sabato 20 giugno 2020

“Into the Wild” non abita più qui

Troppo frequentato e poco sicuro: in Alaska rimosso il Magic Bus in cui visse e morì Christopher McCandless, il viaggiatore solitario che ispirò Sean Penn


L'altro giorno, 18 giugno 2020, qualcosa di importante è finito per quelli come me, o forse chissà, è passato una volta per tutte alla storia. In Alaska la Guardia Nazionale ha rimosso, con un potente elicottero militare, il Magic Bus, detto anche Bus 142, in seguito a troppi interventi di soccorso per salvare i ragazzi che vi si recavano, viaggiatori di tutto il mondo che andavano fin lassù come pellegrini verso un santuario. Il monte Denali è lì all’orizzonte, è la cima più alta d’America ma non c’entra con questa storia.

L’autobus si trovava alla fine di una pista sterrata chiamata Stampede Trail, a 40 chilometri dalla cittadina di Healy; circa a metà del percorso quel sentiero accidentato, spesso allagato dalle piogge, dalle acque del disgelo e dagli stagni dei castori incontra un grande fiume, il Teklanika, il cui guado ha messo nei guai tanti di noi. L’autobus era un modello degli anni ’50 del trasporto pubblico di Fairbanks, e all’epoca era stato portato su quella pista per fare da bivacco ai minatori, ai cercatori d’oro e ai cacciatori che sono da sempre i pionieri d’Alaska. Tolti i sedili, era stato attrezzato con due brande e una stufa e lasciato lì, e più tardi dimenticato. Anche lo Stampede Trail era andato in disuso. Ai giorni nostri, a non sapere la storia, si sarebbe detta una delle tante bizzarrie che si incontrano nel Grande Nord: un bus d’epoca abbandonato in mezzo alla tundra, ancora con il numero 142 dipinto sulla fiancata e le sue belle forme arrotondate.

Anche Christopher McCandless era in fondo un cercatore d’oro, ma l’oro che cercava lui non aveva a che fare con il biondo metallo. Era nato nel 1968, figlio di una buona famiglia dell’East Coast, ottimo studente, eccellente sportivo. Chris era un idealista e un anticonformista che nel 1990 si laureò con una tesi sulla piaga della fame in Africa, poi donò i suoi risparmi a un’organizzazione che se ne occupava e partì, senza salutare, per un viaggio che non sarebbe più finito. Probabilmente la causa scatenante fu il conflitto con il padre, un ingegnere di successo, un self-made man milionario e un bigamo con cui Chris non voleva più avere niente a che fare. E così, mentre la sua famiglia lo cercava, lui passò due anni da vagabondo, da hobo, prendendo passaggi e saltando sui treni e vivendo di lavoretti occasionali, ma anche facendo amicizia con altri vagabondi d’America e innamorandosi dei grandi spazi aperti del suo paese, l’Ovest, l’oceano Pacifico, il Grand Canyon che discese illegalmente in canoa.

Intanto leggeva: lesse Thoreau e Tolstoj, lesse Jack London e cominciò a venirgli voglia di foreste e di Nord. Progettò una grande avventura che consisteva nell’addentrarsi da solo nella tundra d’Alaska, accamparsi da qualche parte e viverci in povertà e autonomia per qualche tempo, nutrendosi di erbe commestibili e piccola selvaggina. Era il progetto di Thoreau, ma non in riva al laghetto dietro casa (questo l’equivoco in cui probabilmente era caduto). Chris lo fece davvero nell’aprile del ’92: si avviò lungo lo Stampede Trail, guadò il Teklanika che in quella stagione era povero d’acqua e ancora in parte ghiacciato, trovò casualmente il Bus 142.

Fu lui a ribattezzarlo Magic Bus, nel suo scarno diario. I Magic Bus originari erano i mezzi di fortuna con cui gli hippie partivano per l’India dall’Europa, e il Magic Bus più famoso di tutti è quello su cui Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, girò l’America insieme ai suoi amici nell’estate del 1964, improvvisando concerti e distribuendo Lsd. Guidava Neal Cassady, eroe della Beat Generation, e l’autobus era tutto dipinto con colori psichedelici. Questo per capire quali fossero i riferimenti culturali di Chris. che non era un survivalista né un neo-eremita: era un beat, un hobo, uno sperimentatore che visse da solo lassù per più di tre mesi, e infine ci morì. Morì d’agosto dentro il suo sacco a pelo, e che la causa fosse la fame si capì dallo stato in cui trovarono il cadavere qualche settimana dopo. Aveva con sé uno zaino pieno di libri, un fucilino e poco altro.

