mercoledì 29 marzo 2017

Musica, se il valore del cambiamento sono ancora i vecchi miti

Per il Wall Street Journal l'industria vive grazie a Springsteen, Rolling Stones e gli altri "Magellano del rock". Arrancano i giovani. Manca il ricambio. Perché tutto è già stato inventato, azzardato e trasgredito. L'analisi.


Iggy Pop spunta fuori dalle quinte attaccando Lust For Life. La banda la guida Josh Homme dei Queen Of The Stone Age, ma la stella è solo lui. Ed è ancora buono, dannazione, anche se i pettorali cedono e la pelle dei bicipiti è una bandiera al vento. Ha 70 anni. Stringe il cuore questo non arrendersi, patetico se vuoi, ma che altro potrebbe fare uno che da ragazzo usciva in un lago di sangue, il suo sangue, e brani di carne gli penzolavano dal petto come un orrendo albero di Natale umano? Che altro potrebbe fare un vecchio ragazzo se non suonare in una rock and roll band, macabro burattino condannato a danzare fin oltre la sua morte?
LA NOVITÀ È IL VECCHIO. Tocca ancora a loro, ricambio non ce n'è. Passano come meteore le nuove sensazioni e si ritorna sempre alla novità del vecchio, al brivido di quelli che hanno inventato tutto. Che succederà dopo la fine di Iggy, di Keith, di Mick, di Pete e di quanti si ostinano ancora a difendere la loro ultima offesa, quella alla legge di probabilità, quella al tempo “che non aspetta nessuno”?
PIÙ NULLA DA SCOPRIRE. Anche Chuck Berry, il padre di tutti loro, 90enne s'è arreso, ed è sicuro che continuerà a vivere nelle illusioni e nelle scariche elettriche di ogni ragazzino che per la prima volta imbraccerà una chitarra, ricominciando tutto da capo e credendo di essere il solo al mondo a provare quella scarica elettrica nelle gambe. Ma sempre a loro, ai dinosauri si tornerà. Perché da inventare, da scoprire non sembra essere rimasto più niente. Anche i nuovi padrini del neofunk, dell'hip hop da XXI secolo non vanno forse a reclutare George Clinton dei Parliament e i Funkadelic?


Non è tanto un fatto di omaggio per le radici. È la consapevolezza che quel tempo musicale era un'altra cosa e i motivi li conosciamo, le differenze sono fin troppo conclamate: non si usciva da una lunga pace narcotica, ma dalle macerie di una guerra globale; c'era una gioventù spaventata e arrabbiata che non intendeva assolutamente sedersi nei posti che la società della ricostruzione industriale aveva già apparecchiato per loro; quella gioventù si contagiava a vicenda, suonando, sperimentando, impazzendo.
IL MERCATO ERA VERGINE. La società non era preparata e perse la sua battaglia frontale nel vano tentativo di arginare una musica che intanto la cambiava; il mercato era vergine, e seppe attrezzarsi in modo lungimirante e cinico, trasformando ben presto le istanze sovversive e antagoniste in una forza di penetrazione commerciale (il rock ha sempre vissuto nel sospetto di non essere, al fondo, che una grande truffa).
SPAZIO OGGI PROSCIUGATO. C'era, insomma, spazio per sfondare. Oggi ogni spazio sembra essersi prosciugato e il Wall Street Journal, sorprendentemente, si è appena preoccupato per la faccenda, anche se non da una prospettiva epica-sentimentale, quanto da quella che gli è più congeniale, quella dei soldi: quali saranno, si chiede il prestigioso foglio finanziario, le conseguenze economiche di una Spoon River in progress che ogni anno segna decessi prestigiosi nel mondo delle rockstar, atteso che gli epigoni non riescono neppure a sciogliere loro i lacci dei calzari?
Uno come Justin Bieber, pur suonando il doppio, alla fine incamera meno della metà di un Bruce Springsteen

Il rock, o se si preferisce la musica commerciale, finirà proprio per mancanza di industria, secondo il Wsj che ha fatto qualche calcolo in tasca agli artisti accorgendosi, per esempio, che uno come Justin Bieber, pur suonando il doppio, alla fine incamera meno della metà di un Bruce Springsteen. La testata finanziaria tenta di individuare le cause di questo tramonto, che ha molto di generazionale: intrattenimento più diversificato, fondamentale impotenza delle radio nel lanciare le nuove big things, scarso sostegno delle case discografiche (ormai ridotte, potremmo aggiungere, al ruolo di filiali di concentrazioni multinazionali assai più estese).
WSJ, POCO OLTRE I NUMERI. Tutto molto giusto, ma in fondo è come dire che i tempi sono cambiati perché i tempi sono cambiati, una spiegazione tautologica che analizza molto, però non spiega granché. È il difetto dei contabili, che oltre le tabelle dei numeri non vanno. Invece c'è molto di più.
I MITI AVIDI, CRUDELI E INETTI. C'è, appunto, il lato romantico. C'è che questi vecchi ragazzi erano avidi, superficiali, depravati, crudeli, spesso inetti in tutto ciò che non fosse fare spettacolo su un palco. Però erano anche devoti a quello che facevano, alla fine la (stupefacente) musica che creavano, che incarnavano, restava in cima alle priorità. «Ci sentivamo come dei Magellano del rock, volevamo circumnavigare gli oceani», ha detto una volta Keith Richards.

