martedì 30 gennaio 2018

Con questi partiti la democrazia è in pericolo



Con questi partiti la democrazia è in pericolo
In questi anni si è passati dall’organizzazione capillare a formazioni politiche senza radicamento sociale e dirette da un leader. L'elettorato, i militanti e i territori vengono calpestati. Dal Pd al centrodestra, fino al M5s e LeU: nessuno escluso.
Bisogna intendersi bene quando si dice che i partiti dominano tutto ovvero, al contrario, che non ci sono più i partiti. Nella Seconda Repubblica i partiti sono profondamente cambiati. Non li paragono a quelli della Prima, neanche per dire se sono meglio o peggio. Sostengo che questa cosa che chiamiamo "partiti" ha mutato la struttura della nostra democrazia. Siamo passati dall’organizzazione capillare, iper-controllata o più a banda larga, su cui si fondava la Repubblica, a formazioni politiche senza radicamento sociale e dirette da un leader che in un solo caso, Berlusconi, è nato come tale ma che negli altri casi, dai 5 stelle al Pd, ma anche a Liberi e Uguali, lo è diventato perché ha prevalso la scelta oligarchica o perché uno di loro si è fatto strada battendo tutti i propri competitor.

SE I MILITANTI VALGONO ZERO. In questi partiti i militanti contano niente. Nelle formazioni politiche e nei sindacati del passato era vero il contrario. Di Vittorio tolse la propria firma a un accordo per le Acciaierie di Giovinazzo quando la Base si ribellò guidata da uno splendido capo-operaio poi diventato dirigente del Pci, Tommaso Sicolo. Nessun centralismo democratico avrebbe potuto far passare un candidato inopportuno calato dall’alto (in molti casi parliamo di persone come Guttuso o i cattolici che formeranno il gruppo parlamentare della Sinistra indipendente). Quando si sceglieva il paracadutato, lo si sceglieva sulla base delle affinità con la Base del partito, spesso veniva mandato per lungo tempo a farsi le ossa, come funzionario o, nel caso dei più bravi, come oratore domenicale nei comizi in piazza per creare una connessione sentimentale.
Considero il Pd di Renzi voto-repellente. Ho rispetto per i suoi sostenitori ma il loro partito si è collocato lontano da ogni idea di sinistra. C’è LeU. Bisognerà fare un ragionamento su di loro. Sulle aspettative che hanno suscitato e le delusioni che hanno procurato
Ora niente di tutto questo. Ora c’è una burocrazia che si è autoselezionata e viene selezionata dai leader (ma anche dai suoi funzionari che si sono assisi nelle stanze dell’organizzazione a Roma) che a sua volta sceglie chi deve seguirlo e chi no. Può persino capitare che le scelte siano fatte bene. Ciò che colpisce è la fedeltà al leader o il rigore di squadra. Con l’estrema offesa all’elettorato di candidati viaggiatori catapultati in collegi del Nord o del Sud. Non c’è solo lo scandalo di Boschi. Ho letto le liste di Pd e LeU e c’è da piangere a vedere con quanto disprezzo del territorio siano state moltiplicate le candidature.

LE LISTE SNATURANO IL PARTITO. Per la prima volta le liste modificano la natura di un partito. Il Pd per esempio, epurando la sinistra e tutti i critici o blandi sostenitori del segretario, è diventato il partito di un personaggio che ha al centro del proprio progetto l’alleaza con il centrodestra fino immaginare di fare con esso un partito unico, magari dopo la conclusione (che sia lontana Cavaliere!) dell’esperienza terrena del capo. A sinistra l’idea di un partito “ribelle” ha lasciato invece strada a un partito dell’establishment di una sinistra dalle belle intenzioni ma lontana mille miglia da Corbyn e Sanders e che lascia a terra il medico di Lampedusa, per tutelare candidati venuti dall’alto. Dall’altro lato dello schieramento la destra presenta compatta il suo corpus di idee. Non so se Forza Italia accetterà, ma da Salvini a Meloni corre la suggestione di abolire dopo il voto con le Unioni civili tutta le conquiste degli ultimi anni (unica cosa buona del renzismo).

