giovedì 30 agosto 2018

Cosa c’è dietro la Jugonostalgia


Pubblicità, video musicali e adesso una mostra del MoMa che celebra l’architettura jugoslava del regime.

di Veronica Tosetti
Il monumento di Jasenovac, chiamato anche "Il fiore di pietra", è composto da cemento armato precompresso (fotografia di Stefano Fasano, da "Spomenik, la Jugoslavia che resta")
Prima delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90 e prima dei nazionalismi che segnano oggi quei Paesi, i Balcani hanno avuto in eredità un passato scomodo che le nuove generazioni provano a dimenticare, a cui altri invece guardano con nostalgia e che il resto del mondo, per la maggior parte, ignora. A distanza di qualche mese dalla chiusura del Tribunale per i crimini della ex Jugoslavia, avvenuta nel dicembre 2017, il MoMA di New York ha deciso di dedicare una retrospettiva su quel mondo perduto e che ora sopravvive attraverso la sua architettura. Ha inaugurato il 15 luglio e andrà avanti fino al 13 gennaio 2019 la mostra dal titolo Toward a Concrete Utopia – Architecture in Jugoslavia, 1948-1980. L’intraducibile gioco di parole del titolo (“concrete utopia”, nel senso di utopia concreta e reale, ma anche costruita in cemento) svela la ratio dell’esposizione: rappresentare i 45 anni della Jugoslavia di Josip Broz Tito, attraverso studi, bozzetti, fotografie e materiale relativi alla produzione architettonica che meglio ha rispecchiato la sua politica socialista.
Toward a Concrete Utopia è la prima mostra curata da Martino Stierli, curatore di architettura e design del MoMA, realizzata con il supporto del professor Vladimir Kulić. L’architettura jugoslava, secondo Stierli, costituisce «un capitolo importante ma sottostimato della storia nell’assetto mondiale, diviso in due dalla Guerra Fredda». L’utopia di cui si parla è infatti quella di una società alla ricerca una terza via alternativa allo stalinismo del Blocco Sovietico e alle forze liberali statunitensi, ovvero quella dei Paesi non allineati. L’esposizione, strutturata in 4 parti, esplora i temi dell’urbanizzazione post-bellica, della sperimentazione tecnologica e la sua applicazione nella vita di tutti i giorni e infine i monumenti e il processo di costruzione dei memoriali commemorativi. Nella Jugoslavia di Tito, l’architettura rispondeva a una spinta centralizzata a produrre uno spazio civico condiviso e una storia comune in una società altamente diversificata e multietnica, ma allo stesso tempo era l’espressione spontanea di un desiderio di modernizzazione che derivava dall’apertura all’estero e dalla facoltà di viaggiare liberamente, sia a Oriente sia a Occidente. Belgrado, la capitale della Federazione, costituisce l’esempio più importante in questi termini: ispirandosi a Brasilia e Chandigarh in India, la Novi Beograd rappresenta un tipo di periferia costruita su un modello di pianificazione modernista.
Ma la sezione della mostra che forse è destinata ad attrarre maggiore curiosità è l’ultima, dal titolo “Identità”, che riguarda i memoriali e monumenti commemorativi della Seconda guerra mondiale dedicati ai partigiani e alle battaglie unificatrici. Si tratta di opere di grande fascino, dallo stile spesso astratto e surrealista, dislocati lungo le sette ex Repubbliche e che rievocano il mito fondativo dell’antifascismo, non solo contro le forze dell’Asse, ma anche contro le singole spinte nazionaliste che minacciavano la pace e l’unità della nascente Jugoslavia. Tra i più importanti autori di queste opere, anche note con il nome di spomenik, spicca il nome di Bodgan Bogdanović, architetto e intellettuale di spicco (a cui il museo dedica ampio spazio con una pubblicazione parallela al catalogo): è stato sindaco di Belgrado tra il 1982 e il 1986, e poi oppositore del regime di Milošević, posizione che gli causò l’allontanamento a Vienna, dove morì nel 2010.
Il monumento Kosmaj, vicino a Belgrado.
Gli spomenik vantano ad oggi lo status di attrazioni turistiche per jugo-nostalgici e semplici curiosi, oltre che fenomeno social, grazie al contributo di progetti di ricerca e divulgazione come SpomenikDatabase (di cui uscirà un volume fotografico a settembre) e alla crescente attenzione mediatica a livello internazionale, citati tra gli altri da Atlas Obscura e Lonely Planet. Un culto iniziato nel 2007, quando il fotografo olandese Jan Kempenaers ha ritratto i monumenti più importanti, realizzando un progetto dal titolo Spomenik, risultato in alcune mostre e un catalogo diventato presto introvabile. Come molti accademici hanno fatto notare, il termine spomenik nelle lingue di origine serbo-croata identifica un qualsiasi tipo di monumento. Kempenaers è stata la prima persona non originaria dell’ex Jugoslavia ad utilizzarlo per definire quei particolari monumenti, sdoganandolo in tutto il mondo e creando perciò una risemantizzazione del termine, con una connotazione politica molto specifica. La commemorazione della guerra per la Jugoslavia aveva un enorme significato ideologico, che si fondava sulla necessità di ricordare circa un milione di vittime. Come risultato, i memoriali furono costruiti in gran numero (ne sono stati contati oltre cento) in tutto il paese, in posizioni diverse (dai centri abitati delle città più importanti, fino a territori disabitati) nonché su iniziative di differenti gruppi (dalle piccole comunità locali allo stato federale). Bogdanović in particolare ha ricreato uno stile peculiare per commemorare il trauma della guerra, attraverso opere come il memoriale di Jasenovac in Croazia, dove sorgeva un campo di concentramento nazista-ustascia, e il Cimitero Partigiani di Mostar in Bosnia Erzegovina.
Dietro l’hype e la jugo-nostalgia che adesso gli spomenik portano con sé, vi è quindi un retaggio culturale spesso sconosciuto, all’estero come in patria. Proprio il “Fiore” di Jasenovac è stato al centro della polemica che a inizio luglio ha investito Valley Eyewear, un marchio australiano, colpevole di aver usato il memoriale del genocidio ebraico come set per la sua ultima campagna pubblicitaria, generando l’indignazione del pubblico online e conclusasi con il ritiro della campagna. Non solo, gli spomenik di Tjentište e Podgarić fanno da teatro anche del recente video della canzone “Darkside” di Alan Walker, sempre accostati a un’ambientazione sci-fi e post-apocalittica.
Ciò che in effetti accade con questi monumenti e che li rende così importanti è una continua riflessione sulla memoria e sul rapporto con il proprio passato jugoslavo: fatto che nelle ex Repubbliche non è mai univoco e anzi, subisce una costante ridefinizione. Se infatti da un lato gli spomenik sono apprezzati come elemento esotico dagli stranieri, in patria accade spesso che questi siti vengano lasciati all’incuria, se non al vandalismo. Lo scorso febbraio il monumento di Tjentište è stato colpito da una frana che ne mette a rischio la salvaguardia, così come il Cimitero dei Partigiani di Mostar, vandalizzato e abbandonato per anni e che solo negli ultimi mesi è stato ristrutturato grazie all’intervento dell’Unione Europea. C’è da scommettere che la monumentale operazione di ricerca lanciata dal MoMA riporterà il dovuto lustro a questa espressione architettonica e soprattutto sarà in grado di fare da traino, ricordando l’esistenza di queste opere anche nel resto del mondo. E se gli spomenik ormai sono sempre più diffusi sui giornali, nelle pubblicità e nei video musicali per la loro estetica, la vera sfida è restituire la chiave di lettura corretta che si cela dietro a questi baluardi, testimoni di un’utopia politica tragicamente implosa a un braccio di mare di distanza da noi.


mercoledì 29 agosto 2018

Salvini-Di Maio, governa l’ignoranza. Ma chi scende al livello del cretino perderà sempre 

