martedì 28 febbraio 2017

domenica 26 febbraio 2017

POLITICA Crisi Pd Veltroni

POLITICA Crisi Pd Veltroni: la sinistra divisa consegna l'Italia al populismo L'ex segretario del Pd ricorda: 'lasciai il mio incarico per il bene del partito'. A volte - incalza - vanno fatte anche delle scelte personali dolorose. E lancia l'allarme: questa rottura 'grave e irresponsabile' del Partito rischia di mettere a rischio la democrazia in Italia e nella Ue Tweet Pd, le primarie si terranno il 30 aprile Orlando: mi candido per responsabilità, perché Pd è utile a Italia. Contro politica prepotenza Bersani: non rinnovo la tessera Pd, ma non vado via dal centrosinistra Direzione Pd, Emiliano: mi candido alla segreteria, nessuno può cacciarmi Assemblea Pd, Veltroni a minoranza: no scissione, il partito ha bisogno di voi Nasce 'Democratici e Progressisti'. Speranza:ricucire fratture con popolo di centrosinistra 26 febbraio 2017 La sinistra divisa consegna l'Italia al populismo, per questo la scissione in corso, che "mi sembra la scissione dell'atomo" è "particolarmente grave e irresponsabile". Lo afferma l'ex segretario del Pd, Walter Veltroni, in una lunga intervista su La Repubblica rilasciata al suo fondatore Eugenio Scalfari. Veltroni ricorda che "a un certo punto mi sono dimesso dalla mia carica nel partito perché c`era il rischio che si creasse una situazione analoga a quella che si sta creando in questi giorni. Mi sono trovato cioè a fare una delle scelte più difficili della mia vita: se continuare a fare il lavoro che mi appassionava e nel partito al quale avevo dedicato molte energie oppure rinunciare alla mia carica ma, evitandone la divisione, salvare così il Partito democratico. Scelsi la seconda strada". Ma allo stesso tempo giudica duramente quanto sta accadendio nel partito: "La scissione in corso mi sembra la scissione dell`atomo: ci sono già quattro partiti di sinistra. Se ci fossero le elezioni in questo momento, sulla base dei sondaggi di cui disponiamo, non verrebbe certo affidato l`incarico di formare un nuovo governo ad un esponente della sinistra. Sia il Movimento 5 Stelle sia la destra di Salvini, hanno più voti (specie se alleati tra loro) di quanti possa averne un esponente del centrosinistra e questo è il capolavoro che si è creato attraverso questa situazione che ha portato ad una lacerazione del Pd". "Era la prima volta in Italia che si riusciva a costruire la convergenza delle strutture progressiste e democratiche e dovevamo conservarla - sottolinea - Tutti dovevamo conservarla, chi ha fatto la scissione e chi doveva fare molto di più per impedirlo. Questa è la mia opinione e per questo sono andato a parlare nell`assemblea del partito". A questo punto, secondo Veltroni, "c`è il rischio che per effetto della divisione della sinistra possano prevalere forze politiche che non sono in grado di assicurare un destino certo a questo Paese. Oppure peggio: possa non prevalere nessuno ed ho più paura di questa seconda cosa. Può accadere che ci siano tre schieramenti, tutti intorno al 30 per cento e che per conseguenza il Paese si trovi di nuovo senza maggioranza. Se questo accadrà la democrazia rischia di andare in una crisi molto seria. Questa è la posta in gioco e per questo la divisione del Pd è particolarmente grave e irresponsabile". - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/pd-veltroni-la-sinistra-divisa-consegna-italia-populismo-f0b7b55b-6d84-42cf-bba5-48bb6ef973f2.html

domenica 19 febbraio 2017

mercoledì 8 febbraio 2017




Il furto della felicità che ci uccide ogni giorno


Le aspettative. L'essere messi da parte. Il mondo che ci è stato consegnato. Il mondo che vorremmo. Il furto della felicità. Il libero arbitrio. La libertà di suicidarsi. La libertà di inseguire un sogno, e la mancanza di forze per raggiungerlo.
La lettera di Michele ci ingorga di realtà. Di quel disorientamento dentro cui noi trentenni di oggi siamo immersi. In quell'idea - assolutamente folle, in grado di produrre solo dicotomia e frustrazione - secondo cui per esistere sia necessario imporsi. Diventare qualcuno. Essere rappresentati, e rappresentarsi. Ricercare il massimo che dovremmo avere a disposizione, e che mai riusciamo in realtà a conquistare.