Oggi si pensa che si fosse avvelenato con qualche bacca selvatica, o ferito, o comunque indebolito, e non fosse più riuscito a guadare il Teklanika che d’estate era in piena. Su un finestrino dell’autobus aveva appeso un biglietto chiedendo aiuto a chi passasse di lì, ma aveva aspettato inutilmente per giorni e infine era morto. L’avevano trovato in settembre dei cacciatori. La storia all’epoca fece poco scalpore. Intorno c’era l’America di Clinton, l’America che aveva vinto tutto, stava per esplodere il boom della Silicon Valley, la crescita economica sembrava senza fine e la scelta di Chris era del tutto anacronistica per quei tempi di ottimismo sfrenato. Infatti si sarebbe capita meglio dopo, sarebbero stati i figli della crisi ad amarlo e ad andarlo a cercare.

La sua storia è stata raccontata in un libro e in un film, il primo di Jon Krakauer e il secondo di Sean Penn, intitolati entrambi Into the Wild. Fu il film soprattutto a generare il mito. Da allora – era il 2007 – cominciarono i pellegrinaggi. Altri ragazzi, altri scappati di casa, altri cercatori d’oro a cui questa storia aveva cambiato la vita. Nel tempo, anziché calare, il flusso di pellegrini aumentava. I ranger d’Alaska cominciavano a innervosirsi, capitava di andare a soccorrere ragazzi con lo zainetto e le scarpe da tennis, del tutto inadeguati all’Alaska. Almeno due di loro morirono annegati nel Teklanika. Gli ultimi, raccolti semi-assiderati l’inverno scorso, erano cinque ragazzi italiani.

Gli alaskani non hanno mai amato né la storia di Chris né quest’umanità di suoi discepoli, è un paese di duri con il fucile nel pick-up e gli adesivi inneggianti a Trump sulle finestre di casa, la bandiera a stelle e strisce, i nativi ubriachi fuori dai negozi di liquori, gli orsi imbalsamati anche dal benzinaio. L’ho visto coi miei occhi perché ci sono andato anch’io: anch’io ho camminato nel fango e mi sono immerso in un fiume e ho dormito nel Magic Bus, su una di quelle due brande, tra il bidone della stufa e i finestrini sfondati, in una notte d’Alaska in cui non veniva mai buio, una notte di giugno di un anno fa. Sono felice di aver fatto in tempo a farlo, ad andare fin lassù e a dirgli grazie.

Probabilmente in California, in Colorado, ma anche sulle nostre Alpi, con un tesoro del genere per le mani qualcuno avrebbe pensato di attrezzare il sentiero, costruire un ponte tibetano sul fiume, mettere guide autorizzate per accompagnare i visitatori e far pagare un biglietto per dormire nell’autobus. Ne sono abbastanza sicuro. Per cui meglio così, direi. Ringraziamo gli alaskani che la pensano in un altro modo. È molto meglio vedere l’elicottero che si porta via il Magic Bus, quel vecchio santo autobus in volo sulla tundra d’Alaska, Chris è al volante che guida ed è bello e santo come Neal Cassady, dietro ci siamo noi.