Politica,IL FATTO QUOTIDIANO
Salvini-Di Maio, governa l’ignoranza. Ma chi scende al livello del cretino perderà sempre

di Andrea Viola
28 agosto 2018
Per chi ha la capacità di capire, ormai è abbastanza chiaro: non esiste alcuna emergenza migranti. Esiste, invece, una sempre più evidente emergenza socio-culturale: ad emergere in maniera preoccupante è lo stato di superficialitàe ignoranza di una buona fetta di opinione pubblica. E a vagabondare sono sempre di più gli ignoranti. E’ questo il tessuto sociale, emerso “grazie” alla rete e ai social (Umberto Eco aveva ragione da vendere), che viene cavalcato dai principini degli ignoranti: Matteo Salvinie Luigi Di Maio.
Oramai da oltre tre mesi di questo governo brasiliano abbiamo visto, oltre le solite chiacchiere, l’incompetenza dei vari ministri e la loro preoccupante inconcludenza. Il premier Conte non esiste: alcuni lo esaltano per il suo stile sobrio ma ovviamente fanno finta di non sapere il vero motivo. Giuseppe Conteinterviene poco per una semplice ragione: non può parlare senza il consenso di Salvini. Quindi, veniamo al punto.
Salvini continua ad usare le vite umane come giocattoli social. Sequestra persone in una nave militare italiana senza alcun motivo e senza alcun potere per farlo. E in tutto questo il vecchio Movimento 5Stelle sta zitto. L’unico che dissente pubblicamente, il Presidente della Camera, Roberto Fico, viene sbeffeggiato pubblicamente sempre da Salvini. Di Maio e gli altri? Non pervenuti. Tutto molto chiaro no?
Il Movimento 5Stelle non esiste più. E’ nato un nuovo partito unico Salvini-Di Maio.
Con buona pace della sinistra-sinistra che criticava Renzi e alcuni ancor oggi provano a proporre alleanze con gli ex grillini. E con buona pace di Berlusconiche ogni tanto continua a difendere Salvini, nonostante Di Maio e compagnia sparino tutti i giorni sui precedenti governi di centrodestra dimenticando, con la solita malafede politica che li contraddistingue, che quei governi erano sostenuti e formati anche dalla Lega. Ma che importa, basta fare il lavaggio del cervello sulla rete e il gioco è fatto!
Appena qualcuno osa contraddire, intervenire, criticare o fare semplicemente la propria libera professione di giornalista, magistrato, avvocato o esperto che sui social appaiono pagine, siti fasulli e fotomontaggi per denigrare il personaggio anti-governo. Ultimo esempio: il magistrato che ha “osato” iscrivere nel registro degli indagati Salvini.
Contro Luigi Patronaggio è stato detto di tutto: la rete è stata invasa da fotomontaggi ridicoli e condivisi da persone che non conoscono neanche la differenza fra la parola indagato e imputato. Così era accaduto contro Sergio Mattarella con l’impeachment e così accade contro giornalisti o semplice politici: un metodo studiato e consolidato, talmente evidente che lascia veramente sbigottiti.
A farne le spese in questi anni è stato il Pd e i suoi personaggi più in vista. La calunnia sui social serve solo per alimentare odio, falsità e manipolare l’opinione pubblica.
Tutto questo arriverà ben presto a farci vedere i suoi frutti avvelenati: la democrazia può essere esercitata se i cittadini hanno reale e libera conoscenza dei fatti non diversamente. Quello che sta accadendo oggi lo leggeranno i nostri nipoti sui libri di scuola. Una pagina buia della nostra società; un Paese spinto sempre più in un analfabetismo strutturale, utile a lupi travestiti da agnellini. Arriverà l’autunno e tutte le promesse svaniranno ma avranno già un responsabile: l’Europa. E così andrà avanti, fino a portarci nella braccia di Putin.
Se si vuole creare una alternativa a questa deriva bisogna prepararsi e ricordarsi una cosa molto semplice: se scendi al livello del cretino vincerà sempre lui. Gli uomini di cultura e di buona volontà si uniscano e inizino questo cammino prima che sia troppo tardi. Gli errori sono stati tanti ma è il momento di pensare al bene comune e rientrare in sintonia con il popolo e con i tempi.

Quante volte avete visto questa foto?

Quante volte avete visto questa foto? Fu proprio grazie alla diffusione di immagini come questa, o più cruente, che l'opinione pubblica americana comprese che in Vietnam il suo governo stava bombardando la popolazione civile con il napalm. Fu grazie a immagini come questa che si creò un enorme movimento contro la guerra che impose il cessate il fuoco. Evidentemente erano altri tempi, quelli in cui la gente guardava, si indignava e scendeva in piazza. Faceva concretamente qualcosa per cambiare il mondo. Come oggi purtroppo fanno troppo poche persone. Agli altri basta la polemica su Facebook con chi ha diffuso la foto, parlando di un non meglio precisato "rispetto per la morte".
È la vita che va rispettata.
È la vita che va protetta.
È la vita quella che c'è su quei barconi contro i quali qualcuno scrive "ruspa" come se fosse un gioco.
Il problema è la disumanizzazione delle coscienze.
Il problema è quello che accade, non le foto che ce lo mostrano.













Le promesse di Lega e M5S alla prova del Def: ecco cosa ci aspetta

L'economia frena, i mercati mandano segnali preoccupanti e lo Stato deve piazzare quasi 400 miliardi di di titoli mentre il paracadute Bce si sta per chiudere. I segnali di un autunno ad alto rischio








Le promesse di Lega e M5S alla prova del Def: ecco cosa ci aspetta
C’è un video cliccatissimo in rete che racconta alla perfezione il distacco tra propaganda e realtà. Parole e immagini che segnalano il vuoto di senso in cui restano sospese le promesse irrealizzabili dell’ultima campagna elettorale. «Un impegno concreto, fattibile», esordisce Matteo Salvini nella clip di Youtube. Un Salvini dall’aria vagamente professorale, sguardo fisso in camera, camicia bianca d’ordinanza e giacca scura. È il primo marzo, sprint finale dell’ultima campagna elettorale. Il leader della Lega, davanti a un cartellone pieno di numeri, spiega che metà del prezzo della benzina finisce nelle casse dello Stato sotto forma di tasse. Di accise, per la precisione. Niente paura. «Se vinco le elezioni faccio giustizia», annuncia il futuro vicepremier. «Datemi fiducia e io taglio», promette, perché «gli italiani non possono pagare la benzina più cara d’Europa». Facile, no? Zac, gesticola Salvini con due dita che si fanno forbice. E infatti, una volta vinte le elezioni, arriva la solenne promessa: «Basta con le accise». Quando? «Alla prima riunione del consiglio dei ministri», disse il capo leghista.

Ebbene, il governo gialloverde è in carica ormai da tre mesi ma le tasse sulla benzina sono ancora lì e potrebbero restarci a lungo. «Entro l’anno via le accise», ha aggiustato il tiro Salvini lo scorso 20 agosto. Intanto però la sua promessa elettorale è finito nel calderone degli impegni solenni liquefatti dal sole caldo della realtà. I calcoli sono presto fatti. Grazie alle accise lo Stato incassa ogni anno circa 25 miliardi. Se si decide di fare a meno di quei soldi (in tutto o in parte), bisogna trovare risorse che vadano a coprire il buco in bilancio, oppure ridurre la spesa in altri settori, oppure ancora le due cose insieme. L’alternativa è gonfiare il deficit e quindi il già colossale debito pubblico. Il fatto è che il taglio delle accise è solo uno dei tanti capitoli del gigantesco libro mastro delle promesse elettorali dei due partiti di governo. Flat tax e reddito di cittadinanza, innanzitutto. Da come sono state presentate in campagna elettorale, queste due novità comporterebbero una spesa complessiva pari al 6-7 per cento del Pil, poco meno di 100 miliardi. A questa somma andrebbero poi aggiunti una serie di impegni meno roboanti ma comunque costosi, come per esempio la revisione della legge Fornero sulla previdenza o la cosiddetta pace fiscale, eufemismo che serve a nascondere il più classico dei condoni.



I conti non tornano, come era evidente sin da principio, ma il tempo delle chiacchiere adesso sta per finire. Nell’ultima settimana di settembre l’esecutivo gialloverde è atteso al primo esame concreto. In vista della legge di bilancio per il 2019, da chiudere entro il 20 ottobre, va presentata alle Camere la Nota di aggiornamento al Def, il Documento di economia e finanza che riassume obiettivi e interventi del governo in tema di conti pubblici.

