martedì 4 dicembre 2018

Salvini prende tutti i meriti...


Battezzati tre nuovi avversari: Boccia, Spataro e Avvenire

A meno di 4 giorni dalla manifestazione di sabato Salvini ridisegna la mappa dei nemici, alzando il tiro su un livello quasi istituzionale




Il salto di qualità non è casuale, a meno di quattro giorni da sabato, grande giorno della consacrazione della Lega come forza nazionale, in piazza del Popolo, che, per la prima volta, sarà piena di tricolori. Salvini ridisegna la mappa dei nemici, li allarga portando il conflitto ben oltre il cliché più classici del suo repertorio, come Saviano, la sinistra buonista, i centri sociali. Lo porta su un terreno quasi istituzionale, con l'arroganza di chi si sente l'unico depositario dei voleri del popolo, contro le elite, della magistratura, degli industriali, e pure del mondo dei vescovi. I bersagli sono Spataro, Vincenzo Boccia, Avvenire.
Linguaggio sbrigativo, al solito rude, nell'ambito di una calcolata incontinenza dichiaratoria, twitter, facebook, presentazione del libro di Vespa, rituale del potere che celebra se stesso da più lustri, tv. E non è un caso. Perché per capire l'oggi bisogna comprendere ciò che è accaduto ieri, la protesta partito del Pil, i ceti produttivi del Nord che hanno criticato la manovra, o meglio hanno espresso un grido di dolore verso la violazione del "contratto", quello stipulato in campagna elettorale col popolo dei produttori del Nord. E che ora vede disattesi gli impegni presi: non c'è la flat tax, ma c'è il reddito di cittadinanza, non c'è l'abbassamento delle tasse, ma una valanga di spesa corrente, non c'è lo sbocco dei fondi sulle grandi opere ma l'incertezza della Tav.
È una protesta che i governatori del Nord toccano con mano quotidianamente e che pone l'interrogativo su "quanto si può andare avanti così". È chiaro il tentativo di Salvini, nel day after, di coprire il male del nord e "spostare il tiro", secondo il più classico schema populista, per cui Vincenzo Boccia diventa uno che parla perché mosso da un pregiudizio politico, espressione di un establishment confindustriale refrattario al cambiamento, lasciando intendere che il popolo produttivo è altra cosa rispetto alle elite e quel popolo non lo segue. Una mossa, tutta politica, che a stento nasconde la cruda realtà. Perché a Torino lunedì non c'era la Casta confindustriale, ma proprio il popolo degli artigiani, commercianti, il nord che lavora e che produce, da lustri cuore pulsante della Lega al Nord: Confapi, Confartigianato, Confagricoltura, Confesercenti. È lo stesso popolo che il 13 manifesterà nel Nord-Est per esprimere lo stesso disagio. Ed è chiaro che nella polemica con Spataro c'è tutto il senso dell'operazione politica di giornata (e non solo): caricare sui cavalli di battaglia su cui sono sensibili gli elettori, come la sicurezza, rivendicando, anche a operazioni in corso, arresti, blitz, lotta senza quartiere al crimine, con l'ostentazione di chi ha trasformato il Viminale nella centrale operativa della propaganda securitaria, con gli arresti che diventano tweet in tempo reale o prima che accadano. Chi non è d'accordo, "si ritiri" e vada in pensione, "pensi prima di aprire la bocca", "se vuole candidarsi, faccia pure".
Ecco: Boccia che fa attacchi mosso dal pregiudizio politico, Spataro anche, Avvenire "parte politicizzata della gerarchia italiana". C'è tutta la narrazione populista in questa nuova lista di nemici e il tentativo di occupare la scena come unico interprete dalla volontà popolare. Soprattutto in un momento un cui, dopo che i dati del Pil hanno smontato la manovra, il leader della Lega è costretto a mordersi la lingua sui temi dell'economia. Per cui non può più dire che "lo spread me lo mangio a colazione", "Junker è un ubriacone", "lo spread è a 400? Noi tiriamo dritti". In questo nuovo schema di gioco (leggi qui blog Lucia Annunziata), la trattativa più garbata è affidata a Conte, il re travicello incensato per l'occasione come un leader, tra una foto i camicia bianca e un calcio al pallone in Argentina. Mentre i due leader, Salvini e Di Maio, sono ritornati sul territorio aprendo di fatto una lunga campagna elettorale.
Parliamoci chiaro. In questo momento ci sono due Leghe che convivono. Quella dei governatori che continua a viversi, innanzitutto, come un sindacato di territorio e la Lega nazionale di Salvini, la famosa "Lega dei popoli". Al netto della tattica, c'è anche una convinzione profonda di Salvini. E cioè che il "popolo" è più ampio della base tradizionale e il popolo è fatto anche da quei "tre milioni" di "disoccupati" e "inoccupati", come ha ricordato nel corso della presentazione del libro di Vespa, a cui si parla anche difendendo il reddito di cittadinanza perché "non è vero che favorisce il lavoro nero". O da quelle periferie che si nutrono della protesta contro l'establishment. L'insistenza con cui il leader della Lega ha difeso il governo che "andrà avanti per anni e per decenni" e anche le sventure personali di Di Maio, la dice lunga della manovra in atto che sarà celebrata sabato a piazza del popolo. Finora Salvini è riuscito a far convivere le due Leghe, su misure a costo zero e con la sua leadership carismatica che ha influenzato l'agenda di governo.
Ora però, per la prima volta, la protesta si è manifestata, non è rimasta circoscritta alle telefonate dei governatori del Nord. Il principio di realtà è sceso in piazza ed è entrato in casa. Come sempre, quando uno alza il tiro per spostare l'attenzione, è in difficoltà.

