venerdì 29 settembre 2017

Raggi, gli attacchi diventati boomerang

La sindaca per la quale la procura chiede il rinvio a giudizio per falso, rivendicava le dimissioni per gli indagati. Attaccava Marino per gli scontrini. E Pizzarotti per la mancanza di trasparenza. E festeggia l'accordo con Cerroni.
lettera43.it|Di Francesca Buonfiglioli

Grasso va bene, ma alla sinistra serve un Sanders o un Corbyn

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Come sempre la casa della sinistra va rifondata cominciando dal tetto e quando si arriva alle fondamenta si presentano i soliti noti degli ultimi 50 anni. Lo sostengo da sempre, quando saranno spariti tutti i soliti noti, si potrà rifondare tutto con gli ignoti che saranno i benvenuti...
Mdp flirta col presidente del Senato. Chi meglio di lui? Però prima bisogna trovare la quadra su cosa fare. Come hanno insegnato l'americano e l'inglese. Che…
lettera43.it|Di Peppino Caldarola

mercoledì 27 settembre 2017

Politico passeggio

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Be’, forse è tempo di spaventarsi. Adesso abbiamo davvero bisogno di un baluardo contro lo slittamento dello scontento verso la destra salviniana. Leggi
internazionale.it

Tra lo stallo e la clava

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Non c’è un solo fazzoletto di terra dove non si pensi che la storia come la si fa lì, non la si fa da nessun’altra parte. Leggi
internazionale.it

Una china facile


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In certi periodi tutti sfoggiano una qualche bella utopia. In altri l’arte dell’uomo di stato consiste nello stare a proprio agio dentro la melma del reale. Leggi
internazionale.it

Il più grande paese del mondo sarà quello dei profughi

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Le persone in fuga da guerre, povertà e cambiamenti climatici saranno due miliardi se non si rinuncia ai muri e alle misure di “sicurezza”. Leggi
internazionale.it

Corea del nord

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Chi può contribuire a fermare un ingranaggio bellico? La domanda è urgente in un mondo privo di istituzioni di governo internazionali, collegiali ed efficaci. Leggi
internazionale.it

lunedì 25 settembre 2017

Non (solo) la prigione. I maschi violenti vanno rieducati

Più che per convegni dedicati alle donne, dovremmo spendere soldi per trasformare i lupi mannari. Di Fabiana Giacomotti.

La teoria del razzismo compie cent’anni e rispunta ogni giorno - Martín Caparrós


Il guaio è se lo scopre Donald Trump. L’anno prossimo, mentre le elezioni degli Stati Uniti diffonderanno la loro luce sull’occidente, compirà cent’anni un libro…
internazionale.it

La vera storia di Faccetta nera

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Se sei donna e nera in Italia un riferimento, anche casuale, a Faccetta nera ci scappa sempre. Da piccola me la cantavano spesso all’uscita di scuola per umiliarmi, e in generale la canzoncina aleggia nell’aria come quei microbi da cui…
internazionale.it

Perché la cannabis terapeutica di stato rischia di non funzionare

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Dopo l’entusiasmo iniziale, il progetto stenta a decollare. Le zavorre che non gli hanno permesso di farlo sono tre. Leggi
internazionale.it

domenica 24 settembre 2017

Alessandro un anno...

Oggi mio nipote Alessandro è arrivato al suo primo traguardo di vita, un anno o dodici mesi o trecentosessantacinque giorni, lunghi o brevi, intensi, sicuramente mai monotoni. Ogni giorno che passa è una nuova scoperta per lui, per i suoi genitori e per chi gli è sempre accanto.
"D'ora in poi crescerai sempre più in fretta e voglio augurarti tanti altri giorni felici come questo. Che il prossimo anno e il futuro che ti attende ti sia lieve e, come l'aquilone di questa foto, ti faccia volare leggero, sopra ogni avversità della vita."
Nonno Checcuswriter