A metà ottobre quelle carte dovranno essere recapitate anche alla Commissione europea. L’Italia, che negli anni scorsi ha ottenuto margini di manovra ben più ampi rispetto agli altri Paesi Ue, corre da tempo sul filo della bocciatura per deficit eccessivo. I piani di rientro messi nero su bianco dai precedenti governi, quello di Matteo Renzi e poi del suo successore Paolo Gentiloni, indicano obiettivi che oggi sembrano irrealistici alla luce della nuova congiuntura economica, con il Pil che rallenta rispetto alle previsioni. Come dire che il confronto con Bruxelles si presentava già pieno di insidie ancora prima della svolta sovranista e populista della nuova maggioranza.

In largo anticipo rispetto alla politica, però, potrebbero essere i mercati a fischiare la fine della ricreazione per il premier Giuseppe Conte e i suoi ministri. Se gli investitori dovessero convincersi che Roma non è in grado di tenere sotto controllo la spesa pubblica, le tensioni sui tassi dei titoli di Stato italiani si moltiplicherebbero. Dalla metà di maggio, quando ha cominciato a prendere forma il nuovo governo, la differenza di rendimento tra i Btp decennali e i bund tedeschi di pari durata, meglio nota come spread, è quasi raddoppiata e ormai corre intorno ai 260-270 punti. Questo significa che il costo del nostro debito pubblico è in netto aumento, quando ancora non si conoscono i dettagli della legge di bilancio. Questi oneri si vanno ad aggiungere alle somme necessarie per finanziare gli impegni, di certo rivisti al ribasso, che Cinque Stelle e Lega si sono presi di fronte agli elettori.
Per dare un’idea delle cifre in gioco basta segnalare che secondo uno studio dell’Ufficio parlamentare di bilancio, nel 2019 l’Italia dovrà piazzare sul mercato titoli per 380 miliardi. In caso di spread in rialzo, la spesa per interessi tornerebbe quindi a crescere dopo anni in cui, anche per effetto degli acquisti della Bce, il cosiddetto Quantitative easing (Qe), questa voce si è ridotta dai 64,2 miliardi del 2012 ai 53,2 miliardi del 2017.

Un taglio di 11 miliardi che ha contribuito a migliorare i conti pubblici. Alla luce dell’impennata dello spread, e di nuovi possibili futuri aumenti dei tassi, questa spirale virtuosa sembra destinata a interrompersi. Anche perché ad ottobre la Bce ridurrà i suoi acquisti di titoli di Stato, per poi fermarli del tutto entro fine anno.

Ricapitoliamo: a bocce ferme, cioè senza calcolare gli oneri per finanziare le riforme promesse, la legge di bilancio parte già con un handicap pari a circa a un punto di Pil, una zavorra prodotta dal rallentamento dell’economia e dalla maggiore spesa per interessi. Previsto inizialmente (nei piani del governo Gentiloni) intorno allo 0,8 per cento, il rapporto tra deficit e Pil viaggia verso quota 2 per cento e minaccia di andare a sbattere contro il muro del 3 per cento, fissato dalle regole europee come limite massimo da non superare.

A questo punto però, la preoccupazione principale non sembra neppure più il confronto con Bruxelles. A breve termine sono gli investitori internazionali che vanno rassicurati. Questa sembra essere la missione principale a cui si sta dedicando il ministro dell’Economia Giovanni Tria, impegnato a spegnere i focolai di tensione che si accendono sui mercati attorno ai piani del governo gialloverde. «L’avvio delle misure principali del contratto di governo è compatibile con i vincoli di finanza pubblica», ha dichiarato Tria al Sole 24Ore lo scorso 8 agosto. La frase contiene una parola chiave, “avvio”, che serve a salvare la faccia ai due azionisti di controllo del governo, Di Maio e Salvini. Entrambi possono così rinviare a un futuro indefinito l’attuazione delle riforme annunciate in campagna elettorale, a cominciare da flat tax e reddito di cittadinanza, prendendosi allo stesso tempo il merito di aver comunque messo le basi della rivoluzione economica populista.

Niente da fare, quindi, per la tassa piatta. Il nuovo sistema fiscale propagandato per anni dal leghista Armando Siri, ora sottosegretario alle Infrastrutture, avrebbe dovuto alleggerire il peso del imposte sui cittadini e rilanciare l’economia grazie al maggior reddito reso disponibile per i consumi. La riforma potrebbe alla fine risolversi in una più modesta revisione delle aliquote Irpef, che passerebbero da cinque a tre. Anche questo intervento, però, richiede tempo e risorse finanziarie, almeno 10 miliardi. Se ne riparla nel 2019, o forse più avanti ancora. Pure il reddito di cittadinanza si fermerà all’antipasto. Più soldi per i centri per l’impiego e una nuova legge sulla cassa integrazione, con l’obiettivo di allargare la platea dei lavoratori che ne avrebbero diritto. Poca cosa davvero, in confronto alla promessa dei Cinque Stelle, che vagheggiavano un sussidio pubblico per tutti i cittadini in cerca d’impiego.

Intanto, mentre si avvicina l’appuntamento decisivo con la legge di bilancio, il dibattito politico segue un canovaccio che ha del surreale. Ministri, sottosegretari e parlamentari della maggioranza lanciano proposte che sembrano studiate apposta per tenere alto il morale della truppa, cioè dei milioni di elettori che hanno votato Cinque Stelle e Lega. Ecco qualche esempio. Tagli alle pensioni d’oro, che poi sarebbero quelle sopra i 4 mila euro al mese, per finanziare l’aumento delle minime. Nuovi sgravi per le partite Iva. Incentivi alle aziende appena nate. E adesso, dopo il disastro di Genova, è stato sganciato anche il ballon d’essai di una ipotetica nazionalizzazione di Autostrade. Una misura estrema che potrebbe costare, solo di indennizzo al venditore, cioè la holding Atlantia dei Benetton, una somma nell’ordine dei dieci miliardi, ma forse di più. Per non parlare, restando in tema di trasporti, del salvataggio di Alitalia, di cui, secondo il governo, dovrebbe farsi carico almeno in parte lo Stato.

In coda a questo florilegio di promesse mancano del tutto, o sono molto vaghe, le indicazioni su come reperire il denaro destinato a finanziare le nuove spese. L’elenco dei possibili interventi è lungo, ma tutti hanno il medesimo difetto: risulta quantomeno difficile quantificare le risorse che potrebbero garantire. Si parla di privatizzazioni, di tagli alla spesa corrente, di lotta all’evasione fiscale, accompagnata dal riordino delle cosiddette tax expenditures, cioè gli sconti d’imposta elargiti a svariate categorie di cittadini e imprese. Tutte le misure citate hanno un gettito incerto, se non aleatorio. Un esempio: quanto potrà fruttare la pace fiscale predicata da Salvini e affidata, se mai si farà, ad Antonio Maggiore, il generale della Guardia di Finanza appena messo a capo dell’Agenzia delle Entrate? La Lega pronosticava introiti per 50-60 miliardi, ma i dati più attendibili in circolazione autorizzano a prevedere che il provvedimento non frutterà più di 3-4 miliardi. Un incasso una tantum, comunque. E quindi l’anno successivo, in mancanza di quei soldi, si dovrà cercare un’altra pezza per il bilancio dello Stato.

In passato, nel tentativo di arginare il deficit, i governi hanno preso la scorciatoia dei tagli agli investimenti pubblici. Dai grandi lavori fino agli interventi per scuole, strade e ospedali. Adesso Roma vuole invertire la rotta e chiederà all’Unione Europea nuovi margini di manovra, anche al di fuori delle regole comunitarie di bilancio, per affrontare l’emergenza infrastrutture.

Già nel 2016, la Commissione aveva autorizzato spese supplementari per un importo pari allo 0,25 per cento del Pil, circa 5 miliardi di euro. Il governo però non è riuscito a realizzare tutti gli investimenti programmati in opere pubbliche e quindi la flessibilità concessa si è alla fine ridotta allo 0,21 per cento.