giovedì 4 giugno 2020

EMANCIPAZIONE DELLA DONNA NEL MEDIOEVO

Emancipazione della donna nel medioevo
tra immaginario e realtà


Parlare dell’altra metà del cielo, come viene spesso chiamata con molta enfasi, in un epoca come l’attuale non è cosa semplice. Il femminismo in anni di lotte e rivendicazioni ha spezzato tabù, rivendicato e sancito la parità uomo-donna, dall’ambiente domestico, vecchio habitat naturale, a quello pubblico, permettendo all’universo femminile di ottenere tutta una serie di diritti sia sociali che civili. Se paragoniamo l’epoca attuale con il Medioevo, periodo oscurantista in cui la normalità femminile veniva codificata in una società feudale, strutturata in una organizzazione patriarcale oltre che prettamente maschilista, il rapporto della donna nei confronti della religione in primis, dell’uomo, del lavoro, era di totale sottomissione.  Sappiamo che il Medioevo, ovvero un periodo lungo mille anni, che ha prodotto dispute teologiche considerando la religione cardine primario del tessuto sociale, aveva una sua letteratura, una sua arte e un lavoro certosino volto a conservare l’antico sapere, anche se l’uomo, costantemente animato da un forte fanatismo religioso, molto apprezzato oltretutto, interpretava la realtà religiosa praticando la caccia alle streghe come passatempo quotidiano o quasi. Tuttavia è verosimile pensare alla donna medioevale anche se lontana da decisioni sia pubbliche che economiche, non totalmente sottomessa alla famiglia. Pur essendo svilita religiosamente, il Nuovo Testamento le offre una rivalutazione cristiana impensata tanto che si possono contare nell’ambito femminile, regine, monache, badesse di conventi che amministravano terreni e sovrastavano addirittura i preti di paese nella loro funzione. Addirittura talune esercitano la professione di medico (nell’undicesimo secolo, la prima università di medicina occidentale, la Scuola Medica di Salerno, ammetteva anche le donne; una di esse, Trotula de Ruggero, divenne addirittura molto famosa).  Rimane tuttavia un’idea cardine in cui lo status sociale non contempla un suo ruolo specifico nel quale poter godere del rispetto che le era dovuto. Era identificata semplicemente in un ruolo esclusivamente sessuale: “O vergine, o donna sposata, o vedova”. Tutto questo porta a una antica diatriba secondo la quale la donna, nata insieme all’uomo o da una sua costola a seconda dell’interpretazione religiosa del tempo, è un invenzione cui spetta unicamente la riproduzione, l’azione principale della vita, quella più naturale di tutte: tutto il resto semplicemente non esiste, esula dalla sua sfera sociale. Ma nello stesso tempo diventa portatrice di sventura e morte con riferimento al giardino dell’Eden quando traviata dal serpente coglie la mela considerata frutto della conoscenza trascinando Adamo nella disubbidienza a Dio e di conseguenza la rivalsa dell’uomo nei suoi confronti, quale causa di tutte le sue sventure terrene. Ecco quindi che la donna nel Cristianesimo viene identificata come la seduttrice, tentatrice, colei che trascina con l’inganno, l’uomo al peccato e lo fa cadere nella polvere. Tuttavia questa visione della Chiesa non è, come sembra, totalmente negativa nei suoi confronti: forse tra gli stessi padri custodi della inflessibile teologia cristiana non c’è una visione armonica. Come conciliare e identificare la donna come fonte assoluta di peccato e nello stesso tempo darle la concezione della vita bene altrettanto assoluto e primario?  L’uomo ci mette del suo e pecca sicuramente di superbia quando dice di essere superiore alla donna e siamo ben lontani da quella priorità tanto auspicata ai giorni nostri e che spesso è una parità di sola facciata, raschiata la quale si scoprono realtà molto diverse da quelle auspicate. Comunque, chiusa parentesi, per la Chiesa nel Medioevo la donna è un’incognita di difficile soluzione, rimane nei suoi confronti un concetto problematico da cancellare in quel particolare periodo storico, una visione per cui nell’uomo è preponderante la ragione, la cultura, il potere mentre nella donna è preponderante la femminilità e l’uso carnale del corpo, almeno nella giovinezza. La produzione di cultura al maschio, quella del piacere alle donne e sicuramente da questo concetto sono arrivati problemi ben più importanti nel corso dei secoli tanto da essere tuttora presenti, nonostante il Medioevo sia alle nostre spalle.  Si potrebbe quasi spiegare come una rivincita femminile allo strapotere maschile. Resta il fatto che il soggetto “attivo maschio”, molto spesso subisce “la passività femminile” e che stabilire una sia pur ipotetica vittoria tra la mulier e il vir, tra il debole e il forte, tra la carne e la ragione resta uno dei nodi più intricati da risolvere. Non dimentichiamo comunque che sempre nel Medioevo la donna ottiene una “rivalutazione” da parte della Chiesa con l’introduzione di una figura biblica, battezzata in due successivi Concili “Madre di Dio”, ovvero Maria di Nazareth che diventa “Regina” e “Madre di Misericordia”, entrando di fatto nella liturgia della Chiesa, determinando interminabili dibattiti Conciliari in merito all’ “Immacolata concezione”. Ma tornando al reale di cui parlavo prima, come vivevano o subivano la quotidianità  le donne in quel periodo? Risentono di questa loro sottomissione oppure godono di un certo margine di manovra più o meno ampio?  