INCOGNITA M5S. Stupisce come l’avvocato Bongiorno, che tanto si batte per la tutela delle donne con una propria organizzazione, accetti di essere entusiasta militante di un partito che vuole così arretrare la convivenza civile. Bisognerà probabilmente guardare alla signora non più come l’allieva del grande e discusso politico ma come la sorellina di Meloni. L’incognita diventa sempre più il Movimento 5 stelle. Ormai programmaticamente si sono rimangiati tutto, dalle alleanze desiderate a un programma che diventa ostaggio di quei criteri che il loro ribellismo sembrava contestare. Di Maio li ha parlamentarizzati, con una operazione sicuramente importante che in pochi anni li porterà a morire. In tutto questo bailamme che cosa fa un cittadino di sinistra? Ripeto che considero invotabile il Pd di Renzi, è voto-repellente. Ho rispetto per i suoi sostenitori, capisco che molti si dichiarino di sinistra (come molti organici esponenti di destra si proclamano socialisti), ma il loro partito con una brusca sterzata si è collocato lontano da ogni idea di sinistra. Persino Blair appare un pericoloso estremista. C’è Liberi e Uguali. Bisognerà fare un ragionamento su di loro. Sulle aspettative che hanno suscitato. Sulle delusioni che hanno procurato. Alla prossima puntata.


venerdì 26 gennaio 2018

Ad Auschwitz si va sempre e solo a sinistra.