Non è un bel precedente per un Paese che reclama risorse per aggiustare strade, ponti e gallerie. E per un governo che tende a scaricare la colpa dei suoi problemi di bilancio sui burocrati di Bruxelles.

martedì 28 agosto 2018

Questo è per lei sig. Salvini...

Questo è per lei sig. Salvini...

"L’Albania si è mostrata solidale a questo Paese non a lei Signor Ministro. L’Albania è un popolo di migranti, è un popolo generoso e ospitale nonostante ancora povero. E soprattutto l’Albania non dimentica di essere stata aiutata dai suoi vicini italiani, ma non dimentica anche le sue dichiarazioni disprezzanti come questa nella foto. O le becere frasi dei suoi seguaci scritte nei muri della Lombardia come ad esempio: “Albanesi tutti appesi!” Oh no, noi non dimentichiamo la dichiarazione della vostra deputata (ai tempi Lega Nord) e allora Presidente della Camera, Irene Pivetti, che senza il minimo pudore e sensibilità, disse che gli albanesi ANDAVANO BUTTATI A MARE! E a mare ci finimmo davvero pochi giorni dopo: si chiamava Katër i Radës quella piccola nave affondata a Otranto. Ci morirono 81 di noi tra bambini, donne, uomini giovani e vecchi. Chiamarono quel naufragio “La Tragedia del Venerdì Santo” (28 Marzo 1997). Piangemmo quei morti da nord a sud e un intero Paese si vestì di nero. Ma poi i barconi ripartirono, era questione di sopravvivenza e lei lo sa bene anche se fa finta di non sapere. Lei fa finta di non capire perché la gente lascia casa e rischia la vita in mare. Lei fa finta Ministro, fa finta su molte cose, anche sul fatto che il più grande problema di questo Paese, a sentir lei, sembra siano gli immigrati. Non abbiamo avuto il tempo di asciugarci le lacrime per i morti di Genova e Civita, che ecco che arriva lei con le sue crudeli decisioni per farci piangere e vergognare di altre vittime! Non siamo riusciti a consumare qualche giorno di lutto per quelle perdite e capirci qualcosa sulle responsabilità di quel crollo, che ecco che rispuntano le sue lagne puntando il dito solo verso gli immigrati! Per non parlare della fuga dei capitali, della disoccupazione, della Mafia, del degrado sociale, della povertà in crescita, ecc. Tutto in ombra!
Oggi dice nei suoi comizi, quelli dove i suoi fan si divertono con il suo triste sarcasmo, che l’Albania si è comportata meglio della Francia!! Suvvia Ministro, sappiamo bene che la Francia non si farà il minimo problema per questo suo ridicolo paragone. E sappiamo bene anche come la pensa su di noi: fosse stato per lei e i suoi, noi albanesi non saremmo stati accolti allora e non saremmo ben accettati nemmeno oggi.
L’Albania, posizionandosi al fianco dell’Italia, si è dimostrata riconoscente e generosa perché questo Paese se lo merita e questo Paese non è rappresentato solo da lei.
Non usi questo bel gesto a suo favore personale, non ci tratti da stupidi. Grazie!"


Grazie Sonila Alushi!

sabato 25 agosto 2018

Il fenomeno della solitudine tra biologia, creatività e depressione

Uno studio ha scoperto 15 varianti genetiche associate all'isolamento sociale. Ma "sentirsi in compagnia anche da soli" aiuta lo sviluppo del senso d’identità. L'analisi di L43 con la psicanalista Giustino.

La solitudine - sono parole dello scrittore e aforista Roberto Gervaso - o ci fa ritrovare o ci fa perdere noi stessi. Ed è proprio nella sua ambivalenza, nel suo essere condanna o stato di grazia, frustrazione oppure libertà, che la solitudine è stata ed è ancora oggetto di indagine di scrittori, poeti, e naturalmente ricercatori. E se con l’estate la solitudine, specie quella degli anziani, torna agli onori della cronaca, stavolta fa discutere anche per una ricerca condotta dall’Università di Cambridge apparsa sulla rivista Nature Communications.

POTENZIALE FATTORE BIOLOGICO

Secondo lo studio, frutto del lavoro del gruppo di ricercatori guidati da John Perry, esisterebbe un potenziale fattore biologico alla base delle solitudine patologica. E gli studiosi avrebbero individuato 15 varianti genetiche associate all’isolamento sociale. Gabriella Giustino, membro ordinario della Società psicanalitica italiana, commenta a Lettera43.it: «Il lavoro apparso su Nature Communications è molto interessante perché correla una vulnerabilità genetica e biologica di alcuni soggetti alla tendenza all’isolamento e al ritiro dalle interazioni umane».

La tendenza all'isolamento potrebbe essere dovuta a una vulnerabilità genetica.

La psicanalista spiega: «Le aree cosiddette “emotive” del cervello sembrano in primo piano in questa correlazione tra predisposizione genetica e tendenza all’isolamento sociale. Ma il lavoro stesso, in premessa, problematizza il fatto che non è chiaro se è nato prima l’uovo o la gallina: cioè se è l’isolamento sociale a influire su queste caratteristiche biologiche o viceversa». Sia come sia, a mettere d’accordo psicologi e psicanalisti resta il fatto che la solitudine dolorosa e melanconica e la tendenza all’isolarsi e ritirarsi dalle relazioni interpersonali siano fattori che possono favorire l’emergere di una “psicopatologia da isolamento”. E il “tempo di vacanza”, con le città che si svuotano e i negozi che chiudono i battenti, non aiuta chi è più emotivamente vulnerabile.

STARE DA SOLI ABBASSA LE DIFESE IMMUNITARIE?

Ma in che misura la solitudine può predisporre più facilmente il nostro corpo alla malattia, favorendo, per esempio, l’abbassamento delle difese immunitarie? Secondo Giustino «le neuroscienze e gli studi che correlano il funzionamento cerebrale con altri sistemi biologici e col sistema immunitario ci aiutano a capire le basi biologiche di funzionamenti e comportamenti. Ma la psiche umana è complessa e non dobbiamo correre il rischio di semplificare, confondere la mente e l’interiorità della persona con il cervello tout court».
Abbiamo bisogno di interazioni emotive per svilupparci e se qualcosa, dentro o fuori di noi, ci allontana troppo dalle interazioni umane ci ammaliamo
L'esperta aggiunge: «Essenzialmente direi che molti studi neuroscientifici vanno nella direzione della psicoanalisi e della psicologia dello sviluppo poiché affermano che noi nasciamo come esseri intrinsecamente relazionali, abbiamo bisogno di interazioni emotive per svilupparci e se qualcosa, dentro o fuori di noi, ci allontana troppo dalle interazioni umane (anche quella con noi stessi) ci ammaliamo».

PSICOANALISI COME CURA DELLE EMOZIONI

La psicoanalisi, in questo senso, si pone come “cura delle emozioni”. E descrive molto bene il concetto relativo al senso di solitudine: un’esperienza interiore profonda e fondante per il senso di identità di ciascun essere umano. Come spiega Melanie Klein, il senso di solitudine ha le sue radici nelle primissime esperienze di interazione con l’oggetto - la madre o altra figura che accudisce - di cui la mente e il corpo del bambino conservano la memoria dentro di sé per tutta la vita. E questa esperienza di un rapporto di intima unione con la madre lascia una profonda nostalgia dentro ogni essere umano.

Con l’estate la solitudine, specie quella degli anziani, torna agli onori della cronaca.

«Una nostalgia», chiarisce la Giustino, «che è come un “dolce dolore” di qualcosa che non c’è più ma che, nel tempo dello sviluppo, crea uno spazio interno per costruire un rapporto creativo con sé stessi, un dialogo interno che permette di conoscerci e riflettere sui fatti della vita». E sottolinea: «L’esperienza di sentirsi bene anche da soli è dovuta al fatto che si crea un sostituto dentro noi stessi, una sorta di coppia interna che comunica e che permette di “sentirci in compagnia anche da soli”».