La sopportazione di cui parla Michele è quella che tutti abbiamo provato. Tutti i giorni siamo chiamati a ingurgitare milioni di sofferenze dalle diverse sfumature: sopportiamo, illudendoci o semplicemente sperando, che le cose cambino. Ma le cose non cambiano mai. E le energie che abbiamo a disposizione non sono per tutti uguali. Purtroppo.
Michele ha provato a fare "del malessere un'arte". Ha provato a superare la sua "sensibilità". Ma è precipitato. Dalle sue parole esce fuori il ritratto della nostra vita, della nostra società dove la sofferenza viene arginata, e il malessere psicopatologico viene isolato.
Il suicidio di Michele non è solo il fallimento della società politica, e del mondo "che ci è stato consegnato ed è un mondo intollerabile". La morte di Michele è il più drammatico urlo di dolore, che lascia in sottotraccia la libertà di suicidarsi e l'incapacità del nostro mondo di accogliere l'individuo nella sua essenza: la fragilità. La morte di Michele è lo strazio devastante che racconta il fallimento quotidiano di noi trentenni, incastrati fra il sogno e la realtà.
La lettera di Michele è avvolta nell'illusione - o speranza, ancora una volta il tragico gioco delle prospettive - che queste parole non cadano nel vuoto. Ma la realtà è un'altra: queste parole verranno inghiottite dalla cronaca, dalla routine che è la vita, dall'egoismo che ci naviga intorno. Queste parole scompariranno. Resterà il dolore degli amici, il dolore dei genitori. Qualche ricordo. Domani noi non ricorderemo altro che un titolo di giornale. Prima che un'altra storia, cinicamente e atrocemente, non seppellisca tutto.
Intanto, la generazione perduta di cui facciamo parte noi trentenni continuerà ad auto-cannibalizzarsi ancora di più. Morso dopo morso, fino a non far restare più niente. Neanche il ricordo di quella cosa chiamata felicità.
 

Michele ha scelto la morte, voi decidete di vivere


Il peggior regalo che potete fare alla memoria di Michele, il ragazzo friulano di 30 anni morto suicida la cui ultima lettera sta rimbalzando in queste ore sul web, è avallare quanto afferma.
Nelle righe che ha scritto, immagino poco prima di salutare questo mondo e mettersi alla ricerca di un altro che mi auguro per lui, non solo esista, ma sia migliore, c'è tutta l'inane frustrazione di quei trentenni illusi dall'ambiente in cui sono cresciuti che la vita fosse una roba facile, fosse una strada bianca punteggiata di sì e non un'arrampicata selvaggia attraverso i no.
C'è tutta la rabbia di chi si sente defraudato di quei diritti che ci hanno insegnato essere acquisiti e che in un mondo migliore sicuramente lo sarebbero, ma in questo no, non lo sono e non credo nemmeno che lo siano mai stati. Ci hanno insegnato che il lavoro è un diritto e per convincerci lo hanno pure appuntato sulla Costituzione, ma basta vivere un poco per comprendere che non è così.
Il lavoro è una fatica immonda di no sbattuti sul muso, di sportellate sui denti, di sorpassi da destra senza freccia, di assenza di regole e scarsissima giustizia. Fa schifo, ma è così e prima lo si capisce e prima ci si arma dell'indispensabile tenacia che mette tra le mani l'infinità di chiavi necessarie ad aprire la porta della vita. Non riconoscerlo, continuare a sostenere che questo mondo è orribile e noi ne siamo le vittime predispone a mille altri Michele che a 30 anni se ne vanno.
Io non voglio che ce ne siano altri, non lo voglio davvero. E non voglio che il messaggio disperato di questo ragazzo assurga a manifesto generazionale. Non può esserlo.
Non può essere che una lettera da cui trapela la sconfitta di un essere umano diventi la bibbia su cui decodificare la sua generazione. Che è vero: è una generazione che si fonda sulla precarietà. Niente posto fisso, malattia e ferie pagate. Si va a lavorare anche con 39 di febbre e, magari, non basta e quel lavoro lo perdi. Ma è una sola delle infinite possibilità che sono destinate a ogni vita. Una, non l'unica, la sola. Per ogni porta piantata in faccia ne esiste un'infinità che si può tentare di aprire. Tentare.
Perché vivere, è vero, non è un dovere. È un tentativo costante di far fronte a tutto nel migliore dei modi possibili. È una scelta: vado avanti o mi fermo? Michele si è fermato ha scelto di fermarsi. Ma la colpa non è del ministro Poletti, non è del lavoro che manca o dell'amore che latita. Non si tratta di distribuire colpe, ma di assumersi responsabilità. Michele è il solo responsabile della sua morte: avrebbe potuto vivere, ha scelto di non farlo. Quanto la sua sofferenza psichica, la rabbia furiosa che trasuda da ogni parola di quella lettera, siano state corresponsabili della sua scellerata decisione non posso saperlo.
So però che oggi, in Italia, nel mondo, ci sono migliaia di potenziali Michele indecisi se darsi un'altra possibilità o se chiudere tutto e andarsene via. Ed è a loro che mi rivolgo: restate qui. Perché esiste sempre un giorno migliore se gli date l'occasione di manifestarsi, se continuate a cercarlo.
Nessuna situazione, nemmeno la più terribile dura all'infinito. Soprattutto nessuna situazione è davvero fuori dal vostro controllo. Raddrizzate la schiena (non importa se è ricoperta dei lividi delle bastonate che avete preso, col tempo si riassorbiranno) e aprite gli occhi.
Teneteli aperti per osservare la strada che volete intraprendere e non credete che nessuna di quelle che vi si aprono davanti sia facile. Osservate la realtà per quella che è, a credere alle favole, si finisce per restare vittime. E voi, voi che state lottando e pensate di non avere più forze per vincere la vostra battaglia, non dovete essere vittime.
Michele ha scelto, fatelo anche voi, ma in direzione opposta. Scegliete di credere nella vostra vita, smettetela di distribuire colpe e assumetevi la responsabilità di ognuna delle cose che vi accadono, anche di quelle più spiacevoli. Cambiate la prospettiva della vostra esistenza, trasformatela da passiva in attiva.
Decidete di continuare a provare fino a quando non avrete raggiunto il risultato che vi siete prefissati e imparate a ringraziare per ogni singolo no, per ogni porta sbattuta, per ogni dente rotto. Perché finché potete farlo vuol dire che siete vivi e vivere è farsi male e andare avanti comunque con la fiducia nel bene.
Fate che Michele non sia morto per niente: che sia il monito di quello che non volete diventare. Perdere tutto vuol non vuol dire che tutto è finito, vuol dire che c'è un nuovo tutto da conquistare.

