venerdì 29 dicembre 2017

verso le elezioni



29 dicembre 2017
Gentiloni, il leader mite ora può fare le scarpe a Renzi
Se Matteo lo disereda perde consensi. Se invece lo appoggia viene travolto. Il segretario Pd è sempre più vittima delle proprie macchinazioni. E il premier ha tutto per provare lo sgambetto. 
Paolo Gentiloni si avvia a diventare un primo ministro molto longevo. Se i risultati elettorali non daranno una maggioranza, fino a che non ci sarà una soluzione Gentiloni sarà al suo posto. Molti sperano anche che duri di più, cioè che si formi una maggioranza per fare cose, cioè una maggioranza costituente o di emergenza o altra diavoleria, alla cui guida ci possa essere proprio l’attuale premier. Ormai Gentiloni ha il suo fan club, con sedi anche all’estero, che è molto robusto sia nel mondo politico sia nei poteri economici. Ciò lo deve alla sua qualità maggiore: non è un chiacchierone. Tuttavia, vedremo meglio quale ruolo il “destino” sta ritagliando al successore di Renzi. La sua biografia è abbastanza banale perché è come quella di tanti suoi coetanei. Lui ha solo avuto di più. Ha avuto una famiglia di origini nobiliari, ha avuto ruoli di responsabilità senza mai sporcarsi le mani nei gruppi extraparlamentari più accesi. Ha inaugurato il ciclo dei leader ecologisti. È stato il sindaco ombra di Roma con Rutelli e quando si era vicini alla rottamazione, con felice intuizione, e prima di altri, si è fatto battezzare alla Leopolda.
LE OMBRE IMMAGINARIE DI RENZI. Così dopo aver fatto il ministro della Comunicazione con Prodi è stato ministro degli Esteri (un po’ in ombra) con Renzi. Insomma è sempre stato in cime alla piramide, con tante sfumature di grigio. Chi lo conosce, io l’ho visto alcune volte, sa che lui è quello che appare: poche parole, prevalentemente gentili, un fare curiale (è anche cattolico), è reduce di quel mondo gauchista che ha capito prima di tutto, e prima di tutti, che bisognava farla finita con i casini e che la lunga marcia nelle istituzioni era un fatto personale. Renzi l’ha preso in squadra perché ha l’aria di uno che non gli avrebbe mai fatto ombra. Povero Renzi, che ha combattuto contro le ombre immaginarie della sua vita e non si è accorto di averne creata una vera. Tuttora Gentiloni non dice una parola che possa apparire in discontinuità o, peggio, in concorrenza col suo dante causa ma lentamente, come una goccia cinese, gli sta scavando la fossa. Lui non ha il rapporto con Renzi che ebbe Martelli con Craxi. Il renzismo è in fondo un craxismo senza socialismo, pura affermazione di sé e disinvoltura politica. Martelli a un certo punto vide la mala parata e prese le distanze dal capo, poi un “pizzino” scoperto in una indagine ne fermò sia la dissociazione sia la carriera. Oggi ci spiega perché “noi comunisti” abbiamo tradito Craxi. C’è gente buffa in giro.
E LA RIVOLUZIONE CALMA DI GENTILONI. Gentiloni non somiglia a Martelli, non ha la sua fantasia politica, il suo dinamismo, la sua progettualità ma, come lui, vuole fare le scarpe, scusate l’espressione dialettale, al suo capo. Non sarà facile. Renzi è caduto in trappola. Se spodesta Gentiloni o lo disereda perde consensi, se lo appoggia e lo elegge come suo successore viene travolto. Insomma, come diceva il vecchio Aldo Tortorella, Renzi è caduto vittima delle sue macchinazioni. Gentiloni vede quindi aprirsi una prospettiva a cui aveva forse timidamente pensato: resto qua, faccio poco, parlo meno, mi comporto bene. Quest’ultimo punto è da sottolineare. La politica italiana è stretta dalla voglia di far prevalere quelli che fanno “ammuina” o la tentazione di tornare politici dal profilo democristiano, con abiti di ordinanza, poche parole, qualche ponte da inaugurare, quintalate di camomilla da spargere nell’aria. Se Gentiloni dovesse ancora risultare un leader a cui i sondaggi danno consenso, c’è una lezione per tutti gli altri, soprattutto a sinistra: se urli non funzioni. Puoi urlare solo se dici cose. Una “sinistra di governo” ha bisogno come il pane di Gentiloni. Una “sinistra al governo” forse preferisce vedere in tivù la maglietta della salute di Maurizio Landini. Fate un po’ voi.

mercoledì 27 dicembre 2017

La leggenda di Amedeo Guillet, il “comandante diavolo”






