Il
monumento di Jasenovac, chiamato anche "Il fiore di pietra", è composto
da cemento armato precompresso (fotografia di Stefano Fasano, da
"Spomenik, la Jugoslavia che resta")
Prima
delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90 e prima
dei nazionalismi che segnano oggi quei Paesi, i Balcani hanno avuto in
eredità un passato scomodo che le nuove generazioni provano a
dimenticare, a cui altri invece guardano con nostalgia e che il resto
del mondo, per la maggior parte, ignora. A distanza di qualche mese
dalla chiusura del Tribunale per i crimini della ex Jugoslavia, avvenuta
nel dicembre 2017, il MoMA di New York ha deciso di dedicare una
retrospettiva su quel mondo perduto e che ora sopravvive attraverso la
sua architettura. Ha inaugurato il 15 luglio e andrà avanti fino al 13
gennaio 2019 la mostra dal titolo Toward a Concrete Utopia – Architecture in Jugoslavia, 1948-1980.
L’intraducibile gioco di parole del titolo (“concrete utopia”, nel
senso di utopia concreta e reale, ma anche costruita in cemento) svela
la ratio dell’esposizione: rappresentare i 45 anni della Jugoslavia di
Josip Broz Tito, attraverso studi, bozzetti, fotografie e materiale
relativi alla produzione architettonica che meglio ha rispecchiato la
sua politica socialista. Toward a Concrete Utopia è la
prima mostra curata da Martino Stierli, curatore di architettura e
design del MoMA, realizzata con il supporto del professor Vladimir
Kulić. L’architettura jugoslava, secondo Stierli, costituisce «un
capitolo importante ma sottostimato della storia nell’assetto mondiale,
diviso in due dalla Guerra Fredda». L’utopia di cui si parla è infatti
quella di una società alla ricerca una terza via alternativa allo
stalinismo del Blocco Sovietico e alle forze liberali statunitensi,
ovvero quella dei Paesi non allineati. L’esposizione, strutturata in 4
parti, esplora i temi dell’urbanizzazione post-bellica, della
sperimentazione tecnologica e la sua applicazione nella vita di tutti i
giorni e infine i monumenti e il processo di costruzione dei memoriali
commemorativi. Nella Jugoslavia di Tito, l’architettura rispondeva a una
spinta centralizzata a produrre uno spazio civico condiviso e una
storia comune in una società altamente diversificata e multietnica, ma
allo stesso tempo era l’espressione spontanea di un desiderio di
modernizzazione che derivava dall’apertura all’estero e dalla facoltà di
viaggiare liberamente, sia a Oriente sia a Occidente. Belgrado, la
capitale della Federazione, costituisce l’esempio più importante in
questi termini: ispirandosi a Brasilia e Chandigarh in India, la Novi
Beograd rappresenta un tipo di periferia costruita su un modello di
pianificazione modernista.
Ma la sezione della mostra che forse è
destinata ad attrarre maggiore curiosità è l’ultima, dal titolo
“Identità”, che riguarda i memoriali e monumenti commemorativi della
Seconda guerra mondiale dedicati ai partigiani e alle battaglie
unificatrici. Si tratta di opere di grande fascino, dallo stile spesso
astratto e surrealista, dislocati lungo le sette ex Repubbliche e che
rievocano il mito fondativo dell’antifascismo, non solo contro le forze
dell’Asse, ma anche contro le singole spinte nazionaliste che
minacciavano la pace e l’unità della nascente Jugoslavia. Tra i più
importanti autori di queste opere, anche note con il nome di spomenik,
spicca il nome di Bodgan Bogdanović, architetto e intellettuale di
spicco (a cui il museo dedica ampio spazio con una pubblicazione
parallela al catalogo): è stato sindaco di Belgrado tra il 1982 e il
1986, e poi oppositore del regime di Milošević, posizione che gli causò
l’allontanamento a Vienna, dove morì nel 2010. Il monumento Kosmaj, vicino a Belgrado.Gli
spomenik vantano ad oggi lo status di attrazioni turistiche per
jugo-nostalgici e semplici curiosi, oltre che fenomeno social, grazie al
contributo di progetti di ricerca e divulgazione come SpomenikDatabase (di cui uscirà un volume fotografico a settembre) e alla crescente attenzione mediatica a livello internazionale, citati tra gli altri da Atlas Obscura e Lonely Planet.