Diamo per scontato che non esiste una laicità per cui ci possa essere un confronto franco tra i due sessi, il Medioevo non è laico, è religione e basta. Quindi se si dovesse seguire quanto affermato poco fa si potrebbe affermare che la donna vive in un perenne stato di sottomissione nei confronti dell’uomo ma come in tutte le cose c’è una variante che salva la donna: il matrimonio, anche se questo potrebbe fare sorridere ai giorni nostri. Da una parte vissuto come incubo perché lei, donna, viene considerata come merce di scambio tra famiglie o perché vive l’assoluta possessività dell’uomo che la pretende sua, soggiogata e costretta a soddisfare ogni suo bisogno. In realtà come stabilizzatore della popolazione nell’equilibrio sociale, demografico, politico, economico. Ecco che il matrimonio ha una sua funzione specifica nella creazione della famiglia quale fondamento sociale, ma soprattutto impedendo il sesso libero, diventato attuale ai tempi nostri; blocca l’insorgere di malattie sessuali trasmissibili o pandemie di ogni tipo: la gonorrea, una fra tutte. Il matrimonio è un’istituzione che, negli ambienti poveri, avveniva con i futuri sposi molto giovani, che subivano l’imposizione dei genitori con relativo contratto dove si privilegiavano gli interessi reciproci e lo scambio di favori tra le due famiglie. L’accordo tra i due giovani era sicuramente necessario, ma era sulla donna che venivano esercitate maggiori pressioni da parte della famiglia affinché ci fosse una piena sottomissione. Che tra i due ci fosse amore, infatuazione o solo simpatia non è dato sapere. Ovvio che se due giovani erano profondamente innamorati ma mancavano i presupposti economici, di gradimento tra le due famiglie il loro amore non andava da nessuna parte; la letteratura in questo caso ci offre svariati testi di storie d’amore finite in tragedia.  A volere semplificare la cosa, si può dire con un lessico più semplice che l’amore tra i due giovani era considerato un optional, che non ci dovevano essere rancori tra le due famiglie, che il matrimonio doveva servire a codificare l’integrità morale della donna salvo non fosse già in attesa di un figlio nel cui caso diventava chiaramente riparatore onde evitare fastidiosi pettegolezzi. Di diverso rito era il matrimonio tra aristocratici, nel cui ambiente veniva utilizzato per risolvere o consolidare  questioni politiche, di lignaggio  e, ovvio, economiche. Questo succedeva nel Medioevo riguardo al matrimonio, istituzione rimasta intatta fino ai giorni nostri o quantomeno fino al secolo scorso. Infatti, se si vanno a leggere alcune pagine di storia della vita sociale di fine 800 primi 900 troviamo le cose sostanzialmente uguali, forse con un maggiore rispetto per la donna ma il principio di sottomissione era uguale.  Un ulteriore passo avanti della donna all’interno del suo piccolo mondo famigliare avvenne con il Concilio Lateranense del 1215 nel quale il matrimonio fu regolato dalla Chiesa Cattolica diventando a tutti gli effetti un sacramento. In effetti sia che fosse codificato come istituzione da parte della comunità o come sacramento da parte della Chiesa, regalò alla donna un suo proprio ruolo nel quale aveva un posto di rilievo. Diventa parte della famiglia, si occupa della casa, dell’economia domestica, pronta a intervenire attivamente anche nei confronti del marito pur di salvare il focolare. Non posso non sottolineare comunque, come questa sua “emancipazione” non sia stata certo frutto di una sua personale lotta ma semplicemente arrivata grazie a un editto di Santa romana Chiesa. Resta il fatto che una volta sposata entra nel vivo della gestione famigliare. In caso di morte del marito tocca a lei gestire il patrimonio e assumere il pieno potere nelle decisioni importanti riguardo al nucleo famigliare. Questo per quanto riguarda il matrimonio puro e semplice; altro discorso per le donne di qualsiasi estrazione sociale che sceglievano la via monastica, scelta fatta o per vocazione personale o imposta dalla famiglia che riservava tutta la sua disponibilità economica nella sistemazione del figlio maschio.  Queste donne godevano nella Chiesa, proprio in riferimento al ruolo che vi svolgevano, un enorme potere, alcune di esse, diventate badesse, erano trattate come feudatarie, alla pari dei maschi governanti. C’erano poi le Mater Monasteri che amministravano vasti territori con pieni poteri giurisdizionali, politici ed economici. A seguire donne di potere come l’Imperatrice bizantina Zoe Porfirogenita, Margherita di Scozia, Matilde di Canossa, Ildegarda di Bingen, senza contare quelle santificate e venerate dai fedeli. Se ne deduce comunque che tutte queste altro non erano che eccezioni, la regola erano le donne umili, comuni, che cercavano di sopravvivere e dare un senso alla propria esistenza spesso o sempre oppresse da parte di mariti violenti, dispotici poco predisposti a un ménage famigliare fatto di rispetto amore e tolleranza, al contrario pronti a rimarcare la sottomissione della donna nei loro confronti e dell’uomo in generale. Sarà San Tommaso a sostenere  e precisare che la donna nasce dalla costola dell’uomo ma non da un piede o dalla testa, sottolineando che non è superiore né inferiore ma uguale ad esso. Purtroppo “Lei” è costretta  a fare riferimento sempre a lui, si identifica nel suo ruolo, accentua una sua personalità ma sempre e solo in relazione all’altro sesso. Ha ottenuto con il matrimonio e con l’inserimento nella famiglia una collocazione dignitosa evitando di essere confinata lontano dalle decisioni importanti.  Se vogliamo criticare il periodo Medioevale in cui ha vissuto la donna, con presunzione rispetto al presente, dobbiamo dare atto che è stato pur con tutti i suoi limiti il primo vero e serio tentativo di emancipazione femminile. Le battaglie più o meno furiose che si osservano ai giorni nostri con l’alternarsi di progressi o retrocessioni da una parte all’altra, tra forzature maschiliste o remissività dell’uomo nei confronti della donna e viceversa non sono altro che un viaggio lungo secoli. Partiti da un periodo storico, trattato con superficialità, ci siamo convinti che il solo fatto di avere messo anni e anni di distanza con l’attuale modernità, ci possa garantire quel quoziente di intelligenza e di saggezza sufficiente a dare sicurezza al nostro vivere sociale. Ma in fin dei conti, tecnologia a parte, cosa è cambiato veramente?

