste cose qua hanno un fattore importante che dipende dal momento, dalle condizioni economiche in cui il regista viene messo per girarle. Sono tutte cose che contribuiscono a renderlo migliore, diverso e tutto quello che si è discusso prima, cambia. Quando c'è il film, anche sen non è finito di montare ed è in una fase provvisoria, lì è il punto cruciale dove l'idea ha finalmente un confronto con quello che è stato progettato e si può cambiare oppure prendere un'altra strada, anche molto velocemente, perché non c'è tanto tempo per pensare".
Scusi la domanda che può sembrare banale o che richiede una risposta molto ampia, ma cos'è per lei la musica?
"È il mio modo di vivere da sempre, una parte essenziale del mio modo di vivere, mi ha permesso di vivere facendo questo lavoro, è un modo di pensare".
Dopo "La Tenerezza", l'ultimo film di Gianni Amelio e i due episodi della serie tv Montalbano, quali musiche farà?
"Farò i due nuovi Montalbano che stanno per iniziare a girare e un film di un regista americano, Joshua Sinclair, intitolato "A Rose in winter", la storia di Edith Stein, una filosofa ebrea convertita al cristianesimo che si è fatta monaca, internata ad Aushwitz dove è morta e poi canonizzata negli anni Ottanta".
Farà anche il film che Amelio sta per girare su Craxi?
"Questo non lo so, si vedrà. Sono esigenze che piano piano devono arrivare, non mi sento di dire nulla, in base a come cambiano le esigenze dei registi. Tornando a Kubrick, può darsi che la musica di repertorio ad un certo punto sia più funzionale per i registi stessi".


Stanley Kubrick e Roger Waters, storia di screzi e incomprensioni di due geni burberi ed egotici. Uniti a loro insaputa da 2001: Odissea nello Spazio
Gianni Del Vecchio Condirettore L'HuffPost


Due geni assoluti, due menti superiori, due ego ipertrofici, due caratteri difficili, due artisti che hanno cambiato musica e cinema e hanno forgiato l'immaginario collettivo di almeno tre generazioni. Due anime destinate a incontrarsi ma che sono finite per scontrarsi. E che solo la magia di 2001: Odissea nello Spazio è riuscita a riunire. A loro insaputa.
La storia è molto semplice ed è questa. Siamo nel 1970 e Stanley Kubrick, dopo le fatiche di 2001: Odissea nello spazio, sta lavorando all'altro grande film che l'avrebbe consegnato alla storia del cinema e cioè Arancia Meccanica. Come suo solito, si getta febbrilmente alla ricerca delle musiche adatte, visto che per lui la qualità della colonna sonora viaggia di pari passo con quella della fotografia. Si ritrova per le mani un disco strano e per certi aspetti rivoluzionario uscito proprio in quell'anno, riconoscibilissimo per una strana mucca in primo piano come copertina. Si tratta di Atom Heart Mother, album sperimentale di un gruppo in ascesa sulla scena anglosassone e che da lì a poco avrebbe composto il più bel disco della storia del rock: i Pink Floyd. In particolare, il regista si innamora della title track, una suite di ben 24 minuti per la cui registrazione la band inglese ha assoldato addirittura un'orchestra sinfonica. Gli piace così tanto che alza la cornetta e chiama direttamente il leader del gruppo, il bassista Roger Waters. Ma è qui che purtroppo succede il patatrac, è qui che i due ego si toccano e inevitabilmente danno luogo a un esplosione. Waters racconta così la telefonata. "Stanley ci chiamò e ci disse che voleva la nostra canzone. Noi gli dicemmo 'Bene, che ne vorresti fare?'. Lui rispose: 'Non lo so ancora, ma la voglio usare come voglio e quanta ne voglio'. Allora non avemmo esitazione e gli rispondemmo: 'Bene, niente da fare, non te la diamo' ".