martedì 27 novembre 2018

La sofferenza di chi si sente creativo e non sa omologarsi al “normale”

IN UN UN MONDO MALATO, I SANI DI MENTE VANNO DALLO PSICOLOGO –


Di dr.ssa Carla Sale Musio –

Come psicoterapeuta, incontro spesso persone dotate di un’ottima salute mentale ma sofferenti, a causa della patologia sociale in cui vivono immerse.
Nel corso degli anni ho individuato, dietro a tante richieste di aiuto, una struttura di personalità dotata di sensibilità, creatività, empatia e intuizione, che ho chiamato: Personalità Creativa.
In questi casi non si può parlare di cura (anche se, chi chiede una terapia, si sente patologico e domanda di essere curato) perché: essere emotivamente sani in un mondo malato genera, inevitabilmente, un grande dolore e porta a sentirsi diversi ed emarginati.
Le persone che possiedono una Personalità Creativa sono capaci di amare, di sognare, di sperimentare, di giocare, di cambiare, di raggiungere i propri obiettivi e di formularne di nuovi.
Sono uomini e donne emotivamente sani, inscindibilmente connessi alla propria anima e in contatto con la sua verità.
Queste persone coltivano la certezza che la vita abbia un significato diverso per ciascuno e rispettano ogni essere vivente, sperimentando così una grande ricchezza di possibilità.
É gente che non ama la competizione, la sopraffazione e lo sfruttamento, perché scorge un pezzetto di sé in ogni cosa che esiste.
Gente che non riesce a sentirsi bene in mezzo alla sofferenza e incapace di costruire la propria fortuna sulla disgrazia di altri.
Gente che nella nostra società non va di moda, disposta a rinunciare per condividere.
Gente impopolare. Derisa dalla legge del più forte. Beffata dalla competizione.
Portatori di un sapere che non piace, non perdono di vista l’importanza di ciò che non ha forma e non si può toccare.
Sono queste le persone che possiedono una Personalità Creativa.
Persone ingiustamente ridicolizzate e incomprese in un mondo malato di arroganza, e che, spesso, si rivolgono agli psicologi chiedendo aiuto.
Ognuno di loro è orientato verso scelte diverse da quelle di sempre.
E in genere hanno valori e priorità incomprensibili per la maggioranza.
Non seguono una religione, ma ascoltano con religiosa attenzione i dettami del proprio mondo interiore.
Sanno scherzare, senza prendere in giro.
Pagano di persona il prezzo delle proprie scelte e preferiscono perdere, pur di non barattare la dignità.
Sono fatti così.
Poco ipnotizzabili. Poco omologabili. Poco assoggettabili.
Persone che non fanno tendenza.
Forse.
Gente poco normale, di questi tempi.
Gente con l’anima.