Ad Auschwitz si va sempre e solo a sinistra. Non c’è una volta, in oltre tre ore di visita, che Beata e poi un lunghissimo cognome polacco, guida in lingua italiana del museo del campo di sterminio nazista, dirà di andare a destra. Anzi, una volta lo dirà, cioè alla fine della visita, quando ci porterà ai resti dei forni crematori di Birkenau o se preferite Auschwitz II. D’altra parte andava così anche nella realtà del campo di sterminio. Appena scesi dai treni merce c’era la prima selezione: se il medico SS indicava a destra era la camera a gas per i più deboli, a sinistra la morte più lenta nelle baracche.
“Qui sono state ammazzate un milione e trecento mila persone, di queste oltre un milione e cento erano ebrei”. Dice “ammazzate”, non un generico “sono morte”: “ammazzate”, punto. E guardandoti negli occhi snocciola i numeri: ebrei, polacchi, prigionieri sovietici, rom, intellettuali critici, partigiani, omosessuali. Ma poi puntualizza, per anticipare fraintendimenti: “ma più del 90 per cento ebrei”.
E io guardo e non capisco. Non riesco a immaginarlo. Vedi tutto. Vedi quel che resta, quel che è stato ricostruito, le tonnellate di capelli, i quintali di occhiali, le divise macilente, le foto dei forni crematori in funzione, le perle di zyklon B (il gas letale), le baracche, vedo ma non riesco a figurarmelo.
E mi accorgo che supera la mia comprensione perché finisce sempre male e sempre senza un motivo accettabile, umanamente accettabile. Se sei la mamma che scende dal treno con i suoi bimbi e il neonato in braccio e non vuoi separarti dai tuoi piccoli, muori. Se sei un uomo con il bastone muori. Se sei piagato da un viaggio di una settimana in un vagone merci, muori. Se alla SS dici di avere tredici anni, muori. Se il tuo treno è il quinto ad arrivare a Birkenau, muori. Tu arrivi qui e muori e non c’è un perché. Muori perché sei ebreo e muori perché ingenuamente ti fidi della SS che, nello spogliatoio della camera a gas ti dice di ricordarti del numero di gancetto a cui appendi i vestiti perché poi li dovrai riprendere. Ma il poi non ci sarà. Muori settecentomila volte.
Ma mettiamo invece che la selezione la superi. Morirai, insieme ad altri cinquecento mila, ma lo farai molto più lentamente di quelli finiti subito nelle camere a gas. Morirai di fame dopo solo sei mesi di prigionia. Sei mesi dove non sarai più una persona, ma una cosa con un numero tatuato sul braccio sinistro. “Le donne sopravvissute - racconta Beata davanti a foto orribili - pesavano tra i 23 e i 35 chilogrammi, alcune sono morte perché hanno dato loro un pasto normale e il loro corpo non sapeva più assimilarlo”.
I sopravvissuti, già perché qualcuno è sopravvissuto. Gli italiani più famosi li conosciamo. 174.517 era la matricola di Primo Levi. Lo ha scritto chiaro e tondo nei suoi libri che è rimasto in vita solo per caso, per fortuna. Dei 650 con i quali arrivò da Fossoli, si salvarono in venti. 75.190 è il tatuaggio fatto sopra il polso sinistro a Liliana Segre, fa parte dei 776 ragazzini italiani arrivati ad Auschwitz quando non avevano ancora quattordici anni, lei e altri ventiquattro sono sopravvissuti.
Il sopravvissuto lo riesci a immaginare. Ne conosci il volto. I morti, alcuni, li conosci qui. Le foto nei “pigiami” a righe. Ma sembrano lapidi. Sembra un cimitero. Invece questo non è un cimitero, è un massacro. Un massacro di dimensioni tali che la parola non esiste e, anche se ti ci vuoi rifugiare in quella che sembra coniata apposta, la puoi sentire, ma non comprendere. È troppo.
“Anche noi quando pensavamo ai deportati, avevamo vergogna: non avevamo niente da rimproverarci, ma non avevamo sofferto abbastanza”.
Lo scrive Simone De Beauvoir ne I Mandarini ed è per questa frase che sono qui. Però è arrivato qui che mi accorgo dove sta l’inganno.
Io posso cercare di immedesimarmi quanto voglio per cercare di comprendere, ma io non sono un deportato. Io non sono un condannato a morte. Io qui non ci sono finito. E quindi, inequivocabilmente io sto dall’altra parte del filo spinato. Di quel filo spinato elettrificato così tanto che alcuni, esausti, vi si attaccavano per suicidarsi.
Dei miei due nonni uno era partigiano e non l’ho conosciuto, l’altro invece era scappato da Napoli con l’Armistizio e a piedi era tornato a casa in Veneto. Questo nonno l’ho conosciuto e io, beh, ero fiero dell’altro. Di quello che faceva saltare i ponti contro i nazisti e non di quello che da loro si nascondeva. Ma ero troppo piccolo e troppo vigliacco per chiedergli: “nonno ma perché tu non sparavi alle SS, come l’altro nonno”. La paura che mi ha sempre attanagliato a ogni 25 aprile era che io poi non avrei avuto il coraggio del nonno partigiano.
E qui ad Auschwitz la domanda si moltiplica per milioni di morti. È facile oggi dire da che parte sarei stato. Ma settantacinque anni fa io mi sarei chiesto come mai scomparivano i miei compagni di scuola? Avrei saputo non girare le spalle al compagno ebreo? Avrei aiutato qualcuno a fuggire? Avrei avuto il coraggio di nasconderlo? Mi sarei rifiutato di essere il macchinista di un treno del binario 21? E se fossi nato tedesco, avrei saputo oppormi alla “bestia umana”?
È evidente che non c’è risposta o non abbastanza convincente.
Il 27 gennaio del 1945 i sovietici entrarono ad Auschwitz e trovarono poco meno di otto mila prigionieri. Gli altri sessantamila erano stati obbligati dai nazisti ad una marcia di centinaia di chilometri verso altri campi, in giornate a meno dieci come oggi, pochi stracci addosso e zoccoli di legno ai piedi, morirono in quindicimila. Volevano nascondere le tracce della loro disumanità.
Il 27 gennaio è la giornata della memoria. Io il così detto “Tribunale della Storia” lo immagino con gli occhi inquirenti dei miei figli e magari domani dei figli dei miei figli, pronti alla domanda che io non ho saputo fare a quel mio nonno. E li immagino fra un po’ di anni chiedermi: “ma tu da che parte stavi?” e io so che non avrò alibi. “Da che parte stavi quando sono cominciate a ricomparire le svastiche sui muri?”, “Da che parte stavi quando le teste rasate picchiavano per strada i ragazzi omosessuali?”, “Da che parte stavi quando le croci uncinate sono ricomparse, riempiendole, le nostre piazze?”, “Da che parte stavi quando rabbino era il sinonimo di tirchio e tutti sorridevano?”, “Da che parte stavi quando i miei compagni rom scomparivano dalla classe perché il loro campo era stato sgomberato?”, “Da che parti stavi quando lo zio di Mohamed affogava in mezzo al Mediterraneo?”, “Da che parte stavi quando mal vestiti in centinaia attraversavamo le Alpi per raggiungere la Francia dall’Italia?”, “Papà, ma tu da che parte stavi?”.
“Those who do not remember the past are condemned to repeat it” (“chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”) è la frase di George Santayana all’ingresso di uno dei primi blocchi di detenzione che si visitano. Ogni 27 gennaio io di quello che è stato e di quello che è cerco di avere memoria, ma, perso dalle piccolezze mie, non sono poi così sicuro di riuscirci.