Il gran rifiuto bruciò molto a Kubrick che - come raccontano le innumerevoli biografie - in virtù di un carattere tutt'altro che accomodante si legò al dito la questione da lì agli anni a venire. Dovette aspettare suppergiù una ventina d'anni, ma l'agognata vendetta arrivò. Fredda ma allo stesso tempo gustosa. Nel 1991 Waters sta lavorando al suo terzo album da solista, Amused to Death, quando decide di usare la voce di Hal 9000, il celebre computer di bordo di 2001, in una delle canzoni. Forse immemore dello sgarbo di un paio di decenni prima, gli viene l'incauta idea di chiedere il permesso al regista in persona. Ovviamente Kubrick coglie l'occasione per liquidarlo con un secco no, dicendo che se avesse dato il via libera a Waters l'avrebbe dovuto dare a tutti. Apriti cielo. Paragonare la mente dei Pink Floyd a "qualsiasi altro cantante", viene vissuto come un reato di lesa maestà da Roger. Tanto che a sua volta decide di contro-vendicarsi proprio nel luogo dove ci sarebbe dovuto essere il tributo celebrativo al regista americano. Nella canzone Perfect Sense - Part 1 inserisce un messaggio alla rovescia non proprio amichevole nei suoi confronti. Insomma, si scatena la tempesta perfetta fra due geni burberi ed egotici.
Ma l'alchimia di 2001: Odissea nello Spazio non poteva lasciare nulla di irrisolto fra due artisti tanto simili e vicini da ineluttabilmente finire distanti. Qualcosa doveva accadere. E se la scintilla ormai non poteva più scoccare fra i due, ci avrebbe pensato il destino a riunirli indissolubilmente. E il destino, si sa, spesso veste i panni dell'ignaro passante. Nel 2008 a uno sconosciuto utente di Youtube viene la pazzesca idea di sovrapporre la scena finale di 2001, quella intitolata Jupiter and beyond the infinite, con Echoes, canzone di chiusura dell'album floydiano Meddle (1971), uscito curiosamente lo stesso anno di Arancia Meccanica. Ebbene, il risultato è strabiliante: a parte qualche piccola sfasatura, immagini e musica viaggiano in sincrono, come se le due cosse fossero nate per stare assieme nonostante fossero state partorite in posti diversi e in anni diversi. O forse in realtà sono creature gemelle, divise solo dalla distorsione dello spazio e del tempo, la stessa che chiude in maniera circolare il capolavoro di Kubrick. Chissà, forse alla fine anche a Stanley e Roger piace pensarla così.


2001 ODISSEA NELLO SPAZIO 50 ANNI PORTATI BENE 1°


2001 ODISSEA NELLO SPAZIO 50 ANNI PORTATI BENE

"Che succede Hal?". Compie 50 anni l'Odissea di Kubrick che portò il '68 al cinema e anticipò i dilemmi morali di oggi
La fantascienza diventa testo allegorico ed esoterico in cui cercare di decifrare non solo il futuro, ma anche il mistero della vita, della nostra vita
Aol
"Va verso la tenda, guarda dietro di essa e scopre una porta aperta dove prima c' era una solida parete. Fissa gli occhi spalancati in ciò che appare uno spazio infinito, un mondo senza orizzonti. Come il caos prima della creazione: vuoto e senza forma": firmato Stanley Kubrick ed Arthur C. Clarke. Sono le battute finali di un copione di 2001: Odissea nello spazio, trovato per caso in un negozio di manoscritti e libri usati di San Francisco circa venti anni fa, in cui si trova una versione del finale del film differente da quello che Kubrick ha girato e montato nel suo celebre capolavoro destinato a consolidarlo definitivamente, alla fine degli anni sessanta, come uno dei più grandi registi di tutti i tempi. Oggi, che ricorrono i 50 anni dalla sua uscita nei cinema (la prima fu a Washington il 2 aprile del 1968), e che Cannes dedicherà al film una proiezione speciale, introdotta da Christopher Nolan, con una stampa tutta nuova, restaurata con la tradizionale tecnologia fotochimica, della copia a 70mm, vale la pena rievocare il cammino che quelle immagini hanno fatto fino a noi: sfidando radicalmente l'idea che avevamo dei film di fantascienza – ma anche, forse, quelle di civiltà, di cinema, di visione.