Francesco Danieletto








Trotula de' Ruggiero, la donna che osò descrivere il corpo delle donne



© Fornito da DeAbyDay

Nel Medioevo le donne avevano due destini. Sposarsi e fare figli, morendo di parto in pochi anni e/o rimanendo vedove e indifese giovanissime per colpa di una crociata. Oppure essere uccise tra mille tormenti, accusate di essere streghe. Pochissime potevano sperare in una realizzazione personale. Abbiamo dovuto aspettare il 1678 per avere la prima donna laureata, Elena Lucrezia Cornaro. Ma le donne che, seppur nel silenzio, hanno dato lustro alla scienza sono state numerose. Nell'XI secolo, a Salerno, Trotula de' Ruggiero teneva testa ai medici della Scuola Salernitana con le sue teorie sulla salute e le cure per il corpo delle donne. La Sinfonia del corpo, traduzione libera dal latino De passionibus Mulierum Curandarum (Sulle malattie delle donne), è il primo trattato sulla salute e le patologie delle donne. In Italia sono i tipi di Manni Editore a riportarlo in libreria. Scrivendo questo libro, Trotula de' Ruggiero di fatto ha fondato la medicina di genere.

Ecco chi era Trotula de' Ruggiero e perché il suo trattato è ancora oggi pura avanguardia.

Chi era Trotula de' Ruggiero

Si sa molto poco della vita di Trotula de' Ruggiero. Si dice che abbia vissuto a Salerno intorno al 1550. All'epoca il capoluogo salernitano era una città aperta agli scambi economici e culturali con tutto il Mediterraneo. In questo crogiuolo culturale Trotula frequentò la Scuola Medica di Salerno, il primo centro di cultura non controllato dalla Chiesa. Era un luogo di studi talmente famoso da essere considerata la prima università d'Europa. Trotula fu prima studentessa e poi insegnante. Sposò il medico Giovanni Plateario, da cui ebbe due figli che seguirono le orme dei genitori in campo scientifico.