Keith Richards

Molti ci hanno lasciato la pelle, in questo gioco che non era un gioco. Poi, d'accordo, il Wall Street Journal della situazione potrà bene osservare che, d'altra parte, c'erano un mercato e una società aperti, permeabili che consentivano tutto questo. Ma è solo un ribaltare la comprensione dei fatti. Il gioco di ogni civiltà è questo, permettere a chi la cambia di cambiarla e insieme assorbirlo, cambiare chi la sta cambiando.
C'ERA UNA VOLTA IL CARISMA. I fattori autentici erano altri. Erano che questi ragazzi furono musicisti empirici, in grado di inventare i loro stili, assai meno preparati tecnicamente dei successori, ma proprio per questo capaci di cogliere le sfumature, le note giuste, l'approccio sul palco di ciò che andavano elaborando. Avevano, insomma, la sensibilità giusta e quel che si chiama carisma, la componente fondamentale di qualsiasi fenomeno. Senza carisma non c'è niente, la stessa musica non sa di niente. Bravi si diventa, artisti si nasce.
QUEL SENSO DI "PERICOLOSITÀ". L'altra faccia del carisma era, e resta, il legame profondo, onesto nel mare di infamia e di ferocia, tra quello che suoni e quello che sei. «Il rock, per essere davvero tale, deve essere pericoloso», ha spiegato Mick Jagger. Quel senso di pericolo per cui andavi a un concerto e non sapevi come ne saresti uscito e non sapevi cosa sarebbe accaduto lì davanti, sul palco. Erano giovani che a 25, 30 anni spesso erano bruciati, dovevano già rinascere dalle proprie ceneri e lo facevano con durezza, con violenza, ma senza smettere di credere a una illusione. Erano pericolosi sul serio, non c'era tutto quel politicamente corretto a fasciarne le ali.
Il fattore trasgressivo è stato svuotato da dentro, vuoi perché i dinosauri hanno praticamente violato e trasgredito tutto il possibile, vuoi perché gli artisti di oggi non si azzardano più

Oggi di pericoloso, per dire di mortalmente vitale, si stenta a riconoscere perfino le tracce. Lo stesso fattore trasgressivo è stato svuotato da dentro, vuoi perché i dinosauri hanno praticamente violato e trasgredito tutto il possibile, e anche molto oltre, vuoi perché gli artisti di oggi non si azzardano più: gli unici messaggi eversivi sembrano concentrati in una matrice sessuale sempre meno oscena, nell'accezione che ne dava Carmelo Bene, “fuori dalla scena”, e sempre più pornografica-pubblicitaria fine a se stessa.
SE OGNI TRASGRESSIONE È DIRITTO... Ma per quanto possa spingere sull'eccesso visivo-sessuale, ogni epifania viene riassorbita in una teoria dei diritti secondo la quale ciascuno deve poter essere chi è, oppure chi vuole essere, oppure chi pretende di essere. Se ogni trasgressione finisce in diritto, siamo rovinati, la società comandata dai dei vecchi bastardi non si muove più e questo è uno dei drammi non solo del rock, ma della vita associata in genere.
NESSUNO VA OLTRE I PROPRI LIMITI. Gli artisti attuali sembrano averlo intuito, e stanno bene attenti a non disturbare un manovratore che, d'altra parte, non ha alcun timore di essere disturbato: eccoli lì, tutti in fila per tre, col resto di due mentre organizzano eventi sociali, twittano cose giuste, si spendono per campagne umanitarie, solidali, più diritti per tutti: tutto molto bello, ma che rockstar sei? Se non vai oltre i tuoi limiti, giocandotela per la vita, cosa lasci in eredità?

Bruce Springsteen.

Il Wall Street Journal della situazione non può capirlo questo e invece il punto sta qui, come un colossale rimorso virtuoso. E ricambio non c'è; c'è solo una noia colossale da questi mestieranti che non sono artisti, sono compagnie, sono intraprese, sono nati multinazionali senza mai essere passati per lo stato dell'arte. Innocui anche nel vizio, salici piangenti che vendono tanti dischi ma per una stagione o due, poi vanno in pezzi e non c'è epica da raccontare in loro, non c'è proprio un racconto: può occuparsene un Wall Street Journal, perché sono solo materia per conti, fatturati e bilanci.
CI INSEGNANO ANCHE LA MORTE. Sono velociraptor avidi, ma vivono poco. E i dinosauri restano, e resteranno anche quando si saranno tutti estinti. Questi vecchi ragazzi hanno insegnato al mondo come essere giovani, e poi come essere vecchi: adesso ci insegnano la morte, e la sopravvivenza dopo la morte. Dopo di loro il diluvio, dopo di loro il deserto. C'è una nuova serie poliziesca, in televisione, si chiama Prime Suspect 1973, è inglese, tratta dal romanzo Tennison di Linda la Plante, è ambientata nel '73 e la prima sequenza del primo episodio si apre sulle note di Can't Find My Way Home cantata da Joe Cocker. Lo capisci subito che sta arrivando qualcosa.