Le riprese del film cominciarono il 29 dicembre del 1965, più di un anno dopo il 17 maggio del 1964, giorno nel quale Kubrick e Clarke stipularono un accordo per scrivere insieme una sceneggiatura il cui titolo provvisorio era How the Solar System was Won.
Era sera e dalla terrazza dell' appartamento di Kubrick di New York i due videro un oggetto luminoso sfrecciare nel cielo. Risultò essere un pallone metallizzato utilizzato per rilevazioni nell'atmosfera, ma i due lo presero come il migliore auspicio possibile. Forse le intelligenze extraterrestri che guidavano l' umanità nel film stavano guidando anche loro.
Alla fine del 1964, Clarke e Kubrick terminarono un riassunto di più di cento pagine che nel nome dei capitoli conteneva gia l' articolazione del film (da "L' alba dell' uomo" fino a "Giove e oltre l' infinito"). In realtà lo script conteneva poco di quanto poi era destinato a diventare così straordinariamente interessante, così incredibilmente popolare, e la produzione si lamentava del fatto che non avesse un copione che le consentisse di definire i preventivi, il piano di lavorazione, le scenografie da costruire.
Il problema era che Kubrick non era per niente soddisfatto delle varie versioni in sceneggiatura delle celebri sequenze finali dell' ultimo capitolo ("Giove e oltre l' infinito") tanto che Clarke ne elaborò diverse varianti (e in effetti l' idea che è contenuta in questo finale "ritrovato" - una porta che si apre sull' infinito - era qualcosa cui il regista teneva in modo particolare visto che è proprio ciò che richiese esplicitamente al creatore degli effetti speciali Douglas Trumbull: "l' effetto della porta nello spazio, una sensazione di precipizio giù per un corridoio di larghezza infinita" si legge in John Baxter, Stanley Kubrick. La biografia) e che diventerà, invece il viaggio a perdifiato in un tunnel dove scorrono a velocita pazzesca disegni, quadri di pop art, diagrammi di cablaggio, schermi di computer.
Questo è il primo incontestabile segnale della grandezza cinematografica di Stanley K.: aver metabolizzato in un kolossal di fantascienza il cinema underground. Quella sequenza finale, che qualsiasi spettatore ricorda, fa tesoro di tutta la sperimentazione del New America Cinema del decennio precedente. Lo spettatore non lo sa, ma si porta negli occhi, a casa, un concentrato inaudito di arte d'avanguardia, un assordante cocktail pop – insieme a domande fondamentali come: siamo forse servitori passivi di civiltà sconosciute e remote che hanno portato la vita su questo pianeta per poi guidarci con dei monoliti come Hansel e Gretel con i sassolini nella foresta dell'infinità del tempo e dell'universo? Si può usare la musica di Richard Strauss per commentare la vita e le meraviglie tecnologiche che danzano nello spazio? Le macchine diventeranno così intelligenti da guidarci e controllarci come fa il più celebre computer della storia del cinema (Hal 9000. Che avrebbe potuto figurare tra le nomination all'interpretazione del film)? Ed è davvero cambiato qualcosa, nelle dinamiche del potere, nel controllo del territorio, nella manipolazione delle coscienze, tra l'era della scimmia e quella delle astronavi?
La fantascienza, che una volta era un posto semplice e fiabesco, avventuroso e meraviglioso - Lucas provvederà a riportarla ad uno stadio infantile con la meravigliosa regressione di Guerre Stellari, meno di dieci anni dopo - diventerà con il film di Kubrick un testo allegorico ed esoterico in cui cercare di decifrare non solo il futuro ma anche il mistero della vita, della nostra vita: quel monolite è un simbolo di Dio? Quel viaggio finale è una metafora dell'esplorazione dell'inconscio? E a quale società e civiltà appartiene quel feto che annuncia una rinascita ma soprattutto la morte di un mondo spossato e millenario impersonato dall'astronauta decrepito e muto?