sabato 20 gennaio 2018

D’Alema fa D'Alema,



D’Alema fa D'Alema, e Liberi e Eguali è già in ebollizione

19/01/2018 


"Dopo il 4 marzo c'è il 5 marzo", dice D'Alema nella sua intervista al Corriere della sera che sta scompigliando le fila dei nemici, ma soprattutto degli amici dell'ex segretario della Fgci.
Infatti nella sua proiezione politica D'Alema si è spinto molto oltre, arrivando anche al 5 aprile, al 5 maggio, e oltre addirittura l'estate.
Un vero monumento di una politica politiciennes, dove il leader manovra senza curarsi della sua base sociale. E qui i sopracciglia si sono alzati numerosi proprio nella formazione "Liberi e Eguali".
Non tanto per i singoli temi e contenuti toccati nella conversazione con Cazzullo, quanto proprio per il tipo di ragionamento, per il metodo, che il successore di Prodi a Palazzo Chigi ha coriacemente esibito, senza curarsi nemmeno di mitigare o diluire l'impatto con i suoi compagni di cordata.
In sostanza D'Alema, dopo essersi ulteriormente accanito sull'ombra ormai di Renzi, di cui già pregusta la rimozione, traccia le linee a maglie strettissime su cui dovranno attestarsi i nuovi parlamentari eletti della lista a sinistra del Pd.
Trascorsa la sua quaresima, in queste settimane in cui si è dovuto mimetizzare nelle seconde linee del nuovo partito per non indispettire i nuovi arrivati, è tornato sulla scena con la sua inossidabile convinzione: la politica la fanno i professionisti. E io lo sono, fa intendere senza alcuna falsa modestia.
E la sua è una politica da professionisti, tutta scenari e messaggi, manovre e contropiedi. Una politica tutta politicante, senza rappresentanza.
L'intendenza seguirà, sembra dire il dirigente delle mille esperienze maturate nel Pci, che ha attraversato da protagonista tutte le fasi del post comunismo.
Sollecitato dal suo accorto intervistatore, non ha avuto alcuna remora a spingere in avanti la sua bussola, prefigurando tutte le successive fasi al voto del 4 marzo:
Sconfitta rovinosa del Pd, affermazione - ma non trionfo - della destra, incompatibilità nel campo berlusconiano con la Lega, e operazione tipo quella del '95, quando Berlusconi venne sfrattato da Palazzo Chigi dal lavorio proprio di D'Alema ai fianchi di Bossi, a ruoli invertiti. Ora sarà Berlusconi a piantare in asso la Lega e diventare il perno di un governo di grande coalizione del Quirinale. Un copione che lascia poco spazio agli altri promotori di Liberi e Eguali: Grasso viene esplicitamente derubricato, gli altri compagni di avventura, come Fratoianni o Civati o lo stesso Speranza, sullo sfondo a fare da contorno al grande manovratore. È questa la vera visione che divide irreversibilmente la sinistra, in una coazione a ripetere. D'Alema infatti rimane il figlio di quel partito, dove ha imparato che la rappresentanza è una scelta di campo epocale, dove la base sociale sceglie, per la sua stessa identità e collocazione nella società, il suo riferimento, il suo mediatore politico, che poi utilizza questo mandato al meglio, facendolo fruttare politicamente con la propria professionalità.
Togliatti, con l'intesa con la Dc sull'articolo 7 della costituzione e successivamente l'amnistia ai fascisti; Berlinguer con il compromesso storico, Occhetto con il cambio del nome del Pci, e infine lo stesso D'Alema con le capriole con Prodi e poi contro Prodi, non sono mai stati frenati da problemi di sintonia e di raccordo con i propri elettori. La politica, appunto, è roba da professionisti. Al tempo delle grandi narrazioni, nel secolo delle classi sociali separate, dei partiti di massa ideologici, era una tecnica sostenibile, e forse anche inevitabile. Ma quello che D'Alema ha sempre rifiutato, ignorando assolutamente di misurarsi con l'idea stessa che la sociologia sia una branchia della politica, è che oggi questo metodo è assolutamente ingestibile. Nei partiti leggeri e fragili, dove il consenso vive di momentanei stati d'animo, e dove le ragioni di una rappresentanza sono strettamente connesse a sintonie emotive più che ideologiche, esibire la propria spregiudicatezza nella mossa a sorpresa non paga, soprattutto a sinistra.
La rete non è la caricatura dei 5s, non è quel giocattolo privato di Rousseau, la piattaforma che gestisce le relazioni con la base dei grillini. È un vero paradigma sociale, figlio di un'esplicita domanda di partecipazione e negoziazione politica di una moltitudine d'individui, emancipati e attrezzati, che non pensano minimamente di delegare a pochi "migliori" il proprio destino. Lo stesso Renzi, appena si è discostato dall'onda delle primarie, e ha cercato di riconvertire il proprio carisma in potere politico è andato a sbattere.
La sensazione è che D'Alema lo stia seguendo, per un altro percorso: dopo aver accompagnato la rivolta della sinistra del Pd, l'incontro con anime e culture che non a caso erano fuori da quel perimetro non si può realizzare al grido di "lasciami lavorare ragazzo". Fino al 4 marzo la convenienza reciproca, con non pochi tormenti costringerà tutti a stare in riga. Poi, come spiega appunto D'Alema, dopo il 4 marzo ci sarà il 5 marzo, e allora si ricomincia da capo: ognuno per sé e Dio per tutti.

lunedì 15 gennaio 2018

La storia del Dottor Živago,

La storia del Dottor Živago, così Pasternak e Feltrinelli sfidarono l'Urss

Sessant'anni fa veniva pubbliato il libro culto del celebre scrittore e poeta russo. Un caso editoriale nato dopo un lungo travaglio per la pubblicazione, che Pcus, Kgb e Pci cercarono di boicattore in ogni modo.