domenica 26 marzo 2017

Il M5s ha messo in pratica un antico principio di Stalin

L'autocrate russo diceva che «la gente che vota non decide le elezioni. Le decide la gente che conta i voti». Ovvero Grillo. È questo l'interlocutore che vogliamo per la sinistra?




Stare “a sinistra” è una scelta di vita, la garanzia di un impegno, a volte quasi un pennacchio. Insomma, per alcuni una categoria dello spirito. Essere “di sinistra” dovrebbe risultare ormai una espressione dal significato tutto pratico. I picchi ideologici, credo ergo sum, dovrebbero appartenere al passato. Essere di sinistra dovrebbe più semplicemente indicare la preferenza, di norma, per certe soluzioni invece di altre. Un metodo, non una fede. Chi crede nella superiorità sempre della “sinistra” è rimasto, senza saperlo, nel cono d’ombra del Breve Corso di Stalin sulla storia del Pcus, testo fondamentale un tempo: abbiamo scoperto le leggi della Storia e della Rivoluzione, diceva. Oggi, le leggi della società più giusta. A volte la si trova, a sinistra, la società più giusta, e a volte no.
L'ETERNA RICERCA DELLA SINISTRA. Comunque, dichiararsi “a sinistra” ha fatto per due generazioni più rango che scandalo. La recente scissione in seno al Pd e la nascita dell’Mdp è anche frutto della perenne ricerca di questa “sinistra”. Nobile per definizione. La sinistra dell’era moderna parte dal 1789 della Rivoluzione francese, esplode nel 1848, si diffonde con l’industrializzazione, arriva al “socialismo o barbarie” di Rosa Luxembourg (1916), si incarna nella Russia sovietica, soffre le delusioni dei processi staliniani degli Anni 30 e 50, dell’Ungheria, di Praga 1968 e giù fino al 1989 e poi ai nostri giorni.
OGGI SONO TUTTI SOCIALDEMOCRATICI. Diverso da fine 800 il percorso della socialdemocrazia, alla quale tuttavia la “sinistra” ha fino a ieri negato ogni legittimità, e riservato ingiurie che chi non conosce la storia fatica a immaginarsi. Oggi sono tutti socialdemocratici. Si arrivava, alla fine, molto lontano rispetto agli entusiasmi dell’inizio, quando Leon Trotsky poteva scrivere in Letteratura e rivoluzione (1924) che l’«uomo nuovo» diventerà con il comunismo «…incomparabilmente più forte, saggio, acuto… L’uomo medio raggiungerà la statura di Aristotele, Goethe, Marx. A quote ancora più alte s’ergeranno nuove vette!». Ebbero, invece, Trotzky una picconata in testa e la Russia Stalin, che quella picconata fece dare, e Zdanov, Lysenko, Yagoda e giù giù fino a Beria e oltre.


Lo storico francese Marcel Gauchet sostiene che il significato delle parole "sinistra" e "destra" si è cristallizzato in politica durante la Restaurazione per esplodere poi con l’anno delle rivoluzioni liberali, il 1848. Questo dopo che i termini "destra" e "sinistra" erano comparsi banalmente per indicare la disposizione, rispetto al presidente sullo scranno, dei membri dell’Assemblée Nationale nell’estate 1789 a Parigi, con nobiltà e clero a destra e terzo stato a sinistra. Da allora la parola gauche ha avuto un suono ancora più cristallino del nostro "la sinistra" o degli inglesi e tedeschi the left e die Linke.
I REDUCI DEL 1848. Dei reduci del 1848 faceva un ritratto caustico nelle sue Memorie Alexander Herzen, riconosciuto da Lenin come padre dello spirito rivoluzionario russo. Ma Herzen, brillante e poco incline a filosofeggiare, giudicava le idee astratte dai risultati concreti (per questo osteggiò sempre Marx) e non le amava troppo. «Nel caffè c’erano diversi habitués della rivoluzione... Erano gli eterni corteggiatori della Penelope rivoluzionaria – così descrive una visita al parigino Café Lamblin nel giugno del 48 -, queste inevitabili figure che hanno un ruolo in ogni dimostrazione popolare e ne compongono il tableau, lo sfondo, e che già da lontano sono minacciosi come i draghi di carta con cui i cinesi speravano di intimidire gli inglesi». Herzen osservava anche come la «giovane generazione è colpita dalla facilità, l’apparente facilità, con cui si diventa celebri e si emerge al vertice in tempi rivoluzionari…».
SIAMO AL TODOS CABALLEROS. Ricorda qualcosa dell’Italia di oggi, dei Di Maio, dei Di Battista e altri, tutti sotto l’ala paterna di Beppe Grillo, il leader (pardon, garante) che ha detto adesso al Corriere del Ticino «più mi trasformo e più sono me stesso», cosa che in quel di Genova si sa benissimo, nel senso che Grillo, se fa la frittata, poi sparisce, in una trasformazione continua. La vera sinistra dovrebbe avere senso della politica e se invoca un cambio drastico di personale (ma non erano spesso anche loro al potere e quindi da cambiare?) deve sapere con chi sostituirli. Di Maio? Di Battista? Possiamo anche decidere che siamo al todos caballeros, ma un grande Paese non può fare un tal salto nel buio. Decidiamo pure che i “vecchi” non vanno bene. Ma i nuovi? Fra chi sostiene la perfetta credibilità dei citati deputati grillini alla guida di un governo scatta un meccanismo di autoidentificazione: in molti avvertono nello zaino la presenza del bastone da maresciallo.