La lettera d'addio di Michele, trentenne precario che si è tolto la vita. "Appartengo a una generazione perduta"


Michele si è tolto la vita. Stanco di essere senza futuro e prospettive. Prima di andarsene, questo trentenne friulano, ha scritto una lettera, pubblicata per volontà dei genitori (e che oggi riporta il Messaggero Veneto) perché questa denuncia non cada nel vuoto. Ecco il testo.
Ho vissuto (male) per trent’anni, qualcuno dirà che è troppo poco. Quel qualcuno non è in grado di stabilire quali sono i limiti di sopportazione, perché sono soggettivi, non oggettivi.
Ho cercato di essere una brava persona, ho commessi molti errori, ho fatto molti tentativi, ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo. E sono stufo anche di pormene. Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche, stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri per l’altro genere (che evidentemente non ha bisogno di me), stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro, di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è mai stata e mai lo sarà, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni e qualunque cosa non si possa inquadrare nella cosiddetta normalità. Non la posso riconoscere come mia.
Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile.
A quest’ultimo proposito, le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua corrente, ma ovviamente non è più un mio problema. Il futuro sarà un disastro a cui non voglio assistere, e nemmeno partecipare. Buona fortuna a chi se la sente di affrontarlo.
Non è assolutamente questo il mondo che mi doveva essere consegnato, e nessuno mi può costringere a continuare a farne parte. È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie, privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. Non sono rappresentato da niente di ciò che vedo e non gli attribuisco nessun senso: io non c’entro nulla con tutto questo. Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile. Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muore, e non c’è mai stato posto qui per ciò che volevo, quindi in realtà, non sono mai esistito. Io non ho tradito, io mi sento tradito, da un’epoca che si permette di accantonarmi, invece di accogliermi come sarebbe suo dovere fare.
Lo stato generale delle cose per me è inaccettabile, non intendo più farmene carico e penso che sia giusto che ogni tanto qualcuno ricordi a tutti che siamo liberi, che esiste l’alternativa al soffrire: smettere. Se vivere non può essere un piacere, allora non può nemmeno diventare un obbligo, e io l’ho dimostrato. Mi rendo conto di fare del male e di darvi un enorme dolore, ma la mia rabbia ormai è tale che se non faccio questo, finirà ancora peggio, e di altro odio non c’è davvero bisogno.
Sono entrato in questo mondo da persona libera, e da persona libera ne sono uscito, perché non mi piaceva nemmeno un po’. Basta con le ipocrisie.
Non mi faccio ricattare dal fatto che è l’unico possibile, io modello unico non funziona. Siete voi che fate i conti con me, non io con voi. Io sono un anticonformista, da sempre, e ho il diritto di dire ciò che penso, di fare la mia scelta, a qualsiasi costo. Non esiste niente che non si possa separare, la morte è solo lo strumento. Il libero arbitrio obbedisce all’individuo, non ai comodi degli altri.
Io lo so che questa cosa vi sembra una follia, ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza si, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.
Perdonatemi, mamma e papà, se potete, ma ora sono di nuovo a casa. Sto bene.
Dentro di me non c’era caos. Dentro di me c’era ordine. Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità. Chiedo scusa a tutti i miei amici. Non odiatemi. Grazie per i bei momenti insieme, siete tutti migliori di me. Questo non è un insulto alle mie origini, ma un’accusa di alto tradimento.
P.S. Complimenti al ministro Poletti. Lui sì che ci valorizza a noi stronzi.
Ho resistito finché ho potuto.
Michele