Le idee innovative di Trotula

Trotula partorì tantissime idee innovative, partendo da una riflessione sul suo tempo. «Perciò dunque, in quanto le donne sono di natura più deboli degli uomini e in quanto sono assai spesso tormentate nel parto, frequentemente sono soggette a malattie, che riguardano particolarmente gli organi adibiti al servizio della Natura. D’altro canto, le donne non osano rivelare al medico, per la condizione di fragilità dovuta al pudore e alla vergogna, le preoccupazioni per le malattie che le colpiscono nelle parti più intime. La miserevole condizione delle donne, e la grazia di una in particolare che mi ha colpito il cuore, mi hanno indotta a trattare con chiarezza le malattie femminili al fine di poterle curare».

In prima battuta, Trotula iniziò a pensare alla prevenzione come l'aspetto principale della medicina. Sosteneva l'importanza dell'alimentazione equilibrata, dell'attività fisica e dell'igiene. Basti pensare che solo a metà Ottocento il medico ungherese Ignaz Semmelweis scoprì che lavandosi le mani - un gesto semplice e spesso sottovalutato - si potevano salvare molte vite, evitando la sepsiConosceva le erbe ed era in grado di curare e alleviare ogni dolore con le piante del suo giardino e quelle delle colline della zona. Tutto questo senza ricorrere all'astrologia o alla preghiera. Una donna libera, una donna contro gli stereotipi. E, se per l'epoca avrebbe potuto benissimo finire condannata come strega, Trotula era molto rispettata, riconosciuta e stimata dai più grandi uomini della medicina del tempo. Tra i suoi tanti titoli, c'era anche quello di Sanatrix Salernitana. Gli studi di quella che veniva chiamata magistra, docta mulier rivoluzionarono le conoscenze in campo ginecologico. Si interessò di ostetricia malattie sessuali. Cercò nuovi metodi per rendere il parto meno doloroso. Si interessò di pratiche per il controllo delle nascite. Si occupò di infertilità, spostando l'attenzione dalle donne agli uomini per ricercarne le cause, in netto contrasto con le teorie mediche dell'epoca. Scriveva:

«Vi sono donne che non riescono a concepire, vuoi perché son troppo magre ed emaciate, vuoi perché son troppo grasse e le carni intorno alla vagina la comprimono, impedendo la penetrazione del seme. Altre hanno una vagina talmente rilassata e scivolosa che non riescono a trattenere il seme, che fuoriesce dalla matrice (nel linguaggio medico medievale, utero - ndr.). Questo può accadere anche per responsabilità del maschio se un seme troppo liquido che, a causa della sua liquidità, scivola via dalla vagina. Altri uomini hanno i testicoli troppo freddi e secchi, e difficilmente, o mai, il loro seme è fecondo».

Il De passionibus Mulierum Curandarum (Sulle malattie delle donne, noto anche come Trotula Major) le fu richiesto da una nobile donna e si rivolgeva a un pubblico femminile, intimorito dall'idea di parlare delle proprie malattie ai medici uomini. Per comprendere il portato rivoluzionario dell'opera, basti pensare che nel primo capitolo si parla di diversità di genere. Tra i temi trattati nel Trotula Major c'era la verginità. La medichessa medievale prescrisse anche dei consigli per aiutare le donne che avevano avuto rapporti sessuali prima del matrimonio. All'epoca la scoperta poteva causare grossi problemi. Per aiutarle a farle passare per vergini, Trotula consigliava un astringente:

«Prendi degli albumi di uova e mischiali con l'acqua di cottura di puleggio ed erbe calde simili; lava bene con questa mistura calda la vagina, poi bagnaci dei pannolini nuovi di lino e ponili nella vagina, ripetendo l'operazione tre o quattro volte al giorno»

Scrisse anche il De Ornatu Mulierum (Sui cosmetici, noto anche come Trotula Minor e tradotto da Manni in L'armonia delle donne. Trattato medievale di cosmesi con consigli pratici sul trucco e la cura del corpo), un libro dedicato alle malattie della pelle e alla loro cura. Qui l'autrice si occupa di bellezza, di pomate ed erbe medicamentose per viso e capelli. Rimarca l'importanza di bagni e massaggi per conservare la bellezza estetica, che lei considerava il segno di un corpo sano e in armonia con l'universo.