UN COLPO EDITORIALE DI FELTRINELLI. Per Giangiacomo Feltrinelli fu un colpo grosso, indispensabile e fondante per la sua giovanissima casa editrice, un’impresa più che onorevole di cui giustamente ancora oggi il figlio Carlo che guida l’azienda va fiero, e insieme anche un dramma personale. Il più che comunista Feltrinelli era a caccia di manoscritti in russo che esaltassero, anche criticamente, il sistema sovietico e non che lo demolissero impietosamente. Ma un sano senso degli affari, per Feltrinelli inevitabile, alla fine ebbe il sopravvento.
IL TENTATIVO DI PUBBLICARE IN OCCIDENTE DI PASTERNAK. Paolo Mancosu, professore di filosofia a Berkeley e appassionato “zivaghista”, ha smontato varie insistenti fantasie, dopo avere consultato tra l’altro anche tutti i documenti a disposizione della Fondazione Feltrinelli (Mancosu, Inside the Zhivago Storm, Fondazione Feltrinelli, Milano 2013). Giangiacomo non andò mai a Mosca nel 1956. La Cia ottenne il microfilm via Londra, sicuramente dai servizi dell’M16 britannici, e si trattava del manoscritto che Pasternak aveva affidato al noto storico, politologo e diplomatico inglese di origine russa Isaiah Berlin perché lo consegnasse alle sorelle, da molti anni residenti a Oxford. Conclusa agli inizi del 1956 la revisione del romanzo - la stesura , 800 pagine di dattiloscritto, era terminata due anni prima - Pasternak cercava di diffonderlo in Occidente, dove inviò tre o quattro copie, ben sapendo che in Russia non sarebbe mai uscito, nemmeno nel disgelo kruscioviano, e ben sapendo di violare così la legge sovietica..


Giangiacomo Feltrinelli.

La Cia riceveva la riproduzione fotografica il 2 gennaio del 1958 e Il Dottor Živago era uscito in prima mondiale a Milano a fine novembre. Il valore politico dirompente fu subito chiaro agli americani e ai loro colleghi britannici e ad altri. Il successo immediato in Italia lo confermava. Pasternak nell’unico romanzo della sua carriera di poeta e traduttore di poesia, che già lo aveva portato fra i papabili per il Nobel, raccontava la sua visione dell’inutilità, e dei danni, della rivoluzione Obiettivo della Cia era ottenere un’edizione in lingua originale da diffondere clandestinamente in Russia.
IL BOICOTTACCIO DEI PCUS, KGB E PCI. I sovietici fecero di tutto per impedire la pubblicazione e riuscirono a ritardarla di vari mesi. Si mossero il Pcus e il Kgb ai massimi livelli, si mosse e pesantemente il Pci sull’iscritto al partito Feltrinelli, con i suoi massimi dirigenti culturali, Emilio Sereni e Mario Alicata, e altri. Il giovane editore ritardò la pubblicazione di vari mesi, in inutile attesa di un’edizione russa con cui voleva uscire in contemporanea. Ma risultava impossibile una “revisione” ufficiale del testo che la censura sovietica diceva di voler fare e alla quale ufficialmente Pasternak acconsentì, avvertendo poi Feltrinelli per vie sicure che l’ipotetico consenso gli era stato estorto e che non andava considerato. Era impossibile tecnicamente mettere mano a un romanzo disseminato, soprattutto nella parte centrale e conclusiva, di note e dialoghi pesantemente critici.
IN RUSSIA PUBBLICATO NEL 1958. Un esempio: «Fanno le rivoluzioni uomini attivi, fanatici unilaterali, geni dell’autolimitazione. In poche ore o in pochi giorni abbattono il vecchio ordinamento. I rivolgimenti durano due settimane, tutt’al più qualche anno; poi per decenni, per secoli gli uomini venerano come qualcosa di sacro lo spirito di limitazione che ha portato al rivolgimento». Il Nobel del 1958 fu di Pasternak ma non poté riceverlo perché sarebbe stato il non ritorno a casa e l’esilio. Lo riceverà molti anni dopo suo figlio Evgenij. Il romanzo uscirà in Russia nel 1988.