giovedì 22 novembre 2018

SPETTACOLO 50 anni fa Compleanni, il White Album dei Beatles

SPETTACOLO 50 anni fa Compleanni, il White Album dei Beatles: perché uno dei dischi meno belli è anche uno dei più amati Non contiene brani iconici, non è l’emblema di un momento storico particolare e non è - musicalmente parlando - rivoluzionario. Eppure... Tweet di Diego Antonelli 22 novembre 2018 Parlando del White Album - o Doppio bianco o Album bianco, come potete indifferentemente chiamare senza tema d’essere fraintesi quel candido doppio album - intitolato in realtà semplicemente “The Beatles”, pubblicato 50 anni fa, il 23 novembre del 1968, nessun esperto o appassionato di Beatles vi potrà onestamente dire che si tratti del miglior lavoro dei quattro di Liverpool. Non contiene brani iconici, non è l’emblema di un momento storico particolare (come lo è stato il Sgt. Pepper’s per la summer of love) né di un momento particolare nella storia dei Fab Four (come il tormentato Let it be) e non è – musicalmente parlando – rivoluzionario, come lo furono Rubber Soul e Revolver, quando la crisalide divenne farfalla. Eppure. Eppure tantissimi appassionati di Beatles considerano il Doppio bianco (o White Album o Album bianco, quel che è certo è che nessuno lo chiama con il suo vero nome) un disco straordinario. Forse perché, come ha scritto con una bella intuizione qualche giorno fa sul suo profilo Facebook Marino Bartoletti, “(in questo album) trovo tutto quello che voglio a seconda delle mie sensazioni, dei miei momenti, dei miei umori”. Vero, verissimo. In effetti la cifra caratterizzante di questo lavoro è la sua varietà, il suo essere sfaccettato. Certo, in 30 brani c’è anche qualche caduta e – come scrivono alcuni critici – probabilmente si sarebbe potuto ricavare un singolo album notevolissimo facendo una selezione del materiale. Ma così non fu per una serie di ragioni che, a distanza di 50 anni sono più facili da comprendere. Il White Album arriva in un momento complicato nella storia dei Fab Four e nella storia della musica in generale. Arriva dopo una irripetibile sequenza composta da Rubber Soul/Revolver/Sgt. Pepper’s, un crescendo rossiniano di innovazione che in 18 mesi (dicembre ’65 - giugno ‘67) ha determinato un nuovo modo di fare musica e che segnerà per sempre un prima e un dopo. Ecco, il White Album è il subito dopo. E’ l’istante dopo il big bang, con tutto lo sgomento di cui può essere sovraccarico il momento in cui bisogna ricominciare daccapo a fare qualcosa che si è sempre fatto, ma in un contesto completamente rivoluzionato. E il fatto che a fare la rivoluzione siate stai voi non aiuta, anzi. Non è dato sapere se quella copertina immacolata dopo l’orgia di colori del Sgt.Pepper’s volesse essere anche la metaforica rappresentazione della sindrome da foglio bianco che colpirebbe qualsiasi umano in una situazione del genere. Quel che è certo è che questo improvviso understatement estetico marca da subito una precisa scelta di campo: quella di non entrare in competizione con il suo predecessore. E’ il segnale che il gioco a spostare sempre più in là il confine della rivoluzione è finito. Meno esperimenti, meno acrobazie da sala d’incisione, meno sovraincisioni e riversamenti. Meno lavoro per “il quinto Beatle”, il produttore George Martin, e molte più sessioni contemporanee. Come se i quattro avessero iniziato quella ricerca del loro originario spirito di gruppo che diventerà dichiarata, ossessiva e disperata oltreché fallimentare nel loro “quasi ultimo” lavoro, Let it be (il cui titolo originario doveva proprio essere Get Back). Ma la linea del tempo è una strada a senso unico e tornare indietro non è mai possibile. Rispetto alle origini i quattro ragazzi del Cavern (o di Amburgo) sono cresciuti e molto più dei 10 anni scarsi che li separano da quelle prime esperienze. L’ego di John e Paul è aumentato in maniera proporzionale al successo avuto e al loro fianco sta crescendo in capacità compositiva e consapevolezza di sé anche George. C’è un aneddoto che spiega bene questa evoluzione. I Beatles si trovano a Abbey Road per registrare While My Guitar Gently Weeps in tre lunghe sessioni: il 16 agosto, il 3 e il 5 settembre del 1968. Presenti e partecipanti tutti e quattro. Alle 3.45 del mattino dopo tre sfiancanti sedute di lavoro e di affinamento si decide che il nastro 25 è quello buono e definitivo. Tutti contenti tranne George che è l’autore della canzone e che torna nella sua villa di Esher nel Surrey per nulla soddisfatto. La canzone è bella, molto bella, decisamente la sua migliore fino a quel momento, il problema non è lì. Il punto è che John e Paul sono abituati a non prendere troppo sul serio i suoi brani, non si impegnano, non danno il massimo. E la canzone ne risente. Il giorno dopo l’appuntamento a Abbey Road è per le 19.00. George scrocca un passaggio in macchina dal suo amico Eric Clapton, che abita