venerdì 22 settembre 2017

Matteo Tassinari http://rainingallegories.blogspot.it/.../clapton...
Ci sono persone che suonano in gruppo, altri no. Se c' e' qualcuno piu' pigro di me quello è Eric. (Keith…
rainingallegories.blogspot.com
Eric Clapton ieri e oggi "Niente più tour, mi ritiro l'era della chitarra è finita"
TORONTO
«MI RITIRO». Esordisce così Eric Clapton, 72 anni, quando lo incontriamo tra Chinatown e il Fashion District per presentare il suo documentario, Life in 12 bars.
«Sì, smetto di suonare. Mi restano altri quattro concerti, poi chiudo bottega». Il chitarrista inglese nasconde le mani nel taschino di una giacca nera, due anelli al dito. Gli occhiali come oblò. Poi sorride: «Quante volte avrò detto addio alle scene?». Ci pensa su. «La prima, se ricordo bene, a 17 anni».
Ma fa sul serio stavolta? «Andare in tour è diventato insopportabile. Forse non sono io, è la chitarra ad aver dato tutto. Fine dell'epoca a sei corde». In un film che copre vita e carriera di Eric "mano lenta" Clapton, l'uomo del Blues sembra farsi in mille pezzi, consegnando personalmente fuori scena, fotografie, pagine di diario, lettere scritte a mano, clip e memorie a Lili Fini Zanuck, regista e produttrice (un Oscar per A spasso con Daisy). E parla a ruota libera dello stato di salute dell'industria: «Non sono rassegnato né mi dà fastidio l'idea che questa sia la fine del rock» dice. «Se mi chiedete cosa pensi del mercato digitale, cascate male. Sono fuori dal giro, non so che succede. Ma ho fatto un lavaggio del cervello preventivo alle figlie. Per questo, loro, amano ancora il suono della chitarra elettrica».
Stando a un articolo del Washington Post, le vendite di chitarre sarebbero scese da un milione e mezzo l'anno a un milione, mentre i grandi produttori, Gibson e Fender, stanno attraversando una brutta crisi finanziaria. Clapton usa spesso la parola "odissea" per parlare di Life in 12 bars (lo distribuirà Lucky Red a dicembre). Il documentario lo ritrae nei momenti energici e in quelli più cupi, senza censure o manomissioni; dalla morte di Conor, 4 anni, figlio di Clapton e Lory Del Santo, volato giù dal cinquantatreesimo piano di un grattacielo nel '91, ai ricoveri per alcol e droga, a un lungo braccio di ferro con la depressione.
È stato Clapton a dare il via al progetto, accompagnato da interviste e materiale d'archivio di chi l'ha conosciuto meglio: B.B. King, Jimi Hendrix e George Harrison, tra gli altri. «Il blues per me è una questione personale » spiega. «È sempre stata la mia chitarra contro il mondo». Cinquant'anni di dischi e band, tra The Yardbirds, Cream, John Mayall & the Bluesbreakers, Blind Faith, Derek and the Dominos, e i suoi anni da solista, fino alla genesi di For your love, Layla e Tears in heaven.
Nel film si raccontano episodi curiosi, soprattutto nella prima parte: come quando Clapton entrò a far parte degli Yardbirds come rimpiazzo alla chitarra, poi li mollò proprio mentre usciva l'album For your love (1965), convinto che si stessero svendendo. John Mayall, il guru del blues inglese, gli diede la caccia per tutta l'Inghilterra e lo reclutò nei Bluesbreakers; finirono per provare e suonare insieme così spesso che Clapton si trasferì a casa dello stesso Mayall.
«Quando ho visto e riascoltato le mie interviste, mi sono reso conto di quanto fossi pomposo da giovane» dice imbarazzato. «Tutto quello che usciva dalla mia bocca era chiacchiera. Per me è difficile riguardarmi. Forse vale per tutti noi: quando si è giovani domina un certo livello di arroganza, un generico "So tutto io". Non appena invecchiamo, ci rendiamo conto di non sapere nulla». Al concetto di verità, Clapton è attentissimo: «Volevo un film sulla mia vita mentre ero ancora tra voi. E non da morto. Ci ho messo tutta la mia integrità ». Clapton definisce Life in 12 bars un testamento biografico e musicale: «Non ho toccato alcol per tanto tempo e, per i primi dieci anni di quel periodo, gran parte del mio modo di pensare e vedere le cose è stato alterato, è cambiato». Prosegue: «Dopo essere diventato padre (il musicista ha quattro figlie: Julie Rose, Ruth, Sophie Belle e Ella May, ndr), una forma di disperazione mi ha sopraffatto. Ho preso atto delle responsabilità nei riguardi della mia famiglia. Ecco, il mio vero lascito sono loro, le persone che amo. Mi sta ancora stretto il fatto che il mio comportamento pubblico abbia un impatto sulle vite degli altri. Ci sto lavorando. Il mio impegno e la devozione verso la musica sono indiscutibili. Mi sono sempre considerato un portavoce».
Da autentico messaggero, la rock legend si augura che il suo film faccia il giro del mondo: «Voglio mostrare a tutti che, sotto tutto quel casino, sono, ragionevolmente, un bravo essere umano».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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IL BLUES
Per me è una questione personale: la sei corde contro il mondo