È qui che un certo malsano modo di intendere la sinistra interviene e dice che i nuovi, in quanto nuovi per il nuovo e decisi a rinnovare (come? con chi?) sono solo da questo giustificati e garantiti. «Noi vi sconfiggeremo perché voi siete il vecchio, noi il nuovo», dice ora Grillo al Pd. Affascinato dalla loro accreditata forza elettorale, persino Pier Luigi Bersani guarda ai 5 stelle in nome di una “sinistra” superiore di rinnovamento. Vede i 5 stelle come «partito di centro dei tempi moderni». Di centro? Un centro tutto di democrazia diretta, senza rappresentanze, e con il cuore e la testa nel web dove il popolo parla mentre i leader (pardon, portavoce) ascoltano? Ma lo sa Bersani che la democrazia diretta, salvo che in un villaggio sulle Alpi, porta a solo caos o autoritarismo? O non sono i 5 stelle già all’autoritarismo con Grillo decisore supremo e inappellabile?
LE SOLUZIONI MIRACOLISTICHE DEL M5S. Bersani si è allevato nel gerarchico e antipopulista Pci, utilizzatore però di un populismo sfrenato tutto strumentale a demolire il capitalismo e a creare l’ordine nuovo. Ad esempio, quando predicava che in Siberia a 50 sottozero crescevano mele e pere magnifiche, ribes grandi come ciliegie e lamponi giganti (l’Unità, 20 gennaio 1948, p.3). Forse Bersani ha dimenticato queste cose, e quindi si appella ai 5 stelle per fare argine «al populismo» a suo avviso solo di destra. Sarebbe come fondare un centro anti-alcol in un’osteria. Forse Bersani non ha capito che i 5 stelle sono un po’ di sinistra e un po’ di destra, ma certamente sono populisti, cioè per soluzioni facili e miracolistiche a problemi difficili la cui colpa è sempre degli altri. «Nel paese che ho girato / Più di un gonzo ho ritrovato», dice il Dulcamara ne L’elisir d’amore.
STALIN TORNA DI MODA. Bersani si sente a sinistra, con i grillini. Con le masse. È un riflesso della purezza dell’idea cui manca però ogni garanzia di saggezza ed efficacia della politica. Può darsi sia questa la sinistra oggi. Con il web e le votazioni via web, le leggi montate e valutate in Rete con il concorso del popolo grillino (una delle prime pronte è per la riapertura delle case chiuse, antica aspirazione italica). È un mondo che certamente ha messo bene in pratica un antico principio di Stalin, come noto in ritorno di popolarità, convinto da sempre che «la gente che vota non decide le elezioni. Le decide la gente che conta i voti». Cioè, nei 5 stelle, le decide come si è visto Grillo.

sabato 25 marzo 2017



24 marzo 2017

Il pericoloso contributo di Razzi alla narrativa di Mosca

La propaganda di Putin fa man bassa della visita del senatore e del sedicente deputato Bertot alla corte di Assad: «Presto il tricolore italiano a fianco del nostro nelle strade della Siria», dice la tivù di Stato russa.