Il merito di un’impresa editoriale certamente difficile va prima di tutto a Giangiacomo Feltrinelli, pur con le contraddizioni, e in parte notevole a Valerio Riva, fra i responsabili della allora piccola casa editrice e deciso sostenitore del progetto a differenza di vari colleghi troppo ortodossi che storcevano politicamente il naso. E in particolare a Pietro Zveteremich, grande slavista e il traduttore che, convocato da Riva e dal direttore editoriale Luigi Diemoz a manoscritto appena arrivato, dopo sette ore di lettura dichiarò : è un capolavoro e sarebbe un delitto non pubblicarlo.
IL VALORE DEL MESSAGGIO SUPERA QUELLO LETTERARIO. Sul valore strettamente letterario, notevole, dell’opera era tuttavia lo stesso Pasternak ad avere qualche dubbio. «Non ho scritto al mio meglio», ammise in una lettera suggerendo che l’urgenza del messaggio aveva il sopravvento a volte sull’eleganza e coerenza delle forma. Anche vari amici, tra cui la poetessa Anna Akhmatova, amica di Pasternak, lo trovarono non all’altezza delle capacità poetiche dell’autore. Il libro è bello, bellissimo, ma non quasi perfetto ad esempio come Il gattopardo (Feltrinelli 1958), che pure ha le sue sbavature (poche) e le sue pagine “ideologiche” fra italianità e sicilianità, ma più fuse con il tutto.
NABOKOV LO STRONCÒ. Dagli Stati Uniti Vladimir Nabokov lo stroncò dichiarandolo «una cosa modesta, pasticciato trito e melodrammatico», ma lo scrittore di Lolita come noto apprezzava essenzialmente la propria, di prosa, e Živago oltretutto scacciava per mesi la sua Lolita dalla prima posizione dei bestseller. Il grande critico Edmund Wilson, che su questo ruppe con l’amico Nabokov, capì meglio. «Živago rimarrà, credo, uno dei grandi eventi nella storia letteraria e morale dell’umanità». E aggiungeva: «Per scriverlo in uno Stato totalitario e offrirlo al mondo occorreva davvero la statura del genio». Il libro usciva nel momento giusto, il presunto disgelo kruscioviano, nonostante i fatti dell’Ungheria nel 1956, e anche questo spiega il vivo interesse di milioni di lettori.
La storia editoriale del romanzo è piena di episodi e personaggi che andrebbero ricordati, e risvolti vari, non ultimi i contrasti dopo la morte dell’autore nel 1960. Pasternak aveva due mogli, e sempre si occupò di loro, e dal 1946, pur senza abbandonare la seconda famiglia, aveva un’amante prediletta, Olga Ivinskaya, chiaramente la Lara idealizzata nel romanzo. Le royalties, cospicue, quanto mai utili a gente che viveva nelle ristrettezze sovietiche, e non trasferibili inizialmente in Urss («il denaro di Giuda», diceva il regime) furono uno dei motivi. Olga aveva già fatto quattro anni di Gulag usati per intimidire Pasternak, troppo noto già dopo il 1946 per essere facilmente toccato e che Stalin aveva sempre risparmiato (anche per traduzioni di poeti georgiani che il dittatore georgiano aveva apprezzato). Ne farà altri due anni dopo il 1960.
IL RUOLO DI SERGIO D'ANGELO. Un personaggio va tuttavia ricordato: è Sergio d’Angelo, viterbese, dal 1945 iscritto al Pci e poi manager dell’editoria del partito, a Mosca nel 1956 come redattore nei servizi italiani della radio sovietica. Feltrinelli gli aveva chiesto di scovare autori russi, pensando a libri alla fine leali al sistema. Letta una breve nota che parlava di un manoscritto ultimato da Pasternak, d’Angelo andò a trovarlo a Peredelkino, fuori Mosca. Pasternak gli disse che il libro non sarebbe mai uscito in Urss e gli consegnò il manoscritto. Poco dopo Feltrinelli in persona lo ebbe, a Berlino, dove d’Angelo doveva recarsi per questioni sue. «Siete fin d’ora invitati alla mia fucilazione», diceva Pasternak salutando d’Angelo e l’amico sovietico mentre lasciavano col manoscritto Peredelkino.
I DOCUMENTI DEL KGB SU FELTRINELLI NON CONSULTABILI. D’Angelo lavorò poi per la Feltrinelli a Roma, lasciò il Pci, venne strapazzato dall’editore per aver fatto arrivare a Olga soldi delle royalties che consentirono al regime un’accusa e l’arresto per traffico di valuta, e alla fine fece causa a Feltrinelli per un adeguato compenso come scout che aveva procurato l’opera, causa risolta con una transazione negli Anni 70. D’Angelo ha scritto nel 2006 Il caso Pasternak, 180 pagine di ricordi (Bietti editore). Dice tra l’altro di avere visitato parecchi archivi sovietici, ma di avere avuto forti limitazioni in quello dell’ex Kgb, teoricamente per il caso Pasternak e altro accessibile da diversi anni. La tesi di d’Angelo è semplice: in quei faldoni c’è anche la storia di Feltrinelli, e del ruolo avuto come collaboratore dei servizi dell’Est per favorire la causa del socialismo rivoluzionario sovietico, fino alla morte sul traliccio di Segrate, nel marzo 1972. A fare di dell'editore un rivoluzionario era stato, secondo d’Angelo, il complesso di colpa politico per avere pubblicato Il dottor Živago.