RISCHIO DI DISAGIO E VUOTO INCOLMABILE

E quando la dimensione di contatto con sé stessi, cioè la solitudine “creativa”, manca, accade perché «le vicissitudini con l’oggetto primario sono state difficili o traumatiche; allora permane invece dentro di noi un profondo disagio, un vuoto incolmabile che ci fa vivere l’esperienza del mondo esterno e interno come persecutoria e tormentosa». Un altro psicoanalista, Donald Winnicott, ha spiegato come la solitudine sia una capacità che ogni persona acquisisce nel suo sviluppo a partire dall’essere “soli insieme” con il primo oggetto che accudisce il bambino.
Quando sentiamo di poter “essere soli anche in presenza di un altro”, allora abbiamo acquisito la capacità di stare soli, cioè un’identità separata dall’oggetto primario che prima era tutt’uno con noi
«Noi esseri umani», ricorda la Giustino, «nasciamo con un enorme bisogno di relazioni intime e appaganti che ci permettono poi nella vita di sentire la solitudine come un momento creativo e di armonia con noi stessi. Quando sentiamo, dice Winnicott, di poter “essere soli anche in presenza di un altro”, allora abbiamo acquisito la capacità di stare soli, cioè un’identità separata dall’oggetto primario che prima era tutt’uno con noi».

L'ISOLAMENTO COMPORTA UNA NON COMUNICAZIONE

Dunque la solitudine ha due facce: una indispensabile alla crescita, allo sviluppo del senso d’identità e della creatività; l’altra depressiva e persecutoria, che si accentua ovviamente durante tutti i momenti difficili della vita, e comporta un profondo senso d’isolamento. «È importante distinguere l’isolamento dalla solitudine», avverte la Giustino. «L’isolamento comporta quasi sempre una non comunicazione con sé stessi e con gli altri, un ritiro dal mondo delle relazioni umane».

INTELLIGENZA EMOTIVA PER COMPRENDERSI

La risposta che dà la psicoanalisi e, in genere, le psicoterapie psicodinamiche, a molte forme di solitudine depressiva oppure di isolamento o ritiro dal mondo della relazioni è quella di aiutare a sviluppare l’intelligenza emotiva che serve per comprendere sé stessi e gli altri. Naturalmente ci sono anche molti libri sulla solitudine che affrontano il problema dell’isolamento e della solitudine dolorosa e persecutoria, spesso connessi col senso d’identità.

La solitudine può anche aiutare la crescita, lo sviluppo del senso d’identità e della creatività.

Letture che - specie in questo periodo di tempo “vacante” - possono contribuire a far riflettere su un sentimento così complesso. Basti ricordare il successo letterario della Solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano (Mondadori, 2008) dedicato all’adolescenza. Oppure il libro di D.H. Lawrence L’uomo che amava le isole. Una metafora letteraria poetica sul senso doloroso della solitudine.

MONDO CHE NON ACCOGLIE LA SOLITUDINE DELLE DONNE

«Recentemente», suggerisce la Giustino, «un nostro collega psicoanalista, Sarantis Thanophulos, ha affrontato il tema della solitudine della donna in relazione ai femminicidi in rapido aumento nella società. Una prospettiva interessante sul mondo che non accoglie la solitudine delle donne a causa della violenza dell’ordinamento sociale che trasforma le relazioni in forme di dominio e potere». (La solitudine della donna, Quodlibet , 2018).

giovedì 23 agosto 2018

AVVOCATI DEGLI ITALIANI O AVVOCATICCHI?

AVVOCATI DEGLI ITALIANI O AVVOCATICCHI?


Ho aspettato a scrivere perché, di fronte a tragedie enormi come quella di Genova, c’è il rischio di essere fraintesi. Però, in questi giorni, ne ho lette tante, che vorrei provare a svolgere qualche riflessione.
Se cercate un post di lettura istantanea, non è qui che lo troverete. Di fronte a questioni complesse, non sono capace di semplificazioni. È un mio limite, dovete prendermi così. Non sono un ingegnere. Quindi non sono in grado di fare valutazioni tecniche. Per questo starei sulla prospettiva che mi appartiene. Quella giuridica, partendo dalle intenzioni espresse dal Presidente Conte quando si è insediato. Disse: “io sarò l’avvocato degli italiani”.
Ebbene, vediamo come dovrebbe comportarsi un bravo avvocato in un frangente come questo. Anzitutto, un bravo avvocato sa che, nel suo agire, deve avere due stelle polari: l’interesse dei suoi assistiti e i fatti. È proprio partendo dai fatti che il bravo avvocato traccia gli obiettivi raggiungibili, avendo sempre cura di dire la verità ai propri assistiti. Perché non c’è avvocato peggiore di quello che mente a chi gli ha affidato il bene più caro, ossia la tutela dei propri diritti.
Gli interessi dei cittadini dunque, ossia i “clienti” che Conte ha scelto di rappresentare. Mi pare che in questo caso siano tre:
1. ottenere misure urgenti e immediate che preservino il più possibile la viabilità di Genova e riducano il terribile impatto economico del crollo sulla città, assicurando il ripristino dell’opera e la realizzazione di vie d’accesso alternative.
2. ottenere che i responsabili paghino fino all’ultimo centesimo i danni materiali e non, tenendo conto del rischio oggettivo che lo Stato possa essere chiamato in causa in quanto proprietario della rete autostradale.
3. creare le condizioni, ove ritenuto opportuno, per poter sciogliere i vincoli contrattuali in essere, mettendosi al riparo dal rischio di soccombere in eventuali contenziosi.
Quanto ai fatti, proviamo a metterli in fila:
Il crollo del ponte Morandi non è una fatalità. Non c’è stato un terremoto, una valanga, un evento esterno di portata tale da farà crollare il ponte.
Ciò detto, nessuno è ancora in grado di affermare con certezza quale sia la causa esatta del crollo del ponte.
La gestione di quel ponte autostradale è in capo ad Autostrade per l’Italia, società privata quotata in borsa che opera sulla tratta in forza di una concessione il cui testo (contrariamente a quanto affermato da alcuni membri del Governo) è pubblico. Non era così fino a poco fa. Oggi, invece, il documento è consultabile (salvo alcuni allegati tecnici che sono secretati per ragioni antitrust) grazie a quanto deciso dal precedente Esecutivo.
La concessione è disciplinato da uno schema di convenzione sottoscritto da Anas e Autostrade nell’ottobre 2007 ma divenuto operativo solo nel 2008, con il Decreto Legge 59 del Governo Berlusconi/Lega. Come ben spiegato da Chiara Braga, tale Decreto prevedeva, tra l’altro, “l’approvazione per legge di tutte le nuove convenzioni con i concessionari autostradali già sottoscritte da ANAS ma che ancora non avevano ricevuto il parere favorevole di NARS, CIPE e Commissioni Parlamentari”.
In tal modo, la convenzione è stata adottata senza possibilità per il Parlamento di dire la propria sulle clausole ivi contenute, compresa quella che riconosceva aumenti tariffari annuali di almeno il 70% dell’inflazione reale, indipendentemente dalla valutazione sulla qualità del servizio e la realizzazione degli investimenti. Tale previsione sarebbe stata inesigibile in forza di norme approvate dal Governo Prodi nel 2006, che - sempre come ricorda puntualmente Chiara Braga - legavano la possibilità di aumenti tariffari a qualità del servizio e investimenti realizzati e davano titolo ad Anas di revocare la concessione e metterla a gara se la concessionaria non avesse accettato la richiesta di applicare migliori condizioni per interesse pubblico. Norme abrogate dal Governo Berlusconi/Lega.
Lo schema di convenzione prevede una durata della concessione fino al dicembre 2038.
Nel 2017, il Governo Gentiloni ha notificato alla Commissione EU (DG Competition) un piano di investimenti volto a consentire la realizzazione di una serie di opere di ammodernamento e adeguamento di alcune delle tratte stradali date in concessione ad Autostrade. In sostanza, il piano contempla che, a fronte di una proroga della scadenza della concessione di 48 mesi, dal 2038 al 2042, Autostrade realizzi con tempistiche stringenti una lista di interventi. La proroga è funzionale a evitare che l’incremento degli investimenti richiesti ad Autostrade si trasformi in un eccessivo aumento dei pedaggi stradali pagati dagli utenti.
Tra gli investimenti previsti dal piano vi è quello relativo alla realizzazione della così detta Gronda, la tratta necessaria per consentire di alleggerire il traffico del ponte Morandi e che, se oggi esistesse, avrebbe evitato di avere Genova tagliata in due.
La Commissione EU ha esaminato approfonditamente il piano presentato dal Governo e ha autorizzato la proroga (qui si trova il testo della decisione http://ec.europa.eu/competit…/elojade/isef/case_details.cfm…) dando atto di come l’approvazione del progetto relativo alla Gronda abbia richiesto 15 anni (sono note le opposizioni feroci a tale progetto da parte di comitati appoggiati dal M5S) e di come, in questi 15 anni, e stanti tutte le modifiche via via richieste o rese necessarie dalle mutate esigenze, l’opera inizialmente prevista per 34,1 km e per un costo di 1,8 miliardi di Euro oggi debba essere realizzata per 72 km con un costo di 4,32 miliardi di Euro. Un costo, grazie alla proroga, interamente coperto da Autostrade che, pertanto, contrariamente a quanto affermato dal Ministro Salvini, non è calcolato ai fini dei parametri europei.
Alla data di notifica alla Commissione del progetto descritto la norma dello Sblocca Italia (ripetutamente invocata dal Ministro Di Maio e che contemplava la possibilità di estendere le concessioni autostradali) non era più in vigore, essendo stata abrogata dal Codice dei Contratti pubblici del 18 aprile 2016. È, quindi, una norma che non ha avuto alcuna rilevanza sulla proroga della concessione con Autostrade.
In ogni caso, quella proroga è del tutto ininfluente rispetto alla circostanza che alla data del crollo fosse in vigore la concessione disciplinata dalla convenzione del 2008, posto che sin dall’origine è previsto che tale concessione scadrà nel 2038, ossia tra 20 anni.
Chiariti gli obiettivi ed ricostruiti i fatti, il buon avvocato deve mettere in campo la propria strategia, evitando innanzitutto di scoprire le proprie carte con annunci non basati su un attento studio delle carte. Attento studio da cui emergerebbe come lo schema di convenzione con Autostrade preveda due fattispecie distinte: la decadenza, che può essere invocata dal concedente a fronte di gravi inadempienze e che non contempla indennizzi in favore del concessionario, ovvero la revoca (quella annunciata dal Presidente Conte), a fronte della quale Autostrade ha diritto a vedersi riconosciuto un indennizzo pari ai ricavi previsti fino alla data di scadenza della concessione. La decadenza può essere attivata solo seguendo una procedura precisa di contestazioni e contraddittorio con il concessionario. Quindi, se vuole evitare di far pagare ai propri assistiti/cittadini italiani un indennizzo miliardario e se vuole ottenere da Autostrade la messa in sicurezza del sito, il ripristino dell’opera, la realizzazione degli investimenti, prima di parlare, il buon avvocato avvia tutte le necessarie verifiche tecniche, legali ed economiche (anche solo ipotizzare una quantificazione dei danni, in un caso come questo, richiede un enorme lavoro da parte di espertissimi). Il buon avvocato procede così non solo per disporre di un quadro informativo completo ed esaustivo sulla base del quale fondare le proprie valutazioni sull’opportunità e la convenienza della decadenza, ma anche e soprattutto per raccogliere tutte le evidenze utili a costruire un dossier solido da utilizzare nei confronti di Autostrade, qualora fossero accertate sue responsabilità, ed essere così pronti a ribattere colpo su colpo in un eventuale contenzioso con la stessa concessionaria e, particolare di non poco conto, a disporre degli elementi utili nell’ambito di eventuali cause civili di terzi.
Questo è il modo in cui procederebbe un bravo avvocato, quello che non si preoccupa di alimentare il proprio ego e di ottenere un facile ed effimero consenso, ma che persegue con determinazione assoluta un unico solo obiettivo: portare a casa risultati per i propri assistiti.
Poi c’è quello che in gergo chiamiamo avvocaticchio. Si tratta di una tipologia di leguleio che spara contestazioni al buio, promettendo la luna ai propri assistiti, assicurando che, lui sì, menerá le mani, mica come gli altri. L’avvocaticchio perde puntualmente le cause, con condanna alle spese per i clienti. Quando questi attoniti chiedono “ma come, non dovevamo vincere a mani basse?”, risponde, scuotendo la testa, “guardate, sono imbufalito, questo sistema è marcio, ci sono le lobby, le pastette, uno schifo, ci vorrebbe una rivoluzione. In appello, però, li facciamo neri”....
Lisa Noja