da Mosca
C'è poco da ridere. Aleppo è una cosa seria, e la diplomazia è una cosa seria. Non ci rimettiamo solo i soldi del suo sontuoso stipendio e un poco della nostra già non brillante immagine: con i comportamenti tenuti e le dichiarazioni fatte durante la visita in Siria e Mosca alla vigilia di un nuovo round dei negoziati di Ginevra sulla Siria, il senatore Antonio Razzi ha aiutato direttamente la politica estera russa a scapito di un processo di pace peraltro già fantasma, e anche degli interessi italiani nella regione. Non ci venga a dire che non se ne è accorto e che semmai non l'ha fatto apposta.
TESTIMONIAL DI INTERESSI ALTRUI. Non faccia dei suoi limiti intellettuali una scusa, e della sua presunta ingenuità una bandiera. O comunque non la mescoli alla bandiera dell'Italia, please. Razzi deve tutto alla crisi morale e alla mancanza di serietà del nostro povero Paese. Ne sia cosciente e resti sobrio. E se ne stia a casa, che così evita di far danni. Liberissimo di contestare e anche di boicottare la nostra diplomazia. Ma non di fare il testimonial più o meno involontario di interessi esclusivi altrui in contrasto con i nostri, o con i diritti umani che Costituzione, trattati e jus cogens riconoscono e garantiscono.
TRA I RAMBO DELL'FSB. Con sorriso furbetto Razzi quatto quatto si accoccola contro lo spetsnaz, alza il pollice e si fa fare una bella fotografia. Come i turisti con le guardie della regina a Londra. Lo spetsnaz è delle forze speciali siriane. Imbraccia un fucile AK 74, un balalclava nero gli copre la faccia. Ma non ha proprio l’aria di un Rambo. I Rambo veri, i russi dei gruppi Alpha e Vympel dell’Fsb - l’ex Kgb - sono lì vicino ma hanno da fare: proteggere i parlamentari della Duma e la "delegazione di parlamentari europei" (invitati personalmente dal Cremlino, delegati da nessuno, e almeno in un caso nemmeno parlamentari) appena arrivata ad Aleppo. Azzerare ogni minimo rischio. E comunque, i Rambo veri dell’Fsb certo non si metterebbero in posa per i turisti.
Aleppo, l'orgoglio nazionale del senatore Razzi (Vremia).
In strada, qualche decina di civili alza grandi ritratti di Bashar al Assad e sventola bandiere tricolore: il bianco, rosso e azzurro della Federazione russa e il bianco, rosso e nero della Siria. Quelli siriani sono anche i colori del nazionalismo arabo, un vecchio sogno la cui frattura a pensarci bene è all’origine di tutto questo disastro. Sono i soldati a distribuire bandiere e bandierine. Gli sbandieratori sono comparse appositamente istruite. Si capisce anche dalle facce poco allegre. Due ragazzi si sono arrampicati sulle macerie e adesso guardano. Non fanno parte della kermesse. Magari ci si poteva guadagnar qualcosa. Sembrano perplessi.

IL COMPAGNO BERTOT. Fuori da una scuola e di fronte alle telecamere, soldati russi distribuiscono giocattoli ai bambini. Dentro, Razzi fotografa il compagno di viaggio e di partito Fabrizio Bertot in un’aula affollata e canterina - con la maestra a dirigere il coro da sotto il velo. Razzi poi viene intervistato e dice cose poco comprensibili, sia in italiano che nella traduzione. Vuol significare, credo, che solo visitando Aleppo come ha fatto lui con la comitiva organizzata dal MinOborony (il ministero della Difesa russo) si può davvero capire il conflitto siriano, e che appena arriva a casa potrà spiegare tutto per bene a noialtri ignari.

«ALEPPO COME AMATRICE». Bertot, intervistato non si capisce perché ("deputato del parlamento italiano" secondo il sottopancia: evidentemente così si è presentato), dice invece al giornalista che le macerie di Aleppo gli ricordano tanto quelle di Amatrice, e che solo dopo il recente terremoto italiano ha visto un simile orrore. Aggiungendo che l’Europa deve muoversi come si è mossa per soccorrere Amatrice. Pur essendo un "esperto di politica estera" (così si autodefinisce Bertot nelle interviste e sui social), non si rende conto che paragonare le due situazioni è a dir poco surreale. Ma se proprio vuol fare un paragone, eccolo: andare ad Aleppo in una visita guidata dai militari di Mosca è come andare ad Amatrice con un inclusive tour organizzato dal Terremoto in persona.
Fabrizio Bertot intervistato da "Vremia", il telegiornale del Canale Uno della Federazione Russa.
Il lungo servizio che vi stiamo raccontando, trasmesso il 22 marzo nell’edizione delle 21 del tg della tivù di Stato russa Canale Uno, si conclude con un altro cammeo del purtroppo nostro Razzi: foto con un siriano che indossa una tuta della Nazionale di Baggio e Maldini. Il senatore cede all'orgoglio patriottico. Il reporter chiosa: "Il popolo siriano ringrazia Mosca sventolando la nostra bandiera, ma sarebbe certamente contento se per le strade di Aleppo, accanto al tricolore russo, un giorno sventolasse - per esempio - anche quello italiano”.