giovedì 21 settembre 2017

Cui Prodest ? 7 apr 2017 : vogliono la 3° guerra mondiale

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Udo Ulfkotte è stato un giornalista tedesco. Ha lavorato come editore presso il quotidiano la Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Ulfkotte era il giornalista, che rivelò come lui ed altre “firme” fossero al soldo dei servizi americani.
Il suo libro, “Giornalisti Comprati” (2014), descrive i metodi con cui la Cia imbecca, istruisce, paga (fino a 20 mila dollari) giornalisti tedeschi ma anche italiani perché scrivano articoli favorevoli alle politiche americane.
In occasione della crisi libica del 2011, ha raccontato di come fu imbeccato dai servizi germanici perché annunciasse sul suo giornale, come fosse un fatto assodato, che Gheddafi era in possesso di armi chimiche ed era pronto ad usarle contro il suo popolo inerme.
Se invece si trasgredisce la linea filoatlantica le conseguenze sono altrettanto note, ovvero la perdita del lavoro, il triste isolamento professionale, fino alle minacce dirette e alle persecuzioni (lui stesso sostiene di aver subito sei perquisizioni nella sua abitazione con l’accusa di aver rivelato segreti di stato).
Udo Ulfkotte è stato trovato morto nella sua abitazione il 13 gennaio di quest' anno. Alcuni hanno avanzato sospetti sulle cause della morte, anche perché il governo tedesco ha dichiarato si trattasse di infarto e senza alcuna autopsia è stato cremato, togliendo così per sempre ogni possibilità di indagini più corrette ed approfondite
Diamo un'occhiata a questo breve ed interessante doc....

Testamento biologico

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In risposta ad una lettera di Carlo Troilo che sollecita l’approvazione del disegno di legge sul testamento biologico, su “La Repubblica” del 13.9.2017 Corrado Augias ha scritto:
Il tormentato percorso di questo progetto di legge è avvilente, appartiene ad altri tempi, a un’altra Italia.
I settori più arretrati dello schieramento cattolico cercano (non di rado in modo strumentale) di impedire che venga adottato un provvedimento che fa chiaramente parte dei diritti inalienabili di un individuo, infatti non solo vigente in tutto il mondo occidentale ma largamente sentito anche dall’opinione pubblica italiana.
In materie di questo tipo è importante capire bene di che si parla: si tratta non di autorizzare l’eutanasia, cioè la fine della vita, ma solo di regolamentare l’espressione anticipata della volontà nel caso che sopraggiunga una malattia senza rimedio e di lunga durata che privi un individuo della capacità fisica o intellettiva. Io stabilisco, oggi per allora, che in un’eventualità del genere non voglio essere curato al di là di ogni ragionevolezza. Poiché si tratta di materie delicatissime, si possono citare due principali aspetti positivi della legge.
Chiarire che alimentazione e idratazione artificiali sono “terapie” e non trattamenti vitali. Classificarle come “terapie” vuol dire renderle rifiutabili in base a quanto previsto dall’articolo 32 della Costituzione là dove detta: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Un principio del genere impedirebbe il ripetersi di vicende tragiche come quelle di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro.
Secondo: consentirebbe la sedazione profonda continua, eviterebbe molti dei mille suicidi di malati che ogni anno sono costretti dalle nostre leggi spietate al passo estremo. Vengono in mente i gesti disperati di Mario Monicelli e di Carlo Lizzani costretti a gettarsi dalla finestra per porre fine ai loro giorni.
Una crudeltà e una barbarie dove una distorta “religiosità” mostra il suo volto peggiore. La definisco “distorta” perché la religiosità vera è quella in base alla quale un individuo regola e indirizza secondo coscienza la propria vita senza la pretesa di applicare le stesse regole a chi pensa diversamente.

Vendemmia 2017


I vini del 2017? Saranno di meno, ma più cari e più alcolici.

