venerdì 22 settembre 2017

Eric Clapton ieri e oggi "Niente più tour, mi ritiro l'era della chitarra è finita"
TORONTO
«MI RITIRO». Esordisce così Eric Clapton, 72 anni, quando lo incontriamo tra Chinatown e il Fashion District per presentare il suo documentario, Life in 12 bars.
«Sì, smetto di suonare. Mi restano altri quattro concerti, poi chiudo bottega». Il chitarrista inglese nasconde le mani nel taschino di una giacca nera, due anelli al dito. Gli occhiali come oblò. Poi sorride: «Quante volte avrò detto addio alle scene?». Ci pensa su. «La prima, se ricordo bene, a 17 anni».
Ma fa sul serio stavolta? «Andare in tour è diventato insopportabile. Forse non sono io, è la chitarra ad aver dato tutto. Fine dell'epoca a sei corde». In un film che copre vita e carriera di Eric "mano lenta" Clapton, l'uomo del Blues sembra farsi in mille pezzi, consegnando personalmente fuori scena, fotografie, pagine di diario, lettere scritte a mano, clip e memorie a Lili Fini Zanuck, regista e produttrice (un Oscar per A spasso con Daisy). E parla a ruota libera dello stato di salute dell'industria: «Non sono rassegnato né mi dà fastidio l'idea che questa sia la fine del rock» dice. «Se mi chiedete cosa pensi del mercato digitale, cascate male. Sono fuori dal giro, non so che succede. Ma ho fatto un lavaggio del cervello preventivo alle figlie. Per questo, loro, amano ancora il suono della chitarra elettrica».
Stando a un articolo del Washington Post, le vendite di chitarre sarebbero scese da un milione e mezzo l'anno a un milione, mentre i grandi produttori, Gibson e Fender, stanno attraversando una brutta crisi finanziaria. Clapton usa spesso la parola "odissea" per parlare di Life in 12 bars (lo distribuirà Lucky Red a dicembre). Il documentario lo ritrae nei momenti energici e in quelli più cupi, senza censure o manomissioni; dalla morte di Conor, 4 anni, figlio di Clapton e Lory Del Santo, volato giù dal cinquantatreesimo piano di un grattacielo nel '91, ai ricoveri per alcol e droga, a un lungo braccio di ferro con la depressione.
È stato Clapton a dare il via al progetto, accompagnato da interviste e materiale d'archivio di chi l'ha conosciuto meglio: B.B. King, Jimi Hendrix e George Harrison, tra gli altri. «Il blues per me è una questione personale » spiega. «È sempre stata la mia chitarra contro il mondo». Cinquant'anni di dischi e band, tra The Yardbirds, Cream, John Mayall & the Bluesbreakers, Blind Faith, Derek and the Dominos, e i suoi anni da solista, fino alla genesi di For your love, Layla e Tears in heaven.
Nel film si raccontano episodi curiosi, soprattutto nella prima parte: come quando Clapton entrò a far parte degli Yardbirds come rimpiazzo alla chitarra, poi li mollò proprio mentre usciva l'album For your love (1965), convinto che si stessero svendendo. John Mayall, il guru del blues inglese, gli diede la caccia per tutta l'Inghilterra e lo reclutò nei Bluesbreakers; finirono per provare e suonare insieme così spesso che Clapton si trasferì a casa dello stesso Mayall.
«Quando ho visto e riascoltato le mie interviste, mi sono reso conto di quanto fossi pomposo da giovane» dice imbarazzato. «Tutto quello che usciva dalla mia bocca era chiacchiera. Per me è difficile riguardarmi. Forse vale per tutti noi: quando si è giovani domina un certo livello di arroganza, un generico "So tutto io". Non appena invecchiamo, ci rendiamo conto di non sapere nulla». Al concetto di verità, Clapton è attentissimo: «Volevo un film sulla mia vita mentre ero ancora tra voi. E non da morto. Ci ho messo tutta la mia integrità ». Clapton definisce Life in 12 bars un testamento biografico e musicale: «Non ho toccato alcol per tanto tempo e, per i primi dieci anni di quel periodo, gran parte del mio modo di pensare e vedere le cose è stato alterato, è cambiato». Prosegue: «Dopo essere diventato padre (il musicista ha quattro figlie: Julie Rose, Ruth, Sophie Belle e Ella May, ndr), una forma di disperazione mi ha sopraffatto. Ho preso atto delle responsabilità nei riguardi della mia famiglia. Ecco, il mio vero lascito sono loro, le persone che amo. Mi sta ancora stretto il fatto che il mio comportamento pubblico abbia un impatto sulle vite degli altri. Ci sto lavorando. Il mio impegno e la devozione verso la musica sono indiscutibili. Mi sono sempre considerato un portavoce».
Da autentico messaggero, la rock legend si augura che il suo film faccia il giro del mondo: «Voglio mostrare a tutti che, sotto tutto quel casino, sono, ragionevolmente, un bravo essere umano».
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IL BLUES
Per me è una questione personale: la sei corde contro il mondo

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