venerdì 17 agosto 2018


E' morto Claudio Lolli, cantautore senza compromessi




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Il cantautore bolognese si è spento a 68 anni dopo una lunga malattia. E' stato uno dei più significativi artisti degli anni 70

All'inizio della sua carriera capitava di ascoltarlo nelle leggendaria Osteria della Dame a Bologna, prima dei concerti di Francesco Guccini.  Claudio Lolli è stato uno dei cantautori simbolo della scena italiana degli anni 70. Si è spento oggi, a 68 anni, dopo una malattia.

Era nato a Bologna nel 1950 e venne portato alla Emi proprio da Guccini: il suo stile divenne immediatamente riconoscibile, simbolo dell'insoddisfazione più profonda e letteraria della canzone politica post '68.

Il suo primo disco, Aspettando Godot del 1972, era uno dei più evidenti segnali della volontà della discografia di inestire sui portavoce della protesta giovanile più radicale e incupita. Lolli si rivelò subito come un personaggio vero, capace di trasformare in canzoni la malinconia del vivere quotidiano. Così come il successivo Un uomo in crisi, che conteneva anche un brano dedicato ad Antonio Gramsci, Quello lì, e un deciso inno antimilitarista come Morire di leva. Le canzoni erano aspre e gli arrangiamenti ridotti ed essenziali, ma il suo stile e le sue parole erano in sintonia con i tempi: in breve Lolli divenne uno degli autori più trasmessi dalle celebri "radio libere". Divenne così uno degli esponenti di maggior talento della seconda generazione cantautorale, quella degli anni Settanta immersa in dibattiti ideologici e sociali.

Dopo le aperture strumentali di Canzoni di rabbia del 1975, Lolli si liberò definitivamente dell'etichetta di cantautore triste con un album capolavoro come Ho visto anche degli zingari felici (1976). Un disco che affrontava senza metafore argomenti di attualità come il terrorismo e gli attentati, emarginati e femminismo ma con una ricchezza musicale e lirica difficilmente eguagliabile. Quell'album resta uno dei lavori più riusciti e significativi dell'intera discografia italiana anni 70.

"La musica mi ha salvato la vita dalla banalità", raccontò in un'intervista, "è uno scopo: cercare di guardare la realtà con occhi diversi e raccontarla". Gli Zingari raccontavano le ansie di una generazione alle prese con l'utopia della rivoluzione: Lolli impose anche un prezzo "politico" al disco, che venne messo in vendita 3.500 lire.

Dopo il successo dell'album, Lolli decise di lasciare la Emi per approdare all'etichetta indipendente Ultima Spiaggia. Il disco successivo, Disoccupate le strade dai sogni (un libro di testi da lui pubblicato lo scorso giugno portava lo stesso titolo), fu un atto di coraggio musicale, pieno com'era di riferimenti jazz e di arrangiamenti insoliti, ma fu anche un suicidio commerciale. La sua scarsa disponibilità nei confronti della promozione e una fama controversa (veniva accostato all'ala più estremista del movimento del '77) fecero il resto: per tre anni rimase fuori dal circuito discografico.

L'INTERVISTA A CLAUDIO LOLLI DI LUCA VALTORTA: "LA MIA GENERAZIONE HA VINTO"

Gli anni 80 e 90 furono caratterizzati da una serie di album di buon livello ma non troppo fortunati. Fu nel 2000 con Dalla parte del torto che Lolli ritrovò una dimensione consona al suo talento. Album pubblicati da piccole etichette come La scoperta dell'America del 2009, Lovesongs e il più recente Il grande freddo (uscito nel 2017 grazie a un crowdfunding) lo avevano fatto riscoprire anche al pubblico più giovane, oltre che alla critica: con quel disco aveva conquistato la Targa Tenco per il miglior album dell'anno.