Nuovi LEA 2017: ecco la Guida alle esenzioni per le malattie rare

Condividiamo volentieri La Guida alle nuove esenzioni per le Malattie Rare di Ilaria Vacca #nuovilea #disabili
La prima testata e agenzia giornalistica completamente dedicata alle malattie rare e ai tumori rari.
osservatoriomalattierare.it

Rosario Livatino

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QUANDO SI RISPONDE AD UNA DIMENSIONE PIÙ PROFONDA
Dice Vito Mancuso: "Del resto, se noi pensiamo ai Severino Boezio dei nostri tempi, per esempio a persone come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livatino e tanti altri magistrati, ci accorgiamo che abbiamo a che fare con persone perfettamente consapevoli che agendo in un determinato modo avrebbero potuto andare incontro alla morte, cioè alla perdita del loro bios, della loro vita biologica. Eppure hanno continuato a fare ciò che facevano. Fermandosi alla dimensione del bios queste persone erano delle illuse, o ancor peggio dei pazzi. In verità la loro etica li ha condotti alla scoperta di una dimensione più profonda del semplice bios, che è ciò che gli antichi appunto chiamavano psyché e ancora più profondamente nous, cioè spirito".

domenica 17 settembre 2017

La Polonia ride sul latte versato: riaprono i bar mleczny


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Chiusi dopo la caduta del Muro, rispuntano i ristoranti-mensa. Tra pasti offerti a 2 euro e un gusto retrò. Con ambientazioni della Repubblica popolare sotto il controllo pubblico. Il viaggio di pagina99.
lettera43.it

Salute, virus e batteri sono sempre più forti

La resistenza ai farmaci degli agenti patogeni è sempre più difficile da sconfiggere. Ogni anno 700 mila persone muiono per infezioni, ma nel 2050 potrebbero essere 10 milioni.
lettera43.it

sabato 16 settembre 2017

la gioia baudelaire


Nessun testo alternativo automatico disponibile.14 h ·

Non pretendo che la gioia non possa accompagnarsi alla bellezza; ma dico che la gioia è uno degli ornamenti più volgari, mentre la malinconia è della bellezza, per così dire, la nobile compagna, al punto che non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore.
Opere postume, Charles Baudelaire

LA SCOMPARSA DI MAURO DE MAURO

16 SETTEMBRE 1970: LA SCOMPARSA DI MAURO DE MAURO.
Palermo: la sera del 16 settembre 1970 Mauro De Mauro, cronista del quotidiano L'Ora, ha da poco parcheggiato la propria auto a pochi metri dalla sua abitazione, quando viene avvicinato da tre sconosciuti e costretto ad allontanarsi con loro.
Da quel momento di lui non resterà nessuna traccia.

Un giallo destinato a infittirsi con il passare degli anni. Dalle indagini e testimonianze verrà fuori che De Mauro aveva probabilmente raccolto prove scottanti su alcuni fatti di importanza nazionale, come il caso Mattei, la strage di piazza Fontana e il golpe Borghese.
Ma concretamente l'indagine era ad un punto morto e sembrava finita nel nulla. Nel 2001 il pentito di mafia, Francesco Di Carlo, asserì di sapere come e dove De Mauro venne ucciso. Secondo la sua versione il caso Mattei non c'entrava nulla e il vero movente era il golpe Borghese.
De Mauro avrebbe scoperto che si stava preparando un colpo di Stato, al quale doveva partecipare attivamente anche Cosa nostra. Secondo il pentito, il cronista quella notte fu portato in una masseria nel rione di Santa Maria del Gesù. Fu torturato e interrogato per sapere a chi aveva rivelato il segreto.
Poi fu strangolato e sepolto lungo il letto del fiume. Le ricerche sul luogo indicato dal pentito, tuttavia, non dettero alcun esito e la ricostruzione di Di Carlo non convinse i giudici di primo e secondo grado.
Quindi il processo per l'omicidio del cronista che vedeva imputato Totò Riina si chiuse senza colpevoli. A gennaio del 2014, la Corte di assise di appello di Palermo confermerà l'assoluzione, sentenza poi ribadita dalla Cassazione nel giugno del 2015. Ad oggi quindi nessuno è riuscito a far chiarezza sulla sua scomparsa che rimane uno dei tanti misteri del nostro Paese.

L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso


L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso

L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso
Noemi Durini, la 16enne uccisa dal fidanzato (ansa)
La 'nera' tra tv e giornali. Quello di Noemi Durini è soltanto l'ultimo caso della deriva di un certo tipo di giornalismo italiano


È ODIOSA la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, “anzi no, era un coltello”. Ora al pantografo sono finite le ferite, il sangue e la lama affilata. Ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti.