non lontano da lui. Durante il tragitto in macchina ha un’intuizione e chiede a Calpton di fermarsi a Abbey Road per suonare la chitarra nella “sua” canzone. Clapton prova a obiettare che “nessuno ha mai suonato in un disco dei Beatles e gli altri non gradirebbero”, ma George non vuole sentire ragioni: “La canzone è mia e io vorrei che tu ci suonassi”. Con la stessa determinazione, arrivato a Abbey Road, annuncia (non chiede, annuncia) agli altri tre che per l’occasione il gruppo si allarga. Il risultato fu eccezionale non solo per lo straordinario contributo di Clapton che fa piangere la sua chitarra come George non era riuscito a fare in tre giorni di registrazioni, ma anche perché, come disse lo stesso Harrison, la presenza di “slowhand” in studio spinse tutti a dare il loro meglio. Insomma, il White Album è il primo disco in cui i Beatles cominciano a essere meno gruppo. Tra Paul e John la sana competizione ha cominciato a sporcarsi di invidia e George reclama i propri spazi. Un album solo non può bastare a contenere l’ego dei tre musicisti a meno che tutti siano disponibili a rinunciare a qualcosa in nome del gruppo. In assenza di ciò la soluzione è un compromesso: si raddoppia lo spazio e nessuno rinuncia a nulla. La qualità viene sacrificata in nome della quantità. Il risultato finale è un album vario e sfaccettato, discontinuo e disomogeneo, certamente con alti e bassi, meno corale dei lavori precedenti e comunque… bellissimo. Perché anche se un po’ meno compatti, loro restano pur sempre i Beatles. Date queste caratteristiche possiamo dire che il White Album è un lavoro che ben si presta a una consultazione selettiva più che a una fruizione lineare, guidata dal mood del momento. Per celebrare il suo cinquantesimo compleanno vi suggeriamo una degustazione composta da 10 brani. Iniziate facendovi accarezzare dalla solare Dear Prudence, scritta per convincere Prudence Farrow, sorella dell’attrice Mia Farrow nonché compagna dell’avventura indiana dei Beatles, a uscire dalla sua capanna di Rishikesh dove si era rinchiusa da tre settimane a meditare: “Dear Prudence, won't you come out to play? Dear Prudence, greet the brand new day. The sun is up, the sky is blue, it's beautiful and so are you…”. Fate devota tappa sul malinconico assolo di chitarra di Eric Clapton nella splendida While My Guitar Gently Weeps. Sperimentate la felicità che dà tenere in mano una pistola calda inseguendo nella vertigine di mille nonsense (o doppi sensi) la “ragazza che non se ne fa scappare uno” di Happiness Is A Warm Gun. Crogiolatevi nella stanca pigrizia di John che in I’m So Tired scrive il secondo episodio di una storia cominciata su Revolver con I’m Only Sleeping (già che ci siete riascoltatevi anche quella). Ascoltate con indulgente curiosità Don’t Pass Me By, la prima canzone a firma “Starkey” (Richard Starkey è il vero nome di Ringo Starr) a finire in un disco dei Beatles. Commovetevi per la struggente dichiarazione d’amore che John fa a Julia (il nome è quello della madre persa in gioventù ma John dirà che la musa che ha ispirato questi versi va cercata in un ibrido tra la madre e Yoko Ono): “Half of what I say is meaningless but I say it just to reach you, Julia”. Forse il verso d’amore più bello scritto da Lennon. Fate un passaggio dovuto – data l’occasione – su Birthday di Paul Sorseggiate un acido bicchiere di vetriolo con l’invettiva Sexy Sadie dedicata al santone Maharishi Yogi colpevole di aver tradito la fiducia dei quattro dimostrandosi, nei suoi comportamenti assai terreni con le ragazze al seguito dei Fab Four a Rishikesh, non poi così santo. Ascoltate l’esperimento heavy metal di Paul che in Helter Skelter spinge i quattro a sputare l’anima (tanto che la canzone si chiude con l’urlo liberatorio di Ringo “I’ve got blisters on my fingers!”, ho le vesciche alle mani), non dimenticando che la canzone è diventata tristemente famosa perché Charles Manson dichiarò di aver trovato nel suo testo l’ispirazione per organizzare con la sua “Family” la mattanza di Cielo Drive in cui la notte del 9 agosto 1969 trovarono la morte Sharon Tate – moglie incinta all’ottavo mese del regista Roman Polanski – e altre quattro persone. E infine divoratevi tutta la scatola di cioccolatini Good News della Mackintosh, come fece Eric Clapton a casa dell’amico George, nonostante il mal di denti cronico che lo affliggeva all’epoca. La scena colpì a tal punto il Beatle da spingerlo a mettere in musica in questo divertissement intitolato Savoy Truffle i curiosi nomi dei cioccolatini contenuti nella scatola. Il tutto per dare una saggia raccomandazione all’amico Eric: “Creme Tangerine and Montelimar, a Ginger Sling with a Pineapple Heart, a Coffee Dessert, yes you know it's Good News. But you'll have to have them all pulled out after the Savoy Truffle”, te li dovrai far strappare tutti (i denti) dopo aver mangiato (anche) il Savoy Truffle!