Kubrick riscrisse l'intero finale solo con il cinema pescando come un profeta in una visione che gareggia con il potere di una creazione visiva all'altezza di Bosch, Dante o Dalì. Immagini mai viste, perturbanti, arcane, maestose.
Nel finale originario di quello script c'è uno zapping interplanetario che forse, in un film del genere, avrebbe anticipato il dibattito sulla televisione e la sua dittatura mediatica di qualche decennio (ad un certo punto l' astronauta si trova in una stanza d'albergo di fronte ad un televisore che cambia canali velocemente offrendo anche esempi di trasmissioni non umane), c'e una passeggiata su un pianeta il cui paesaggio è completamente disegnato dalla tecnologia come fa l' urbanistica con le città, ci sono distese interminabili di erba color porpora. Insomma, queste pagine non hanno avuto la fortuna di diventare immagini del cinema di Kubrick – ma quelle che lui scelse hanno continuato ad essere consultate, dibattute e interpretate, nelle case, nei cineforum, nella saggistica, per anni. Kubrick fa con noi spettatori ciò che gli extraterrestri nel film fanno con gli uomini. Ci sprona all'avventura del mistero dell'universo. Le scenografie settecentesche, il dialogo muto tra il moribondo e il monolite, gli occhi del feto che scrutano il pianeta azzurro. Sono immagini che contengono un messaggio sconosciuto, una interpellazione che nessuno sguardo poteva tralasciare. Come enigmi sapienziali destinati ad intelligenze superiori, come segnali ermetici dalla cui decifrazione dipendeva il nostro destino: se qualcuno ne conoscesse davvero il senso, forse saremmo ancora in tempo per salvarci.
2001 Odissea nello spazio, la potenza dirompente di "un'atomica buona" sul '68
Teresa Marchesi Giornalista e regista
Reuters Photographer / Reuters
UNDATED FILE PHOTOGRAPH - Famed film director Stanley Kubrick is shown on the set of his film "A Clockwork Orange" in this undated file photograph. Kubrick died at his home in London March 7. (BW ONLY) fsp/HO-Photo Courtesy Warner Bros. FSP/JP
Era il 1968, con gli studenti in piazza a sognare di cambiare il mondo. Non sapevamo che un anno dopo l'uomo avrebbe messo piede sulla Luna. Solo 14 anni dopo il genio incrociato di Philip K.Dick e Ridley Scott avrebbe prodotto la fantascienza filosofica di "Blade Runner". La tecnologia applicata agli effetti speciali era alla preistoria. Gli amici li chiamavi da casa col telefono fisso, Internet e i social non erano nemmeno una fantasia. In quel mondo, l'impatto sul nostro immaginario di "2001: Odissea nello spazio" ha avuto la potenza dirompente di un'atomica 'buona'.
Appartengo a quella bizzarra generazione che ha fatto l'alba (più di una volta!) per decodificare quel film. Ognuno aveva la sua lettura, di solito mirabolante, convincente mai. Mi ( ci ) mancava l'illuminante battuta sfuggita ad Arthur C. Clarke, che aveva elaborato con Kubrick la sceneggiatura partendo da tre suoi racconti datati ( "La sentinella", 1948, "Encounter in the Dawn", 1950, e "Guardian Angel", 1950 ) : "Se qualcuno avrà capito il film alla prima visione, avremo fallito nel nostro scopo". Virate in positivo, così suonavano le 'istruzioni per l'uso' di Stanley Kubrick : "Siete liberi di speculare a vostro piacere sul significato filosofico e allegorico del film..". Nessuna mappa per orientarsi.