Trotula de' Ruggiero: oblio e riscoperta

Si dice che Trotula de' Ruggiero fosse soprannominata Sapiens matrona e che fosse una delle donne più belle del suo tempo. Pare che il suo funerale, avvenuto nel 1097, sia stato seguito da una coda di tre chilometri. Una delle prove della sua esistenza è la menzione fatta da Geoffrey Chaucer in uno dei Racconti di Canterbury, anche se la figura di Trotula qui finisce in un contesto di pensiero misogino. Tuttavia questa citazione dà una misura della grandezza del personaggio. Nel corso dei secoli il testo fu trascritto più volte, ma si perse memoria della femminilità della sua autrice. Così gli amanuensi iniziarono ad attribuire le idee di trotula a un fantomatico medico maschio Trottus. Nel XIX secolo alcuni storici, tra cui il tedesco Karl Sudhoff, esclusero la possibilità che una donna avesse potuto scrivere un'opera così importante. La presenza di Trotula fu così duramente stralciata dalla storia della medicina. A recuperarne la dignità e la genialità della scienziata furono alcuni storici italiani alla fine dell'Ottocento. Furono loro a stabilire l'autorità di Trotula e l'autenticità delle Mulieres Salernitanae, una schiera di donne la cui esistenza è provata da numerose testimonianze.








































The Sound of Silence: il significato del capolavoro di Simon e Garfunkel

Posted by Edoardo Crasta

1964. Luci spente. Una confessione all’oscurità, amica fedele di lunga data. Intanto, un getto d’acqua scorre da un rubinetto lasciato volutamente aperto. Uno spreco che perdoniamo, perché a partire da questi ingredienti il giovane Paul Simon scrive The Sound of Silence, una canzone che più di mezzo secolo dopo sarà ancora tristemente attuale. Lui, chiuso in bagno con carta e penna, non può immaginare che nel 2020 si parlerà ancora del suo dialogo con la parte più intima di sé, aperto da uno degli incipit più belli mai scritti.

Il brano, nato come The Sounds of Silence, viene inizialmente registrato come un pezzo acustico e incluso in Wednesday Morning, 3 A.M., il primo album che Simon incide con Art Garfunkel per la Columbia Records. Potrebbe essere anche l’ultimo, perché si rivela un flop scoraggiante. Il duo si scioglie: Simon parte per Londra per cercare fortuna come solista, mentre Garfunkel riprende gli studi universitari. Poi accade l’insospettabile: Tom Wilson, il produttore della casa discografica, viene a conoscenza del fatto che la canzone sta passando alla radio con una certa insistenza in alcune zone degli Stati Uniti. All’insaputa dell’ormai ex duo, Wilson la reinventa con l’aggiunta di batteria e chitarra elettrica, trasformandola in un pezzo folk rock che di lì a poco scalerà le classifiche. Simon e Garfunkel si riuniscono e il resto è storia.

È curioso, comunque, come nel tempo la versione acustica sia rimasta la più conosciuta e toccante, raggiungendo il punto più alto nel concerto gratuito del 1981 a Central Park, quando i due musicisti, divisi da anni, tornarono insieme per estasiare una folla di 500.000 persone.

Simon è appassionato di ossimori; a dircelo è lo stesso Garfunkel, uno che lo conosce bene. Questa figura retorica, da sempre amata dai poeti, consiste nell’affiancamento di due o più parole che normalmente si negano l’un l’altra. Ma può succedere, a volte, che questo contrasto dia vita a un’espressione perfettamente sensata, un’immagine difficile da evocare altrimenti. “Il suono del silenzio” è una di queste, e c’è da scommettere che qualcuno che soffre di acufeni sarebbe pronto a darcene conferma. Battute a parte, comunque lo si intenda il silenzio ha una voce: può essere un dolce sussurro, come quando si abbraccia una solitudine cercata a lungo; oppure può gridare, se essere soli è una maledizione da cui non ci si riesce a liberare. Invece, il silenzio a cui pensava Paul Simon quel giorno di febbraio di 56 anni fa è ben più terribile e disumano. E parla così.