sabato 4 febbraio 2017

IL MINESTRONE ROMANO di GIUSEPPE TURANI

Primo Piano
IL MINESTRONE ROMANO
Polizze da quattro soldi, veleni da comari nella città imperiale.
di GIUSEPPE TURANI | 04/02/2017
Va be’, abbiamo capito. Tutta la storia delle polizze, dell’abuso d’ufficio e del falso ideologico sono bufale. Romeo è un inguaribile sentimentale un po’ scemo, la Raggi una santa perseguitata dalla stampa cattiva e dai rettiliani (con l’aiuto delle sirene). La giunta di Roma continua a essere fatta da meravigliosi ragazzi, anche di oltre 70 anni, importati da Veneto e Liguria perché quelli locali erano troppo scemi per fare gli assessori. Ma sono cose che capitano, pagliuzze.
Rimane il fatto, però, che l’intera faccenda (non si arrabbi Grillo) sa di minestrone di fagioli. Il Romeo, capo della segreteria del sindaco, è in realtà un signore che andrebbe curato dalla più vicina Asl. Non è ricco, ma riempie il mondo grillino di polizze vita. E deve essere anche leggermente mitomane, visto che per parlare trascina la povera Raggi fin sui tetti del Campidoglio, salvo poi partecipare a una chat dove si dicono qualunque sciocchezza. Roba da tesi di laurea per un giovane psichiatra. Difficile, comunque, capire se il matto è lui, che fa tutte queste cretinate, o lei che lo sta a sentire e che lo promuove capo della segreteria del comune invece di chiamare il 118 e affidarlo a un paio di robusti infermieri.
Di illegale, dice la magistratura e ribadisce Travaglio, non c’è niente. Rimane però altro sul tappeto.
Rimane che a non funzionare qui è proprio il Movimento e i suoi criteri di selezione e di funzionamento. Intorno alla giunta, dentro i 5 stelle, si muove un verminaio di dame isteriche (tutte star della rete), che metà basterebbe. Fanno che circolano dossier contro i colleghi (forse ne hanno anche scritti), vanno in procura a deporre contro il sindaco e i suoi amici. Hanno sorelle che pubblicamente affermano di voler appendere Virginia per le orecchie.
Ci sono assessori che se ne vanno appena nominati, altri che resistono, ma allora è la magistratura che li porta via. Quelli scomparsi non vengono nemmeno più cercati. E’ come una compagnia di giro, dove mancano sempre gli attori, un po’ se li portano via i carabinieri della locale stazione, altri sono a donne invece che sul palcoscenico.
Su tutto questo, sempre più incazzato, il povero comico che deve lasciare i suoi lussi genovesi per precipitarsi a Roma a impartire un po’ di disciplina. Come un capocomico d’altri tempi, convoca tutti in albergo e dà ordini. Tutti, vergognosi, scappano dalla porta di servizio. I ragazzi dorati, Di Maio e Dibba, sembrano addirittura espatriati, nessuno li ha più visti. Di Maio forse è tornato a scuola, deciso a studiare i congiuntivi. Dibba, più avventuroso, potrebbe essersi rifugiato nel Paranà insieme alle scimmie urlatrici, che lo amano alla follia.
Lei, Virginia, la prima attrice, sgrana continuamente i suoi occhioni e sorride, qualunque cosa debba dire (forse ha capito male le istruzioni di Casalino) e comunque non dice niente: sono serena, andiamo avanti, abbiamo un grande progetto, faremo cose meravigliose, bello bello bellisssimoooo.
Intanto, frigoriferi e scaldabagni si accumulano per le strade, i topi ballano e i gabbiani volano felici su tutto quel ben di dio lasciato lungo le arterie della città una volta imperiale.
Il disegno della Roma grillina, se esiste, chissà dov’è. Forse l’aveva Grillo, ma nella sua furia l’ha perso alla stazione di Pisa.
Su tutto, quest’aria di miseria, da mensa dei poveri: 30 mila euro (mica un diamante) per la Raggi, ma solo in caso di morte: è il primo caso di corteggiatore d’oltretomba.
E poi dieci, cinque, due mila euro a tutti gli altri, roba da comprarci le scarpe per i più piccini a una rivendita di abiti usati.
Questa è Roma grillina, anno di grazia 2017.