lunedì 19 novembre 2018

I padrini del Blues scelti dai Rolling Stones


I padrini del Blues scelti dai Rolling Stones

Il gruppo ha scelto 42 brani della storia di questo genere. Un viaggio tra il Mississippi e Chicago, alla riscoperta dei grandi.  

E il blues è l'ultima volta di ogni cosa. È la malattia che non guarisce, è tutto quello che sei. È un canto di schiavi che prende la chitarra, diventa elettrico, diventa di moda, si riscatta, ma resta gatto selvatico, che non si fida, che non addomestichi mai davvero. È facile da fare, le solite 12 battute, ma difficile da sentire, da essere. È quella cosa che non sai cosa sia, ma o ce l'hai, oppure non ce l'hai e allora meglio lasciar perdere. E non ha senso prendere una chitarra se prima non hai capito il blues.
 
Il blues è l'inizio e la fine di tutto, anche dei Rolling Stones che finiranno come hanno cominciato, che due anni fa hanno fatto un disco di standard quasi per sbaglio, a 55 anni dalle prime acerbe cover, vendendo 3 milioni di copie e adesso hanno curato una raccolta in due dischi, un vero e proprio viatico con i pezzi che considerano indispensabili. Per dire a chi li ascolta che sta tutto lì, che si ricomincia sempre da capo. Una educazione che non è solo sentimentale, una critica di una ragion pura musicale che, in 42 brani, recupera anche episodi risuonati nell'ultimo Blue & Lonesome. «Facciamogli sentire gli originali, scopriranno qualcosa di nuovo», devono essersi detti. Confessin' the blues, per Bmg/Universal, esce in formati diversificati: 2cd, set di lp 2x2 e in cinque vinili da 10" (imitando le versioni originali di 78 Rpm) per i superpuristi. Tutte le versioni includono le note di copertina del critico musicale Colin Larkin, mentre un bookpack contiene le stampe artistiche del famoso illustratore del blues Christoph Mueller. La copertina, bellissima, è un disegno apposito di Ron Wood, che ha curato anche la parte grafica. Quarantadue classici e, nei solchi, una foresta di storie, di tragedie, di misteri, di dolore scintillante.

VIAGGIO NELLA CHICAGO CAPITALE

La raccolta offre, come è sacrosanto, uno spettro esauriente della prima metà del Novecento – dopo, sarebbero arrivati proprio loro, i nuovi ragazzi, a ritradurre la musica del diavolo per la modernità -, ma è chiaro che la scelta non poteva non privilegiare la Chicago elettrica. Così, a spasso per le canzoni torna la competizione a distanza fra Howlin' Wolf e Muddy Waters.
Howling' Wolfe e la sua chitarra elettrica.