Hello darkness, my old friend
I’ve come to talk with you again
Because a vision softly creeping
Left its seeds while I was sleeping
And the vision that was planted in my brain
Still remains
Within the sound of silence

Ciao oscurità, mia vecchia amica
Sono tornato a parlare con te
Perché una visione dolcemente strisciante
Ha depositato i suoi semi mentre stavo dormendo
E la visione che è stata piantata nel mio cervello
Resta ancora
Dentro il suono del silenzio

Sin dai primi versi viene affrontato quello che è il tema portante della traccia: l’incomunicabilità. Simon non si confida con un amico, ma con il buio della stanza in cui sta scrivendo. Infatti, la visione a cui fa riferimento sembra uno di quei sogni che non puoi raccontare a nessuno se non a te stesso. Un sogno che si fissa nella mente e che il risveglio non fa dimenticare. Poi la strofa continua:

In restless dreams I walked alone
Narrow streets of cobblestone
‘Neath the halo of a street lamp
I turned my collar to the cold and damp
When my eyes were stabbed by the flash of a neon light
That split the night
And touched the sound of silence

In sogni inquieti camminavo solo
Per strade strette e ciottolose
Sotto l’alone di un lampione
Stavo alzando il mio colletto per il freddo e l’umidità
Quando i miei occhi sono stati colpiti dal flash di una luce al neon
Che ha squarciato la notte
E toccato il suono del silenzio

Il paesaggio che Simon comincia a descrivere ricorda i romanzi di Dickens. Non ci sono alberi, prati o fiumi. È un mondo angusto, claustrofobico, fatto di cemento e luci artificiali. A un certo punto, la calma della notte viene aggredita da un bagliore accecante, che rivela la presenza di una fiumana di persone:

And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never share
And no one dared
Disturb the sound of silence

E nella luce vivida ho visto
Diecimila persone, forse più
Persone che parlavano senza dire niente
Persone che sentivano senza ascoltare
Persone che scrivevano canzoni che le voci non avrebbero mai condiviso
E nessuno osava
Disturbare il suono del silenzio

Il silenzio piacevole che accompagnava la passeggiata di quella figura solitaria cambia forma, mutando in qualcosa di angosciante. Gli individui, fisicamente vicini tra loro, sono separati dall’incapacità di comunicare. Parlano senza esprimere concetti né emozioni, ascoltano distrattamente. Il dominio del silenzio, in cui si infiltrano solo rumori indistinti, è assoluto. Di fronte a questo spettacolo raccapricciante, l’uomo perde le staffe:

“Fools” said I, “You do not know
Silence like a cancer grows
Hear my words that I might teach you
Take my arms that I might reach you”
But my words like silent raindrops fell
And echoed
In the wells of silence

“Sciocchi” ho detto, “non sapete
Che il silenzio cresce come un cancro
Ascoltate le parole che potrei insegnarvi
Afferrate le mie braccia così che possa raggiungervi”
Ma le mie parole sono cadute come gocce di pioggia silenziose
E sono riecheggiate
Nei pozzi del silenzio

Il tentativo di instaurare un dialogo fallisce. Non c’è più la speranza di creare legami autentici. Il vuoto del silenzio risucchia le parole, lasciando il posto a un mutismo generale.

And the people bowed and prayed
To the neon god they made
And the sign flashed out its warning
In the words that it was forming
And the sign said: “The words of the prophets
Are written on the subway walls
And tenement halls”
And whisper’d in the sounds of silence

E le persone si sono inchinate a pregare
Il dio neon che avevano creato
E la scritta ha mostrato il suo avvertimento
Nelle parole che si stavano formando
E la scritta diceva: “Le parole dei profeti
Sono scritte sui muri della metropolitana
E negli atri dei palazzi”
E sussurrava nei suoni del silenzio

La massa ha fatto la sua scelta, che si realizza nella cieca obbedienza…a che cosa? Ai dogmi? Al capitalismo? A tutte le sciocchezze con cui la propaganda ci riempie la testa? Simon aveva senza dubbio in mente il potere della televisione e degli schermi in generale, in grado di plasmare nuovi pensieri nelle persone. Qualunque aspetto si voglia dare a questa divinità luminosa, la sorte sembra segnata: non ci sarà salvezza per gli uomini finché non si uniranno spiritualmente in una catena di solidarietà e pietà, come ci insegna il drammatico periodo storico che stiamo vivendo.

Ascoltare questa canzone è un’esperienza strana, soprattutto se la inseriamo nel contesto dei giorni nostri. Da un lato ci si sente cullati dall’arpeggio e dal lieve canto, dall’altro si ha come la sensazione di essere rimproverati, accusati di non aver ascoltato l’avvertimento e provato a cambiare le cose. Anzi, l’abisso della non-comunicazione è oggi più profondo che mai. Chi più chi meno, ci siamo dentro tutti.