Era un doppio salto mortale : non solo una forma sperimentale e visionaria di cinema, ma un cinema virtualmente interattivo. "2001, Odissea nello spazio"era, programmaticamente, un'esperienza visiva che puntava direttamente all'inconscio, "aggirando il gradino della comprensione, dell'intelletto e delle sue costruzioni verbali" (Kubrick). Imponeva a te, spettatore, una partecipazione attiva e diretta. Per chi, allora e dopo, a torto o a ragione, non ha avuto voglia di perderci tempo, resta e resterà sempre un Ufo, un oggetto non identificato.
Il primo errore da evitare è ridurlo a una meditazione sul rapporto uomo-tecnologia. Il mélo edipico che si sviluppa intorno al computer di bordo dell'astronave "Discovery" (il nome, Hal 9000, è anche-non solo- un gioco sulle lettere dell'alfabeto che precedono la sigla IBM ), e alla sua 'umana' e filiale rivolta contro i padri-padroni, è appena un tassello del mosaico. Kubrick ha segnato indelebilmente un'epoca che aspirava alla verità e alla speranza costruendo un'opera di teleologia laica. Teleologia, non teologia: è una esplorazione delle finalità.
Basta fare attenzione ai tre capitoli che scandiscono questo film eccezionalmente afasico ( 40 minuti scarsi di dialogo su 141 ), e ai tre monoliti neri che compaiono simbolicamente – a distanza – per indicare la strada, la direzione di ricerca. Se avesse realizzato il suo progetto più ambizioso , "A.I." (progetto poi riciclato a suo modo da Spielberg ), Kubrick ci avrebbe fornito la chiave definitiva per decifrare la sua" Odyssey". Ma è chiaro che credeva nell'esistenza di entità più evolute di vita, in qualche zona della Galassia, capaci di orientare lo spirito di civiltà arcaiche come quella terrestre. L'embrione umano in finale incarna una possibilità di rigenerazione per noi esseri umani che in quel '68 suonò profetica.
Non sarebbe efficace il messaggio, però, senza la diagnosi impietosa che apre il film. La molla della civiltà, per gli uomini- scimmia del primo capitolo, è la scoperta che un osso impugnato è più potente della nuda mano. E' la prima scintilla dell'intelligenza, ma anche dell'aggressività e della violenza, inseparabili – almeno finora - dallo sviluppo umano. Almeno finora, ma indubbiamente finora, a giudizio del regista, che trascina il titoletto "L'alba della civiltà"a comprendere il presente e il futuro prossimo, fino al 2001 del viaggio su Giove. Il nostro tempo appartiene ancora a quell'alba.
Con una semplice immagine vertiginosa, l'osso lanciato nel cielo che si fa nave spaziale, Stanley Kubrick ci ha già spiegato che l'evoluzione ha perfezionato lo strumento, non l'uomo. Ora, se qualcuno nutre dubbi sulla validità di un culto cinefilo a mezzo secolo di distanza, dovrebbe provare a comunicare un'idea del genere attraverso una 'esperienza non verbale' (cosi K. definiva il suo film, paragonandolo all'emozione musicale).
Poi si può almanaccare sulla cultura viennese di cui il Nostro è impregnato (nato nel Bronx ma da ebrei austriaci) , sulla fascinazione del subconscio figlia di Freud, sui non meno viennesi Johann Strauss e Richard Strauss di "Così parlò Zarathustra"e del "Bel Danubio blu", ma è il Mistero offerto da Kubrick il monolite nero, il parallelepipedo magico al quale la generazione del '68 si è aggrappata. Si è aggrappata a un oggetto enigmatico che rifiutava di impartirti lezioni – in controtendenza sull'epoca, ma i tempi non sono poi tanto cambiati - per impegnarti a scavare di testa tua, per invogliarti a capire senza la bussola rassicurante della parola.
I modellini spaziali di " 2001: Odissea nello spazio" e i suoi 'astronomici ' 10 milioni di dollari oggi forse possono risultare risibili, ma vale ancora la pena di fare mattina a rimpallarsi interpretazioni più o meno sensate. Sapendo che riuscirai a conquistare, alla fine di questa sorta di viaggio iniziatico, solo un pugno di domande. Ma sono le domande, non le risposte, che ti aiutano a crescere.