DANNI PER L'ITALIA. Da noi si è parlato solo del selfie con Assad, e lo si è giustamente stigmatizzato. Inutile ripetere che questo Razzi lo paghiamo 12 mila euro al mese, e che non fa più ridere, e per favore Berlusconi fermalo una volta buona. Vale la pena però di sottolineare qui come i danni di questo viaggio alla corte del dittatore mediorientale, o meglio dei suoi burattinai del Cremlino, vadano al di là di una foto inopportuna. I danni diretti, come la foto col tiranno, sono inevitabili se si sparano due politici del calibro di Razzi e Bertot oltre frontiera. Ma son danni soprattutto di immagine. Il problema sono i danni collaterali. Che poi, fuor di metafora, spesso non sono che obiettivi primari inconfessabili - nelle guerre. I danni collaterali qui son tutti per la politica estera dell'Italia. Danni lievi, tuttavia danni.

LA STRUMENTALIZZAZIONE DI MOSCA. Non so se fosse il loro obiettivo primario né quanto se ne siano resi conto, ma i nostri eroi con la loro gita in Siria hanno molto aiutato la propaganda, e quindi la politica, di Vladimir Putin: da due giorni i telegiornali governativi russi hanno interminabili pezzi sulle imprese loro e dei compagni di viaggio. Si spera - dicono i servizi - in un futuro allineamento di almeno alcuni Paesi europei alle posizioni di Mosca sul conflitto siriano e sulle crisi mediorientali e nordafricane. Ora, il fatto è che la nostra politica estera in quella parte del mondo è alle prese con una situazione parecchio delicata, che le parole e gli atteggiamenti di Razzi e del "deputato" Bertot tutto fanno fuorché aiutare a sciogliere i nodi.

Bashar al Assad con Vladimir Putin.

In Libia, in particolare, ci siamo sovraesposti nell’appoggio al governo di Tripoli. Era inevitabile, per cercare di arginare il flusso della migrazione attraverso il Mediterraneo: i barconi dei disperati partono soprattutto dalla Tripolitania. Ma l’influenza delle autorità di Tobruk e Bengasi, cioè del generale Khalifa Haftar, è sempre maggiore nel Paese. E questo ci mette in rotta di collisione proprio con la Russia, strettamente alleata a Haftar, che controlla i terminali petroliferi da cui dipendono le attività dell'Eni. Stiamo faticosamente cercando di rimontare, di convincere tutti - russi compresi - che tutti gli attori, Isis a parte, devono esser rappresentati nella Libia che uscirà dalla guerra civile. È più o meno quel che servirebbe anche in Siria, ma Assad e Putin si oppongono.

L'INTRANSIGENZA RUSSA. Non che il lavoro della Farnesina per la Libia venga messo a rischio da Razzi e Bertot, ma il loro contributo alla narrativa di Mosca serve a puntellare il sostegno sempre più debole in Russia per le avventure mediorientali di Putin, e di fatto può rafforzare la posizione e quindi l’intransigenza della Russia sul fronte libico come su quello siriano. Tanto più mentre a Ginevra riprendono i colloqui per la pace in Siria.

I COMBATTIMENTI S'INTENSIFICANO. “Il treno è pronto alla partenza, ha solo bisogno di un acceleratore”, disse il mese scorso l’inviato dell’Onu Staffan de Mistura al termine dell’ultima sessione dei negoziati. Ma sarà difficile che vengano ora fatti passi in avanti. Le forze anti-Assad la settimana scorsa hanno disertato un incontro separato in Kazakistan accusando il regime di non rispettare il cessate il fuoco. I combattimenti si sono intensificati. I quartieri orientali di Damasco sono stati attaccati a sorpresa da gruppi ribelli con a capo gli uomini di Hayat al-Tahrir al-Sham, l’ex al Nusra affiliata ad al Qaeda.

Quel che resta di Aleppo.

Il treno di de Mistura rischia di restar fermo col motore acceso, o di partire senza nessuno a bordo e diventare così un treno fantasma. Gli ostacoli sono molti, ma tra questi l’intransigenza di Mosca nell’assecondare Assad che vuole massimizzare l’esito favorevole delle ultime battaglie per distruggere ogni forza anti-governativa è probabilmente la maggiore. Iniziative come quella a cui hanno partecipato i nostri due politici non servono certo alla pace, ma solo ad Assad e a Putin.

IL DRAMMA DI ALEPPO. Ad Aleppo in cinque anni di guerra sono morti 21.500 civili, secondo dati del Syrian Observatory for Human Rights. In soli 45 giorni tra il novembre e il dicembre del 2016, i caduti inermi sotto le bombe sono stati oltre 460, tra cui più di 60 erano bambini. I Mig russi, il “terremoto” di Bertot, hanno iniziato le loro azioni a fianco degli aerei e dei cannoni di Assad nel 2015. Secondo l’Onu, durante l’ultima fase dei raid e dei combattimenti per conquistare la città in mano ai ribelli sono stati commessi crimini contro l’umanità. Secondo il presidente siriano i bombardamenti erano giustificati: “Almeno ad Aleppo non ci sono più terroristi”, ha recentemente detto Assad ai media francesi.