lunedì 8 gennaio 2018

Il Saggiatore, la ricetta di un editore indipendente

08 gennaio 2018

Il Saggiatore, la ricetta di un editore indipendente che fa 60 anni

Il marchio fondato da Mondadori nel 1958 si è reso riconoscibile, ha alzato i prezzi e migliorato le vendite. Grazie a long seller, non best seller. Il presidente Formenton: «In Italia ci sono pochi lettori, ma forti».

  • Enrico Arosio

Nel 2018 Il Saggiatore compie 60 anni. Non è poco, per un editore indipendente. Alberto Mondadori, laico illuminista, lo fondò nel 1958, a metà strada tra la nascita della Feltrinelli (1954) e quella dell’Adelphi (1963). E oggi è saldamente (se è lecito usare questo avverbio in editoria) in mano a due eredi di Alberto, Luca e Mattia Formenton, sganciatisi nel 1993 dal gruppo Mondadori mentre l’Einaudi dai nobili lombi, anch’essa a lungo un’impresa familiare, finì inghiottita dal gruppo di Segrate e dalla Dynasty dei Berlusconi.
BRAND "EINAUDIZZATO". Ebbene, è proprio all’estetica Einaudi che pare ispirarsi Il Saggiatore di oggi, che ha sede a Milano dietro Porta Venezia, ma della casa torinese ha ripreso il dominio del colore bianco e l’eleganza grafica che hanno reso i libri più riconoscibili e rafforzato l’identità del marchio. Sì, Il Saggiatore si è un poco "einaudizzato"; basti vedere, a mo’ di esempio, le Lettere di Edgar Allan Poe appena uscite.
ATTESO UN +10% NEL 2017. Per capire meglio, Lettera43.it ha incontrato il presidente Luca Formenton e il direttore editoriale Andrea Gentile, a capo di una redazione di 30-40enni. Formenton ci mostra un grafico. Nel 2014 il prezzo medio di un libro del Saggiatore era di 17,50 euro; nel 2016 era di 25. Ma nello stesso periodo le copie vendute sono cresciute del 10%, e un altro +10 è atteso per il 2017.
Avendo abolito i tascabili, è come se tutti i nostri titoli, romanzi e saggi, novità e ristampe, fossero titoli di prima uscita

Il direttore editoriale Andrea Gentile
«Abbiamo alzato i prezzi perché sono convinto che non debbano mai svilire il valore del prodotto, ma l’aumento non ha penalizzato le vendite», nota l’editore, che ricorda gli ultimi quattro anni di fatturati in crescita, in libreria e su Amazon, e la strategia basata su alcuni punti chiave: coerenza rispetto al target, più titoli per autore e pochi libri singoli; rilancio del catalogo storico; unificazione grafica tra narrativa e saggistica; abolizione dei tascabili. In due parole: long seller, non best seller.
«BESTSELLER FUORVIANTI». Anche se l’Italia legge poco? «Anche se l’Italia, come preferisco dire, è un Paese con pochi lettori, ma forti. A volte molto forti. Raccomandava Klaus Wagenbach, l’editore berlinese: mai farsi fuorviare dalla logica del bestseller; nonostante le tentazioni». Andrea Gentile ricorda che l’impostazione grafica è merito di Fabrizio Confalonieri. «Avendo abolito i tascabili, è come se tutti i nostri titoli, romanzi e saggi, novità e ristampe, fossero titoli di prima uscita».
SAGGISTICA PUNTO DI FORZA. Non esiste più il saggio di Lévi-Strauss a 12 euro, ma neanche si costringe lo studente a una spesa esorbitante: ci si colloca a mezza via. La saggistica è il punto di forza del Saggiatore sin dai tempi di Alberto Mondadori. E infatti Sartre e Lévi-Strauss, o Karoly Kerényi o John Stuart Mill o Alain Touraine sono sempre in pista; mentre lo storico Piero Camporesi è stato portato via alla Garzanti. Formenton e Gentile sottolineano che «gran parte della saggistica è progettata da noi».