È un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: «Non ne facciamo il nome» dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia.

Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di Chi l’ha visto? ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: «Ancora non sapevano che il figlio avesse confessato». Il padre, che è indagato, dice allora « bedda mia », si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: «Hanno creato un mostro» grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona a una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta «ora siamo morti» e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale.

È vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. È insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi...

Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze. Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento.

Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris... Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo- immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi — nel 2003! — «danno un rilievo altissimo ai fatti di violenza», eccedono, insistono, scavano con un furore che «finisce per dare a quei drammi una valenza esemplare che essi sicuramente non hanno», e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi, «un grave attentato alla dignità umana».

Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea “neutrale”, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili.

Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per “necessità di sapere”, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà.

Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

giovedì 14 settembre 2017

Non solo "Ius soli" da leggere...

Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti


Dunque la legge sullo Ius soli non si farà. E così arriva a compimento, per questa fase, quello spostamento di opinione pubblica che lega ormai immigrazione paura e sicurezza, coltivato e concimato da mesi di predicazione dei partiti delle ruspe, senza che la sinistra sapesse opporre una visione diversa del fenomeno, basata sulla realtà dei fatti, mentre il centro rinuncia alla tradizione italiana del solidarismo cristiano, e i Cinquestelle rivelano qui più che mai la loro natura di ibrido politico, con una postura di sinistra e un’anima di destra.

Prima si ingigantisce un allarme sociale, invece di governarlo. Poi i partiti si adeguano a quel clima, senza razionalizzarlo. Infine nascono le misure conseguenti, gregarie, con la politica che rinuncia a ogni sua autonomia di giudizio, di indirizzo e di responsabilità rispetto al senso comune dominante.

Ci sono certo differenze di metodo, di linguaggio e di tono, nel panorama politico italiano. Ma non c’è una vera differenza culturale, un’opzione responsabile come quella di Angela Merkel, che guidi un’opinione disorientata invece di inseguirla, come se la politica fosse un fascio di foglie al vento.

Bisogna avere la pazienza di leggere dentro la paura, come fa Ilvo Diamanti. È la nuova cifra dell’epoca. Nasce con ogni evidenza dal passaggio di fase che stiamo vivendo, ben più ampio del fenomeno migratorio: una crisi economica che non è un tunnel da attraversare sperando di rimanere indenni, ma un agente sociale che modifica i percorsi individuali e collettivi, le gerarchie, persino i sentimenti (la nuovissima gelosia del welfare), deformando le aspettative di futuro. Una crisi del lavoro più lunga della bufera finanziaria, che per la prima volta produce in alto e in basso nelle generazioni una vera e propria esclusione sociale, vissuta come l’inedito di una mutilazione della cittadinanza.

Un terrorismo che ideologizza la religione riportando gli omicidi rituali nel cuore dell’Europa. Uno scarto tra la dimensione mondiale delle emergenze e lo strumento della politica nazionale, l’unico che il cittadino conosce e a cui è abituato a rivolgersi. Col risultato inevitabile di una crisi della democrazia che lascia scoperti i non garantiti, producendo vuoto nella rappresentanza, solitudine repubblicana, secessione individuale nell’altrove, che è un luogo frequentato ma immaginario della politica.

Tutto questo si riassume nel sentimento impaurito di perdita di controllo del mondo, di mancanza di ogni governo dei fenomeni. È un sentimento da fine d’epoca, quando si smarrisce la fiducia nella storia, si vive ipnotizzati dal male nel mondo, si rifiuta la conoscenza e si respinge la competenza perché si privilegia l’artificiale sul reale e si sceglie istintivamente ciò che è nocivo, come diceva Nietzsche, ci si lascia sedurre da motivazioni senza un fine, in un clima di precarietà comunitaria, crepuscolo politico e decadenza civile facilmente abitato da moderni mostri come la fobia dei vaccini, o da antichi incubi che tornano, come la bomba.

Proprio la fusione tra l’angoscia primordiale e il timore del contemporaneo genera la sensazione che stia venendo meno la stessa concezione di progresso, cioè il tentativo di controllare il divenire del mondo, di superare il limite regolandolo, suprema ambizione della modernità, scommessa costante della democrazia. Come se ci accorgessimo che tutta l’impalcatura culturale, istituzionale, politica, diplomatica inventata per tutelare il complesso sistema in cui viviamo non ci protegge più, perché il meccanismo gira a vuoto. La regola democratica non basta a se stessa.