UN LIMITE (ANCHE) INTELLETTUALE. Come si permettono di ridere e scherzare, di fronte a tutto questo, Razzi e Bertot? Il limite è anche intellettuale. Si riempiono la bocca delle due parole “politica estera”. L’account twitter di Bertot le ripete come un mantra (e quante cose ha “imparato da Assad”!). Ma alla fine i due pensano a cose più piccine: hanno trovato il tempo di mandare da Damasco un saluto video-telefonico all’attuale sindaco di Rivarolo Canavese, Alberto Rostagno, sulla cui poltrona Bertot sedette fino allo scioglimento del suo consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. “Te lo dico da amico, sindaco Rostagno: fatti i cazzi tuoi”, dice Razzi nel messaggio parodiando la sua parodia. E giù risate.

Pedro Agramunt.

C’è poco da ridere sulla ’ndrangheta, c’è poco da ridere su Aleppo, e c’è poco da ridere anche sui componenti della "delegazione" con cui Razzi e Bertot hanno viaggiato: ne era a capo il presidente dell’assemblea del Consiglio d’Europa Pedro Agramunt, di cui il think tank Esi chiede le dimissioni per lo scandalo della “diplomazia del caviale”, ovvero delle presunte mazzette incassate da rappresentanti dell’assemblea per sorvolare sulle violazioni dei diritti umani in Azerbaigian. Qualcuno ricorderà l’inchiesta di Report su Rai Tre: Agramunt è quello che per due volte toglie la parola alla deputata armena Nara Karapetyan che protestava per i favori agli azeri. Colpevole o innocente, sotto la presidenza Agramunt l’assemblea della più autorevole organizzazione europea per i diritti dell’uomo ha perso tutta la sua credibilità.

UNA DELEGAZIONE CONTROVERSA. Un altro componente della delegazione era il parlamentare serbo Bazidar Delic, generale a riposo che durante la guerra del Kossovo era a capo della 549esima brigata motorizzata serba, accusata dall’Humanitarian Law Center di crimini contro l’umanità per azioni di pulizia etnica in alcuni villaggi abitati da famiglie di tradizione musulmana. Mai andato sotto processo, l’allora colonnello Delic fu poi uno dei maggiori testimoni a difesa di Slobodan Milosevic di fronte al Tribunale penale internazionale dell’Aja. Almeno Delic di guerra se ne intende. E non andrà a dire balle come quelle dei nostri, che ripetono di aver “rischiato molto”, in Siria: con quel dispiegamento di quelle forze speciali, in un’area di Aleppo resa completamente sicura da almeno due mesi, forse hanno rischiato di sporcarsi di polvere il vestito (Caraceni, senatore Razzi?), e poco altro.

domenica 12 marzo 2017

La seconda vita del Capitale di Marx

La seconda vita del Capitale di Marx

L'opera del filosofo tedesco compie 150 anni. Ma è ancora attuale. E può essere ripulita dal male che le ha fatto il totalitarismo comunista. Rimettendo al centro le relazioni tra esseri umani.



Nel 1993 era stato Jacques Derrida a domandarsi quanto e in che modo l’Occidente, nonostante la caduta del Muro, avesse ancora a che fare con gli spettri di Marx. Poi, sulle ceneri del comunismo, le analisi di Marx hanno conosciuto nuova vita e vigore, apparendo come le uniche in grado di esplicitare i meccanismi della globalizzazione. La grande crisi ha alimentato e nutrito la Marx Renaissance, obbligando storici ed economisti a ripensare il capitalismo come problema.
UN LIBRO DA LEGGERE SENZA DOGMI. Una riflessione impossibile senza Marx, tanto più in questo 2017 che coincide con il 150esimo anniversario dell’apparizione de Il Capitale. Il primo volume dell’opera fu pubblicato in tedesco nel 1867. Seguirono, rispettivamente nel 1872 e nel 1875, la seconda edizione in tedesco e la traduzione in francese. Gli altri due volumi furono pubblicati postumi da Engels nel 1885 e nel 1894. Un libro imprescindibile, difficile, uno dei più strumentalizzati, che ha impegnato schiere di esegeti e per leggere il quale occorre liberarsi da ogni sorta di «sonno dogmatico», anche quello derivante dalla militanza marxista. Questo, almeno, è il suggerimento di Bruno Pinchard nel suo Marx a rovescio (Mimesis) appena arrivato nelle librerie italiane.
TRA LE PAGINE C'È LA MUSICA DI WAGNER. Ma con quale approccio ci si può accostare a Marx? Egli è certamente il «seduttore dei giorni di crisi»: è il primo stadio che ci conduce a vedere nel Capitale il libro che denuncia i vizi del sistema che sentiamo come ostile o oppressore. Ma c’è anche il Marx incardinato nella storia del pensiero filosofico occidentale. Non un filosofo che rompe con chi lo ha preceduto, ma un pensatore che integra e trasforma le filosofie anteriori al Capitale. Marx è aristotelico per quanto concerne l’idea di praxis, è colui che più di altri sfida e supera Hegel, è anche colui che riprende da Vico l’imperativo di guardare al vero come fatto storico e non come fatto contemplativo. Ma Pinchard unisce a queste altre interessanti suggestioni: «Non si potrebbe adeguatamente leggere Il Capitale», scrive infatti «senza sentire la musica che vi risuona. Il Capitale porta in sé la musica della Tetralogia di Wagner. Entrambe le opere sono imparentate da un comune legame con l’oro . Marx e Wagner propongono entrambi una meditazione sull’oro e la modernità».
E LA LETTERATURA SOCIALE DI BALZAC. Ancora, in Marx troviamo la letteratura sociale di Balzac e infine, «in relazione all’oro e alla moneta, al feticismo della merce e all’impersonalità del capitale, Marx ritrova quelle prospettive eredi delle forme simboliche che guidano Shakespeare o Rabelais quando si tratta dell’oro». Ecco allora che «tutte le sfere della fantasmagoria dell’Occidente sono coinvolte in una lettura matura di Marx». Persino i grandi del Rinascimento affiorano tra quelle pagine: «Seguendo l’esempio di Leonardo da Vinci che dipinge vortici e disegna rocce per trovare la legge del mondo, Marx predice la morfologia degli scambi sociali nella vita della materia».
un libro teologico e mitologico che per importanza sostituisce la Bibbia, che diviene di fatto la Bibbia del proletariato