La leggenda di Amedeo Guillet, il “comandante diavolo”



E’ stato un uomo dai mille volti: ufficiale, agente segreto, ambasciatore, stalliere, acquaiolo, scaricatore di porto ma, soprattutto, guerrigliero. Un personaggio camaleontico, imprevedibile e temerario che cambia identità, patria e lingua. Nacque a Piacenza nel febbraio 1909 da una nobile famiglia piemontese e capuana di origine sabauda, frequentando poi l’Accademia militare di Modena. Uscirà con il grado di sottotenente di Cavalleria del Regio Esercito Italiano.
La sua straordinaria storia comincia in Africa orientale prima della seconda guerra mondiale quando, giovane tenente, cattura una pericolosissima banda di guerriglieri fedeli al Negus. Da Roma riceve l’ordine di giustiziarli, ma quando vede i volti fieri di quei nemici non solo decide di non ucciderli ma propone loro di arruolarsi nei suoi reparti. Il duca d’Aosta copre questa sua decisione e propone inoltre di creare un’intera cavalleria indigena, agile e di impatto, al seguito di Amedeo Guillet.
Questi nel giro di due mesi organizza e costituisce la nuova formazione, il “Gruppo Bande Amhara a cavallo” formata da combattenti diversissimi per etnia e religione e che soltanto un grande conoscitore di uomini come lui può tenere uniti. Ma mentre sta completando l’addestramento il 10 giugno del ’40 l’Italia entra in guerra e in Africa la situazione si fa subito difficile: gli Inglesi penetrano velocemente in Libia.
All’inizio del ’41 l’avanzata dell’esercito inglese sta ormai travolgendo le truppe italiane. Guillet per difendere il fronte italiano è pronto a tutto: gli viene chiesto di usare i suoi reparti per rallentare l’avanzata britannica e dare tempo agli Italiani di organizzarsi. E lui compie un’azione inaspettata, geniale ma spericolata: decide di attaccare il nemico a cavallo nel bel mezzo dello schieramento, contando sul fatto che mitragliatrici e artiglieria nemica non avrebbero potuto sparare per non colpire la loro stessa fanteria.
Dopo ore di confusione 10mila soldati italiani si erano ormai salvati sulle montagne grazie ad un’azione ricordata ancora oggi come una delle pagine più valorose della storia militare italiana. Guillet viene ricordato come il comandante che ha guidato una cavalleria contro i carri armati, e ha vinto. Coraggioso, sprezzante del pericolo, fedele agli alleati e rispettoso del nemico. Nell’immaginario collettivo diventa il “Comandante Diavolo” ( Cummundar as-Sheitan) e dal quel momento inizia la sua leggenda.
Dopo la firma della resa, secondo il diritto internazionale, non si può continuare a combattere ma Guillet ha in mente una strategia precisa: sfiancare il nemico e fargli credere che gli Italiani sono ancora vivi ed in grado di impegnarli. Entra in clandestinità, è’ costretto a nascondersi, a camuffare la sua identità. Smessa l’uniforme indossa il turbante e il tipico abbigliamento indigeno, diventa Ahmed Abdallah al Redai ( foto a sinistra) aiutato in questa trasformazione anche dai suoi tratti mediterranei e dalla conoscenza perfetta della lingua araba.
Il suo cambiamento non è solo esteriore: inizia a pregare 5 volte al giorno, a vivere nella comunità musulmana in modo completamente mimetico. Non è più un Italiano, non è più un ufficiale, non è più un cattolico. È un indigeno tra gli indigeni: la sua figura ricorda per certi versi quella di Lawrence d’Arabia. Con la differenza che questi aveva dietro di sé un impero che lo sosteneva. Nascosto dietro la nuova identità inizia, con i suoi indigeni, una guerriglia senza quartiere contro gli Inglesi, sabotando ferrovie, tagliando linee telegrafiche, facendo saltare ponti e saccheggiando depositi militari. Le azioni della banda inizialmente vengono considerate opera di fuorilegge locali, di banditi del deserto.
Ma con il tempo si intuisce che dietro a tutto ciò c’è un disegno preciso, quello di Amedeo Guillet e subito sulle sue gesta cala il velo della censura. Diventa oggetto di un rapporto top secret dell’ intelligence inglese che inoltre fissa sulla sua testa una cospicua taglia. Ma non serve. E talmente abile che, per meglio spiare il nemico, riesce a servire a tavola degli ufficiali inglesi sotto le finte spoglie di un domestico indigeno.
Nella primavera del ’41, dopo la disfatta italiana il Negus Haile Selassie torna in Etiopia e con l’aiuto degli Inglesi cerca di annettere anche l’Eritrea. Dall’altra parte però Guillet riesce ad attrarre alla sua causa proprio gli Eritrei facendo leva sui loro sentimenti anti-etiopici e mettendoli in guardia sul pericolo che gli inglesi possono rappresentare per loro.
Alla fine del ’41 arriva nel porto di Hodeida nello Yemen ma per i suoi modi raffinati e la lingua gli Yemeniti lo scambiano per una spia britannica e lo incarcerano. Appena a conoscenza del fatto gli Inglesi chiedono la sua estradizione cosa che però insospettisce molto gli Yemeniti. Il sovrano quindi gli concede udienza e ascolta tutta la sua storia. Ne rimane talmente affascinato che gli propone di rimanere, prendendolo sotto la sua protezione.
Lo fa curare, gli dà una casa e uno stipendio da colonnello. Quando nel ’42 gli Inglesi mettono a disposizione una nave della Croce Rossa per tutti quegli Italiani desiderosi di tornare in patria, Guillet, aiutato dai suoi vecchi amici del porto, riesce a imbarcarsi furtivamente rimanendo quasi nascosto per tutto il viaggio fingendosi pazzo.
Promosso Maggiore per meriti di guerra le sue conoscenze linguistiche lo rendono perfetto per il lavoro di intelligence.
Nel Dopoguerra, Guillet inizia a la carriera diplomatica, che prosegue per quasi trent’anni e che lo vede diventare ambasciatore d’Italia in vari Paesi. A seguirli sono sua moglie e la sua fortuna: sopravvive a due incidenti aerei nello stesso giorno e a due colpi di Stato di cui è testimone in Yemen e in Marocco. In quest’ultimo paese, durante un ricevimento ufficiale, ci fu un tentativo di colpo di Stato e Guillet riuscì a salvare la vita all’ambasciatore tedesco. Questo gli valse la più alta onorificenza della Repubblica Federale Tedesca: la Gran Croce con stella e striscia dell’Ordine al Merito della Repubblica. Nel 1971 fu inviato come Ambasciatore d’Italia in India, entrando ben presto nel ristrettissimo entourage dei confidenti del Primo Ministro Indira Gandhi.
Nel 1975 è in pensione per raggiunti limiti di età e va a vivere in Irlanda. Se in Italia in pochi conoscono la sua storia, in Irlanda viene accolto con grande entusiasmo e ritrova anche i suoi vecchi nemici anglosassoni che non avevano mai nascosto la propria ammirazione per lui, Max Harari, maggiore dell’VIII Ussari che riuscì a rapirgli il cavallo bianco Sandor, e Vittorio Dan Segre. Quest’ultimo diventa il suo biografo.
Alle già innumerevoli medaglie ed onorificenze ricevute, nel novembre del 2000 il Capo dello Stato italiano Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la massima onorificenza di ‘Cavaliere di Gran Croce’. Amedeo Guillet muore a Roma il 16 giugno 2010, all’età di 101 anni. Le sue ceneri riposano a Capua.
 Grazie a “Amanti della storia”