Un culto iniziato nel 2007, quando il fotografo olandese Jan Kempenaers
ha ritratto i monumenti più importanti, realizzando un progetto dal
titolo Spomenik, risultato in alcune mostre e un catalogo diventato presto introvabile. Come molti accademici hanno fatto notare, il termine spomenik
nelle lingue di origine serbo-croata identifica un qualsiasi tipo di
monumento. Kempenaers è stata la prima persona non originaria dell’ex
Jugoslavia ad utilizzarlo per definire quei particolari monumenti,
sdoganandolo in tutto il mondo e creando perciò una risemantizzazione
del termine, con una connotazione politica molto specifica. La
commemorazione della guerra per la Jugoslavia aveva un enorme
significato ideologico, che si fondava sulla necessità di ricordare
circa un milione di vittime. Come risultato, i memoriali furono
costruiti in gran numero (ne sono stati contati oltre cento) in tutto il
paese, in posizioni diverse (dai centri abitati delle città più
importanti, fino a territori disabitati) nonché su iniziative di
differenti gruppi (dalle piccole comunità locali allo stato federale).
Bogdanović in particolare ha ricreato uno stile peculiare per
commemorare il trauma della guerra, attraverso opere come il memoriale
di Jasenovac in Croazia, dove sorgeva un campo di concentramento
nazista-ustascia, e il Cimitero Partigiani di Mostar in Bosnia
Erzegovina.
Dietro l’hype e la jugo-nostalgia che adesso
gli spomenik portano con sé, vi è quindi un retaggio culturale spesso
sconosciuto, all’estero come in patria. Proprio il “Fiore” di Jasenovac è
stato al centro della polemica che a inizio luglio ha investito Valley Eyewear, un marchio australiano, colpevole di aver usato il memoriale del genocidio ebraico come
set per la sua ultima campagna pubblicitaria, generando l’indignazione
del pubblico online e conclusasi con il ritiro della campagna. Non solo,
gli spomenik di Tjentište e Podgarić fanno da teatro anche del recente
video della canzone “Darkside” di Alan Walker, sempre accostati a
un’ambientazione sci-fi e post-apocalittica.
Ciò che in effetti
accade con questi monumenti e che li rende così importanti è una
continua riflessione sulla memoria e sul rapporto con il proprio passato
jugoslavo: fatto che nelle ex Repubbliche non è mai univoco e anzi,
subisce una costante ridefinizione. Se infatti da un lato gli spomenik
sono apprezzati come elemento esotico dagli stranieri, in patria accade
spesso che questi siti vengano lasciati all’incuria, se non al
vandalismo. Lo scorso febbraio il monumento di Tjentište è stato colpito
da una frana che ne mette a rischio la salvaguardia, così come il
Cimitero dei Partigiani di Mostar, vandalizzato e abbandonato per anni e
che solo negli ultimi mesi è stato ristrutturato grazie all’intervento
dell’Unione Europea. C’è da scommettere che la monumentale operazione di
ricerca lanciata dal MoMA riporterà il dovuto lustro a questa
espressione architettonica e soprattutto sarà in grado di fare da
traino, ricordando l’esistenza di queste opere anche nel resto del
mondo. E se gli spomenik ormai sono sempre più diffusi sui giornali,
nelle pubblicità e nei video musicali per la loro estetica, la vera
sfida è restituire la chiave di lettura corretta che si cela dietro a
questi baluardi, testimoni di un’utopia politica tragicamente implosa a
un braccio di mare di distanza da noi.
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