Un riconoscimento forse tardivo per un cantautore "non per tutti", ma pieno di passione e talento. “Ci siamo conosciuti nel 1976 - ha raccontato sua moglie Marina - ci siamo messi insieme, non ci siamo più lasciati”. Il 1976 fu l’anno che rivelò Claudio Lolli con Ho visto anche degli zingari felici. Quasi un tormentone, per gli anni che seguirono. “Ci siamo sposati – racconta Marina – abbiamo avuto due figli, Tommaso e Federico. Ma la vita artistica, ecco, quella era solo sua. Naturalmente lo seguivo, andavo ai suoi concerti, ma rimaneva la sua vita artistica”. E’ scomparso all’improvviso, “è stato tutto così rapido”. Non era malato, dice Marina. Certo si muoveva con qualche difficoltà, ma era “tutto sotto controllo”. Il giorno di Ferragosto, però,  non si sentiva bene. Oggi ha chiesto che fosse chiamata un’ambulanza, il suo cuore si è fermato nel tragitto verso l’ospedale. “Il suo disco di inediti, Il grande freddo, è di talmente pochi mesi fa – ricorda Marina -. E’ vero, per tanti è rimasto il cantautore degli Zingari felici, ma è assurdo bloccarlo in quella fotografia di così tanti anni fa. E’ stato anche molto altro”. 

Il governo M5s è un mostro nel cuore dell'Italia del potere

Non avremmo mai immaginato una patria conciata così. Non ci siamo mai imbattuti in questi livelli di inciviltà e incompetenza della nuova destra.

Chi ha visto la serie televisiva The Walking Dead, spaventandosi o entusiasmandosi, può spegnere la tIVù e andare su Internet per leggere le dichiarazioni dei militanti più accesi dei 5 stelle e di Matteo Salvini. Lì li ritrovate. C’è di tutto. C’è l’ottantenne regista, l’attore che ha avuto una bella carriera, l’uomo e la donna comuni, i giornalisti di destra specializzati in «e allora il Pd?», la covata giustizialista. Mostri, sono i nuovi mostri. Con questa gente, molta della quale ha votato a sinistra, la sinistra non può immaginare alcun dialogo. Per la prima volta nella storia repubblicana una parte del Paese non ha nulla da spartire, sul piano dei valori, dell’idea di società e di Stato, con un’altra parte. Nemici nella stessa patria. In verità non è la stessa patria perché uno dei capi degli zombie voleva la secessione e l’altro è figlio di un personaggio che ha fondato una setta che, come tutte le sette, definisce e limita l’appartenenza escludendo un territorio comune con altri.


SE IL GOVERNO M5S-LEGA CALPESTA LO STATO DI DIRITTO

La tragedia di Genova (leggete l’Andrea’s Version di oggi di sul Foglio per capire di quale città stiamo parlando) è stata l’occasione per questa «ribellione degli scheletri», come l’avrebbe chiamato Antonio Labriola. Gente violenta che ha calpestato lo stato di diritto, che mentre s’abboffava a sbavo in Sicilia emetteva sentenze contro l’Europa, e infine un uomo indefinibile, come l’ex avvocato di Autostrade Giuseppe Conte, che divenuto premier a sua insaputa ha annunciato di voler togliere la concessione perché non ha tempo da perdere con la giustizia. Siamo sicuri che ha la laurea in Giurisprudenza?

L'ITALIA CADUTA IN MANO AI CAMPIONI DI INCIVILTÀ E INCOMPETENZA

Non avremmo mai immaginato un’Italia conciata così. Noi di sinistra che siamo stati spesso “tragediatori” ogni volta che ha vinto la destra, non ci siamo mai imbattuti in questi livelli di inciviltà e incompetenza. E quelli di destra non hanno mai dovuto confrontarsi con una sinistra irresponsabile. Siamo caduti in basso e non è ancora finita. Non è finita perché i voti che questi morti viventi prendono sono frutto di evidenti e clamorosi errori della destra costituzionale e della sinistra, ma anche di un lavorìo che è stato a lungo sottovalutato. Un decennio di bugie e di infamie, di finta tutela del diritto, di affiancamento ai magistrati più facinorosi, di promesse palingenetiche hanno creato un’armatura che oggi protegge dalla pressione esterne, e soprattutto dai fatti, milioni persone incattivite.
I morti viventi non vogliono vedere niente, inseguono, agguantano, colpiscono, incuranti del danno che fanno. L’Italia oggi è in mano a questi. Non credo che un fronte unito dell’opposizione sia una grande idea. Credo però in due cose. Credo che sul piano strategico bisogna imbracciare idee forti e buttarle nella mischia con coraggio anche sfidando l’impopolarità: penso alla democrazia parlamentare, alla giustizia sociale, all’Europa, alla convivenza fra diversi. Penso alla battaglia quotidiana che centinaia di migliaia di eroi devono combattere per rintuzzare le bugie dei “momios” raccontando quello che i capi dei morti viventi fanno, dicono, dicevano.
 

I SOVRANISTI ODIANO IL NOSTRO PAESE

Salvini e la sua Lega ladrona non possono passarla liscia. L’offensiva finto-ambientalista per riportare indietro l’Italia non può più essere accettata. La derisione deve avvolgere la figura di un premier-bambolina che non sa che cosa dire e quando dirlo. La destra costituzionale deve fare la sua parte e le varie anime della sinistra la loro. Eviterei ormai ripiegamenti sugli errori del passato. Se avessimo combattuto il fascismo facendo rivivere le divisioni fra liberali, socialisti, cattolici e comunisti non avremmo liberato, grazie soprattutto agli americani, l’Italia. Penso che chi ha sbagliato deve fare un enorme passo indietro. Che la ribellione degli scheletri pretende leadership giovani o anziane innanzitutto rispettabili. Ma soprattutto abbia bisogno di gente che ama l’Italia. I cosiddetti sovranisti odiano il nostro paese.

A chi spettavano i controlli di Ponte Morandi

Le denunce non ascoltate dal 2013. I carenti monitoraggi di Autostrade. Il compito di vigilanza dello Stato disatteso per carenza di risorse. La catena delle responsabilità per la tragedia di Genova è molto lunga.

Sapere non è agire, ha sottolineato con l'acume da ex pm l'ex ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Antonio Di Pietro sul disastro del ponte Morandi di Genova. E agire, considerato che gli interventi di manutenzione sul viadotto erano continui, si può ancora dedurre che non sia matematicamente salvare. I diversi elementi che emergono nella ricostruzione della storia del ponte e di altri viadotti a rischio, e sulle responsabilità in materia di viabilità, sono oggetto di esame approfondito delle autorità giudiziarie ma danno già alla tragedia i contorni di una tipica storia italiana. Non a caso è iniziato lo scaricabarile tra chi porta parti rilevanti di responsabilità. Se forse neanche i più critici, tra gli addetti ai lavori, potevano immaginare un cedimento così massiccio del controverso ponte, tutti gli addetti ai lavori – politici, funzionari e tecnici statali come del gestore privato, addetti alla sicurezza – sapevano che il Morandi era una struttura gravemente malata, forse la più malata e monitorata d'Italia, e che diecimila ponti sono da anni a rischio di crollo, come sottolineato dal direttore dell'Istituto per le Tecnologie della Costruzione del Cnr, Antonio Occhiuzzi. Ciononostante raramente vengono chiusi, e men che meno si impongono per cause di forza maggiore piani di ricostruzione o varianti alternative. Semplicemente si rimanda fino alla catastrofe annunciata.

I soccorsi dopo il crollo di Ponte Morandi.

L'INTERROGAZIONE IN SENATO DEL 2016 SUL CEDIMENTO DEL MORANDI

È del 28 aprile 2016 (e non è l'unica denuncia) l'interrogazione del senatore genovese Maurizio Rossi in quota Scelta civica all'allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Del Rio sull'eventualità che «il ponte Morandi, viste le attuali condizioni di criticità, potrebbe venir chiuso almeno al traffico pesante, entro pochi anni, gettando la città nel caos». Rossi, che dopo il disastro racconta di «parlare con preoccupazione di quel ponte dal 2013» e di «non essere mai stato degnato di una risposta dai ministri competenti», nell'intervento a Palazzo Madama affermava anche che «recentemente» il Morandi era «stato oggetto di un preoccupante cedimento dei giunti».