Se ci fermassimo a questo, resteremmo in ogni caso lontani dalla comprensione della forza rivoluzionaria di un’opera come Il Capitale. Ciò che la caratterizza, infatti, è la sua capacità di pensare il capitale come struttura totale, come sostanza che non ha altra causa e altro fine al di fuori di se stessa e che per queste sue peculiarità appare come il nuovo Dio dell’Occidente, al punto che Pinchard può parlare del libro come di un libro teologico e mitologico – oltre la dimensione della scienza economica – che per importanza sostituisce la Bibbia, che diviene di fatto la Bibbia del proletariato, e che non è privo di un’atmosfera mistica nel momento in cui Marx ci fa balenare dinanzi la prospettiva della catastrofe.
UN LIBRO CHE TAGLIA CORTO CON LE RELIGIONI. «Il Capitale», scrive, «scommette sul nulla di Dio e sta qui la sua importanza: si tratta di una tesi negativa di filosofia della religione, ma una tesi che taglia corto con le religioni. Ecco perché rappresenta una chance per il pensiero. Ma questa chance comporta il suo proprio turbamento: Il Capitale 1) racconta una storia unificata; 2) sostiene che vi si rivela un senso; 3) garantisce l’universalità e la necessità del pensiero che si volge a rifletterlo. Di conseguenza, è Dio. Senza dubbio, non è il Dio della fede, ma il vero dio dei filosofi che non limitano il loro sapere alla propria fede. L’attrazione di un tale sapere non è gratuita: esso promette un potere più forte di quello delle religioni, che comprende e risolve. Esso rischia di barattare un fondamentalismo per un altro, quello che fa rimare il capitale e la causa. È il motivo per cui Il Capitale diviene il Libro e la sua incompiutezza ne aumenta il fascino: si attende la fine». Fin qui arriva Pinchard, il quale confessa di voler seminare elementi di una «poetica di Marx» perché, se il filosofo è morto, «scocca l’ora del suo poema».
MARX DÀ UN SENSO ALLE RELEZIONI TRA GLI UOMINI. Di Marx come autore indispensabile dinanzi all’attuale forza regressiva del capitalismo, sul piano della distruzione ambientale e su quello dell’insoddisfazione dei bisogni, aveva già parlato Costanzo Preve, proponendone un recupero come pensatore capace di fondare un comunitarismo alternativo all’attuale individualismo atomistico. Secondo Preve, dunque, con Marx era possibile tornare a dare senso alle relazioni tra gli uomini. Di certo la ricchezza della sua opera si presta non solo a molteplici interpretazioni, ma anche a molteplici utilizzi, purché non si sfruttino ancora una volta le sue intuizioni per imbellettare ideologie già sconfitte dalla storia e ormai improponibili.
UN CAMMINO VERSO UNA NUOVA IDENTITÀ. Sono dunque le pagine marxiane, più che quelle marxiste, a tornare utili per ennesime prese di coscienza dinanzi ad un’attualità che sfugge ad ogni tentativo di sistematizzazione. «Il Capitale», osserva Bruno Pinchard, «non potrebbe essere un dio se non parlasse, anche se i suoi verdetti sono solo ombre sugli schermi. Ma tale è il nostro destino, siamo soggetti sotto la condizione di questa reificazione del grande soggetto centrale, la Monade delle monadi, il baratro dell’Oro». Presa di coscienza, allora, che è anche cammino verso una nuova identità, come singoli e come insieme di uomini e donne. Conoscenza, identità, consapevolezza. Non al servizio di un astratto classismo ma al servizio delle persone. Non potrebbe esserci riscatto migliore per un filosofo lordato dalla bruttezza del totalitarismo comunista.