Naturalmente il venir meno della politica ha una conseguenza evidente nel sociale. Il primo effetto dell’indebolimento di governo è l’autorizzazione spontanea a pensare ognuno a se stesso, liberi tutti. Si sta realizzando la profezia della Thatcher sulla società che non esiste, ma non attraverso l’affermazione dell’individuo, bensì col venir meno di ogni spontanea obbligazione di responsabilità generale, da cui nasce l’ultima forma di solitudine, con lo Stato e il cittadino indifferenti l’uno all’altro come una vecchia coppia in crisi, con ogni passione spenta. Ognuno sta solo sul suo pezzo di destino, esclusivamente individuale. In più il ricco per la prima volta può fare a meno del povero, che intanto è già diventato qualcos’altro in attesa di definizione, perché è finito fuori dalla scala sociale, da una autonoma condivisione d’orizzonte che teneva insieme i vincenti e gli sconfitti.

Alla fine, sotto i nostri occhi sta mutando lo stesso concetto di libertà, che si privatizza in un nuovo egoismo sociale: sono libero non in quanto sono nel pieno esercizio dei miei diritti di cittadino, ma al contrario sono libero semplicemente perché liberato da ogni dovere sociale, da ogni vincolo con gli altri, da ogni prospettiva comune, verso cui ciascuno può muoversi con le sue forze, i suoi meriti e le sue fortune, ma sapendo di non essere solo.

C’è da stupirsi che l’onda alta delle migrazioni, il ritardo multiculturale italiano, l’esposizione geografica del nostro Paese, l’indifferenza dell’Europa abbiano indirizzato verso i disperati dei barconi questo sentimento smarrito, trasformandolo immediatamente in risentimento? La paura cercava un bersaglio capace di riassumere l’indicibile e l’inconfessabile, cumulandoli. Lo “straniero”, il visitatore, il diverso sono già stati più volte al centro di costruzioni ideologiche, menzogne sociali, istinti trasformati in politica. In questo caso la persona ridotta a corpo, il corpo ridotto a ingombro, l’ingombro ridotto a numero, funzionano alla perfezione. Tutto diventa simbolico, fantasma sociale, incubo politico. La dimensione concreta del fenomeno, la sua governabilità su una scala europea e anche su una scala nazionale, non contano più nulla. Non si fa politica sui migranti, ma sulla loro proiezione simbolica, sul plusvalore prodotto dalla paura.

È chiaro che alle paure la politica deve rispondere, ma restituendo proporzioni corrette al fenomeno, cacciando i fantasmi con la realtà. E la sinistra deve farlo per prima, se è vero quel che diciamo da tempo e che oggi certifica Diamanti, e cioè che l’inquietudine cresce nelle zone più deboli del Paese e nelle parti più fragili della popolazione, con gli immigrati percepiti come un pericolo principalmente da chi ha un basso livello d’istruzione (il 26 per cento di “paura” in più di chi ha un livello alto), e probabilmente da chi vive solo, in piccoli centri, magari non è mai uscito dai confini del Paese e si trova un mondo rovesciato nei giardini sotto casa, senza gli strumenti per padroneggiarlo, senza la costruzione di un contesto dove sistemarlo e senza più la speranza di governarlo.

La paura, l’insicurezza non sono necessariamente un fattore di ordine pubblico: spesso in questi casi nascono dal timore della rottura dei fili comunitari di esperienze condivise, che basta per farti sentire risospinto ai margini in casa tua, spossessato, geloso del panorama civico abituale, dei riferimenti consolidati, del deposito di una tradizione comune: una piccola rottura della storia domestica. Su questo disorientamento bisogna chinarsi, raccoglierlo, trovare il bandolo di un percorso per uscirne, emancipando i penultimi dalla paura degli ultimi.

Questo è il modo per non lasciare alla destra le parole dell’ordine e della sicurezza, che sono di tutti, in uno Stato democratico. La sinistra ha un dovere in più, perché deve collegarle al concetto di solidarietà e di integrazione, che viene dalla sua storia, e risponde alla sua natura. Tenere insieme legalità e solidarietà, ordine e integrazione è l’unico modo concreto per garantire davvero sicurezza e combattere la paura. È anche il modo migliore per tutelare la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, invocata a vanvera. Perché era costruita con questi semplici strumenti, non con una ruspa.