HOWLIN' WOLF, IL GIGANTE

​Il primo tradiva tutto il disagio e la diffidenza di un contadino del Mississippi scaraventato nella metropoli e risolto ad adottare uno stile viscerale; fisico da peso massimo, un enorme ponte da West Point a Chicago dove giunse chiamato dai Chess nei primi Anni 50. Questo fu Howlin' Wolf, che ruggiva e ululava accompagnato dalla chitarra blues-garage di Hubert Sumlin: insieme definirono uno stile dentro al blues. Nella voce Chester Arthur Burnett aveva la nera profondità di un popolo. Mr “Back Door Man” è stato un gigante in tutti i sensi, ululava come nessuno, ma tutti dopo di lui hanno cercato di imitarlo, fino al metal.

MUDDY WATERS E LA CHESS RECORDS

Più elegante, capace di proporre una versione non meno “autentica” ma più commestibile di un genere che, provenendo da artisti marginali, per giunta di colore, non poteva non ingenerare preoccupazione e pregiudizio, Muddy Waters spicca il volo per il successo con la leggendaria Chess Records, e, quando ascolta per la prima volta un suo disco, non può credere che quella voce gli appartenga, che sia proprio lui a cantare: è quasi scioccato dalla possibilità di ascoltarsi. Quando, nel 1964, gli esordienti, imberbi Rolling Stones si spingono a Chicago, sulle tracce del blues, trovano proprio alla Chess, il loro Shangri-la, Muddy intento a dipingere le pareti del soffitto; scende dalla scaletta e, chiazzato com'è di vernice, si offre di aiutarli a scaricare i loro strumenti. I ragazzini sono sconvolti, un loro mito che gli fa da facchino: ricevono una lezione di grandezza e di umiltà che mai dimenticheranno. Questo almeno narra la leggenda, da più parti confutata: ma è una leggenda blues, meravigliosa, e alla fine si è imposta sulla realtà.
Chuck Berry e Keith Richards.

BUDDY GUY E IL BLUES ELETTRICO

In una simile carrellata non poteva mancare Buddy Guy, con cui gli Stones, quando capita, suonano ancora adesso. Buddy lascia la Louisiana per Chicago nel 1957 e lancia la sua carriera lungo la strada di un blues elettrico che influenzerà innumerevoli chitarristi, da Jimi Hendrix a Eric Clapton. Gli Anni 60 sono il suo apice, imperdibile l'album Buddy's Blues, con registrazioni del periodo 1960-1967. Buddy Guy è stato il “pilota” di tanti, con uno stile insieme aggressivo e raffinato. Se capitate a Chicago, un salto al Buddy Guy's Legend fatecelo: magari potete prendervi un po' di Champagne & Reefer. L'importante è non perdere la testa se, intanto che siete lì al bancone, vi vedete entrare quattro tipi dall'aria consumata che, di punto in bianco, chiamano il padrone e insieme si mettono a improvvisare un blues.