Luca Formenton.

Un buon esempio è il filone della cosiddetta «antropologia italiana». Inaugurato da Patria di Enrico Deaglio (quasi 90 mila copie), ha prodotto titoli come Dormono sulla collina di Giacomo Di Girolamo, un’epifanica Spoon River dei morti d’Italia da Piazza Fontana a oggi, o Il libro dell’incontro a cura di Bertagna, Ceretti e Mazzucato, che ha ridefinito i rapporti tra autori e vittime della lotta armata, secondo gli standard della giustizia riparativa.
DIFFICOLTÀ SULLA NARRATIVA. La narrativa, soprattutto italiana, è invece ancora un punto debole. Anche per questo nel 2016 Formenton ha concorso, invano, alla gara per l’acquisto della Bompiani (vinta dalla Giunti). Oggi Il Saggiatore punta visibilmente su scrittori anglofoni, come le due americane Joan Didion e Joyce Carol Oates, il “nichilista misterioso” Thomas Ligotti, o il brillante inglese Geoff Dyer, a cavallo tra fiction e non fiction, arrivato dalla Einaudi.

Alcuni titoli della casa editrice.

Verranno riproposti anche alcuni scrittori novecenteschi, come il polacco Witold Gombrowicz (Cosmo, poi Ferdydurke). Del resto, tra i classici del moderno Il Saggiatore ha già rispolverato autori di culto, vedi Jean Genet, Klaus Mann o la svizzera Annemarie Schwarzenbach. «E nel 2018», anticipa Andrea Gentile, «lanceremo nuovi narratori contemporanei, di diversa origine: il tedesco Andreas Moster (Siamo vissuti qui fin dal giorno in cui siamo nati), l’ungherese Lászlo Darvasi, e due esordienti italiani, Andrea Esposito, finalista al premio Calvino, e Francesco Iannone con una storia oscura di stregoneria nel Mezzogiorno».
TRA AMORI E DEBOLEZZE... Meglio le streghe, è l’auspicio, delle balle messe in giro dal falso tycoon Alessandro Proto con Io sono l’impostore, esordiente sui generis di cui forse non si sentiva la mancanza… Un filone qualificante riguarda la musica e il cinema: monografie, biografie, testimonianze di alto livello e ad ampio spettro: troviamo David Lynch a Orson Welles, Philip Glass a David Bowie, l’epistolario di Gustav Mahler e le interviste di Leonard Cohen poeta-cantautore. Qui emergono i gusti personali dell’editore Formenton: «Ma se non entrassero un po’ anche i nostri amori, le nostre debolezze, che editori saremmo?».

Le ultime domande sono per il Formenton presidente del comitato di Bookcity, la kermesse milanese del libro che a novembre ha fatto 175 mila visitatori in tre giorni. Vale davvero lo sforzo, con Torino e Milano che già bisticciano sul Salone del Libro? «Ma sì. Bookcity non è un evento-mercato né un festival a tema, ma un evento diffuso, pensato con i lettori. Un modello unico in Europa».
CRESCE IL VALORE DI MILANO. Non è troppo dispersivo, con 1.200 appuntamenti? «Sono esplosi solo quelli gestiti dai privati, associazioni, gruppi di lettura; quelli degli editori sono in numero stabile». E il beneficio economico generale? «Non riguarda solo la diffusione dei libri, ma l’investimento culturale e il valore mediatico di Milano». Che, per la verità, è in crescita da tempo, dal boom di Expo 2015.

venerdì 5 gennaio 2018

FDA USA approva il primo dispositivo ad onde d’urto per trattare le ulcere del piede diabetico -

FDA USA approva il primo dispositivo ad onde d’urto per trattare le ulcere del piede diabetico
www.diabete.com/fda-usa-approva-primo-dispositivo-ad-onde-…/
La FDA, l'agenzia americana che regola i farmaci, ha approvato la vendita del primo dispositivo ad onde d'urto per trattare le ulcere diabetiche ai piedi.
diabete.com

martedì 2 gennaio 2018

Canto alla luna di Alda Merini

Canto alla luna
di Alda Merini
La luna geme sui fondali del mare,
o Dio morta paura
di queste siepi terrene,
o quanti sguardi attoniti
che salgono dal buio
a ghermirti nell'anima ferita.
La luna grava su tutto il nostro io
e anche quando sei prossima alla fine
senti odore di luna
sempre sui cespugli martoriati
dai mantici
dalle parodie del destino.
Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo,
ma forse al chiaro di luna
mi fermerò il tuo momento
quanto basti per darti
un unico bacio d'amore.
Da Vuoto d'amore, 1991.