Senza un'opera straordinaria di manutenzione era «concreto il rischio di una sua chiusura» e il senatore voleva delucidazioni anche sull'«attuale blocco dell'iter dei lavori per la costruzione della Gronda di Genova», cioè della variante al ponte. Considerato che, nelle prime fasi delle procedure, la «necessità finanziaria dei lavori» risultava «già nella disponibilità della società Autostrade, grazie ad aumenti tariffari concordati e subito applicati su tutto il territorio nazionale», queste disponibilità finalizzate alla costruzione della Gronda e incassate in anticipo, si chiedeva Rossi, venivano «utilizzate per altre finalità» o erano state «accantonate»?

AUTOSTRADE PER L'ITALIA SI TRINCERA NELL'IMPREVEDIBILITÀ

Quasi due anni e mezzo dopo la bretella della Gronda era diventata lettera morta, come tante incompiute italiane, e la parte finanziaria degli atti delle concessioni tra il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e le società che gestiscono le autostrade è risultata coperta da segreto. Si è scoperto nel frattempo che Autostrade per l'Italia, concessionaria anche del tratto di Genova, aveva accelerato – ma non abbastanza – la preselezioni di un grosso bando di oltre 20 milioni di euro. Una gara da far partire a settembre, per rinforzare i tiranti del pilastro sbriciolatosi il 14 agosto 2018, che da tempo destavamo molte perplessità tra gli ingegneri sulla loro resistenza.
Nulla era presagibile dai controlli più approfonditi svolti sul ponte Morandi
Autostrade per l'Italia
Per il fragile ponte Morandi si sarebbe trattato dell'intervento più grosso dal rinforzo dei tiranti di un altro pilastro, indispensabile già negli Anni 90. Il direttore del tronco genovese di Autostrade per l'Italia Stefano Marigliani lo ha giustificato come un lavoro che puntava ad «allungare la vita» del viadotto, l'usura nei tiranti crollati si sarebbe rivelata ancora più lenta rispetto ai precedenti casi di tiranti difettati. «I controlli approfonditi» svolti anche il 20 giugno scorso non avevano però individuato un pericolo così allarmante da rendere immediata la chiusura del ponte. Per la società concessionaria è la vecchia tesi dell'imprevedibilità e dell'imponderabile che libera da responsabilità penali dolose.

L'OBBLIGO DI VIGILANZA DEL MINISTERO DISATTESO

Autostrade per l'Italia ha ammesso che «qualcosa nel sistema dei controlli non ha funzionato», ma che «nulla era presagibile». E se i i controlli della società che incassa miliardi di euro dai pedaggi e reinveste in media poco più di 500 milioni in l'anno manutenzione sono stati fallaci, anche la vigilanza dello Stato è venuta meno: come ha ricordato Di Pietro, che da ministro inaugurò il contratto di concessione, l'articolo 28 del medesimo assegna un ruolo cruciale di controllo del pubblico sul concessionario privato: «Il concedente vigila», è scritto, «affinché i lavori di adeguamento sulle autostrade siano eseguiti a perfetta regola d'arte».
Se sul ponte di Genova Autostrade per l'Italia ha svolto i controlli in totale autonomia, senza rendere conto a nessuno, è perché nessuno dalla Struttura di vigilanza ministeriale si è mosso
Attraverso l'Anas e, dal 2013, anche attraverso una specifica Struttura di vigilanza istituita per legge dallo stesso ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, sulle autostrade lo Stato deve vigilare «anche sui lavori di manutenzione ordinaria, straordinaria e sui ripristini. Visita e assiste ai lavori e», continua il testo, «può eseguire prove, esperimenti, misurazioni, saggi e quant'altro necessario per l'accertamento del buon andamento dei lavori stessi». È falso quindi dire che ad Autostrade per l'Italia sia stata concessa mano libera: se sul ponte di Genova ha svolto i controlli in totale autonomia, senza rendere conto a nessuno, è perché nessuno dalla Struttura di vigilanza ministeriale si è mosso.

LE DENUNCE DI EX FUNZIONARI SULLA POCA MANUTENZIONE

Anche in Germania, dove il 13% dei ponti è logoro, è un'agenzia specializzata del ministero tedesco delle Infrastrutture e dei Trasporti a redigere controlli e report su scala nazionale. Due occhi, specie in caso di errore umano nei controlli e specie in controlli di privati, sono meglio di uno. Ma esiste concretamente questa struttura? Le verifiche del personale del Ministero sulla rete autostradale sarebbero poche e superficiali per la scarisità di mezzi e risorse a disposizione, da un punto legale è necessario capire su Genova anche quali e quanti controlli siano stati effettuati dagli uffici preposti. Costituirsi parte civile come ha annunciato il neo ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Danilo Toninelli può, con il corso delle indagini, ritorcersi in un boomerang.

PIÙ DIPARTIMENTI DEL MINISTERO RESPONSABILI PER LE AUTOSTRADE

Il giovane capo pentastellato del dicastero è in carica da pochi mesi e può anche non aver saputo del dovere di vigilanza dello Stato. Ma qualcuno al ministero deve saperlo bene e tace. Tanto più che, al ministero, oltre alla Direzione per la Vigilanza sulle concessionarie autostradali esiste la Direzione per le Strade e le Autostrade e per la Vigilanza sulle Infrastrutture stradali che dovrebbe applicare la legge 35/2011 di recezione della direttiva europea sulla sicurezza delle infrastrutture stradali. Direttiva che addetti al lavori dicono a L43 praticamente inapplicata in Italia. Anche al verificarsi di incidenti, raramente si eseguono ispezioni per esaminarne le concause, basandosi solo sui rapporti di polizia e scaricando l'intera responsabilità sui conducenti.

I soccorsi dei Vigili del fuoco.

È noto da anni poi, tra i tecnici del ministero e gli ispettori di tutti i livelli di controllo (Stato, Regioni, Province, Comuni e Prefetture), anche lo stato critico di migliaia tra ponti e cavalcavia: in una relazione del 2014, l'ex direttore generale della Vigilanza e della Sicurezza del ministero delle Infrastrutture Pasquale Cialdini ricordava la necessità di una «vigilanza permanente», visto e considerato lo sviluppo di «tecniche di manutenzione molto evolute», per «scongiurare eventi drammatici e vere e proprie catastrofi». Ne discende, aggiungeva, «che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, di società private sono direttamente responsabili».

AD AGRIGENTO IL PONTE CHIUSO DAI GIUDICI E NON DALL'ANAS

I protocolli esistono e sono chiarissimi: un controllo annuale generale e completo, nel mezzo ispezioni trimestrali e anche un'ispezione quotidiana degli addetti alla manutenzione, che nei ponti ad alto rischio come il Morandi non dovrebbe mai mancare. Quello che manca agli enti pubblici – ma non ad Autostrade per l'Italia – è il denaro per svolgere correttamente la propria funzione. Negli anni dell'incarico tra il 2009 e il 2011 Cialdini individuò oltre 5 mila ponti malmessi e constatò «l'assoluta scarsezza di risorse necessarie». Quasi 10 anni dopo, in occasione della tragedia a Genova, l'ispettore di una società incaricata dei sopralluoghi ha rivelato che circa 60 mila ponti sarebbero sotto monitoraggio.

 
L'Anas ha aumentato i fondi per la manutenzione ma, come in Germania, il deterioramento procede a passo più veloce delle riparazioni. Gran parte delle infrastrutture italiane è degli Anni 50 e 60 e la gran parte degli ingegneri concorda che, con il cemento armato arrivato a fine vita, sia a rischio: nel nostro Paese, infatti, cedono una ventina di ponti l'anno. Comuni e Province sono paralizzati dalla penuria di soldi e rimandano i lavori, non di rado senza chiudere i viadotti, come è successo ad Agrigento. Nel 2017 fu la procura locale e non l'Anas a chiudere sulla statale 115 un altro ponte Morandi, dopo aver aperto un'inchiesta su segnalazione di un'associazione di cittadini. La struttura era infatti in evidente degrado. Ecco perché, con altri 10 mila ponti a rischio, l'Italia non può ancora dirsi sicura.
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