LA LEGGENDA CHUCK BERRY

E figuriamoci se, nel cuore degli Stones, poteva mancare Chuck Berry, passato alla storia come l'inventore – o uno degli inventori – del rock and roll, ma, prima di tutto, bluesman autentico: lui, anzi, voleva farsi conoscere proprio come cantante e chitarrista blues, senonché alla splendida The Wee Wee Hours, Leonard Chess preferì Maybellene, che fondeva elementi blues e country in un modo nuovo e irresistibile: così nacque la leggenda di questo artista straordinario, un misantropo carogna capace di raccontare la gente alla gente come nessuno. Ha subito il razzismo più becero, la persecuzione giudiziaria, è passato dalle rapine giovanili, anzi minorili, a mano armata alle suite dei migliori alberghi della terra: ma non è mai cambiato, furbo, carogna e sospettoso. Se un giornalista gli chiedeva quando fosse nato davvero, sapeva già l'immancabile risposta: «Questi sono solo fottuti c**** miei» (Trump al confronto è un'orsolina). Non ha mai partecipato a eventi o festival di beneficenza, perché «conosco un solo ente di beneficenza e si chiama Chuck Berry». Unico anche nell'impresa di prendere a pugni Keith Richards senza farsi uccidere, anzi quello andava in giro tutto fiero a mostrare l'occhio nero: «Me l'ha fatto Chuck!». Anni dopo, Berry si sarebbe scusato con... Ronnie Wood. E, a chi gli faceva notare che aveva confuso i chitarristi, opponeva una risposta impeccabile: «Ma che diavolo ne so io, sono quei bastardi di bianchi a essere tutti uguali».
E chi immagina, poi, che tra il 1943 e il 1949 B. B. King studia il blues, lo trasmette e poi lo incide? B. B. King sta per “Blues Boy”, uno dei nomi con cui il bluesman si segnala come disc-jokey alla radio Wdia di Memphis. Ma il passaggio dalla musica trasmessa a quella suonata è dietro l'angolo: nel 1949 King comincia a registrare per la Rpm Records con Sam Phillips (futuro fondatore della Sun Records): ecco Whole Lotta Love, Sweet Little Angel, Woke Up This Morning... e il successo. Una vita sul palco, B. B. King è il vero “Re del Blues”, titolo che ha conquistato definitivamente negli Anni 70, quando il suo stile, influenzato da Charlie Christian e Django Reinhardt, si è imposto a suon di concerti: anche 300 l'anno.
Maestro nel combinare il Blues con la pulizia del Jazz, gli basta una sola nota, stirata, rivoltata, allungata, per sciogliere l'anima. In pista già da una decade, B. B. King entra nella leggenda a metà degli Anni 60 grazie al suo stile chitarristico sopraffino e all'album Live at The Regal, che lo spara nella leggenda; completa il suo status la cover di The Thrill Is Gone di Roy Hawkins, che nel 1969 porta il suo nome in cima alle classifiche. E, siccome dietro ogni grande bluesman c'è (almeno) una grande chitarra, resta celeberrima l'avventura di King con la sua Lucille: nel '49 a Twist, Arkansas, dopo una rissa il locale va a fuoco, tutti fuggono ma B.B. non trova la sua seicorde: torna dentro, riesce a salvarla ed esce mentre il locale crolla dietro di lui. Una visione epica. Quando viene a sapere che la rissa era scoppiata, manco a dirlo, a causa di una ragazza, certa Lucille, King non esita: una volta e per sempre sarà Lucille tra le sue dita.
Robert Johnson.

IL MISTERO DI ROBERT JOHNSON

L'epilogo di questo excursus tinto di blues non può non coincidere con l'origine, quantomeno nella vulgata: di Robert Johnson si è detto di tutto senza sapere quasi niente. Non v'è certezza su nulla, non la data di nascita, forse tra il 1910 e il 1912, non il suo vero padre, nessuno fra i due che lo tirarono su era quello biologico, non la sua vita, men che meno la sua morte. Ovviamente, l'arcano più profondo riguarda la sua inquietante abilità come chitarrista. Quello che si sa, si sa soprattutto per l'opera meritoria dello storico Mack Mc Cormick che, partendo dalle uniche due fotografie attribuite con certezza al più misterioso dei bluesman, è riuscito a cavarne una biografia. Di certo, o almeno verosimile, abbiamo che il giovanissimo Robert apprese i rudimenti dell'armonica e della chitarra da uno dei suoi innumerevoli fratelli e fratellastri: suonava come poteva, cioè malissimo, il che gli guadagnava le bonarie, ma feroci, prese in giro di Son House e Willie Brown. Finché una sera, dilaniato nell'orgoglio, sparì e nessuno lo vide più. Tornò dopo sei mesi, imbracciò una chitarra e, quella volta, restarono tutti muti. A bocca aperta, però. Lui, malizioso, ambiguo e abile, si ritagliò la leggenda di un patto col diavolo: il blues contro l'anima.

LO ZAMPINO DEL DIAVOLO

Probabilmente trovò qualche maestro sconosciuto, forse certo Ike Zimmerman, con cui si esercitava di notte nei cimiteri. Come a dire che, mettila come vuoi, lo zampino del diavolo in un modo o nell'altro c'entra sempre. Sta di fatto che, come ci ricorda Roberto Caselli nella sua splendida Storia del Blues (Hoepli), Johnson superò in tecnica e intensità anche il maestro Son House, diventando archetipico e insieme propulsore per un blues più moderno, addirittura imperituro. Ha lasciato appena 29 pezzi, incisi in cinque session tra il 1936 e il 1937, prima che il diavolo, nelle sembianze di un marito geloso, tornasse a riprendersi quel che gli spettava: il corpo di Robert, stecchito per il veleno, diventava spirito della musica del diavolo da qui all'eternità.