sabato 23 dicembre 2017

la Boschi e Palazzi,


IL BLOG

Due carriere da distruggere in nome dell’antirenzismo, la Boschi e Palazzi, il sindaco di Mantova

22/12/2017


AGF
Sesso in cambio di favori. È l'accusa al Sindaco di Mantova spiaccicata in prima pagina. Online e nei tg. Oggi il pubblico ministero ha chiesto l'archiviazione per il primo cittadino Palazzi perché non c'è concussione: contributi a un'associazione in cambio di favori sessuali. Si è scoperto che la vice presidente dell'associazione con la quale il Sindaco intratteneva uno scambio di sms ha alterato la chat. Fin qui la cronaca. Nel frattempo il Sindaco di Mantova è stato linciato sui giornali e si sono chieste le dimissioni. E se Palazzi si fosse dimesso? Colpisce in questa vicenda l'approssimazione quando era evidente fin dall'inizio che c'era molto che non quadrava. Ma è prevalso il silenzio.
Silenzio anche da parte di Matteo Renzi che di Palazzi è amico stretto, soprattutto da Mantova capitale della cultura in giù, quando l'ex premier approvò milioni di euro di opere pubbliche che hanno portato la città a un rinnovamento estetico senza precedenti, stringendo con il sindaco un patto generazionale e politico. Silenzio anche da parte del Pd. Certo tutti i santi in questi casi si affidano alla magistratura. Ma anche no, e sollevare qualche dubbio non vuol dire andare contro all'ordine costituito.
Mi ha stupito l'isolamento in cui è stato lasciato il sindaco Palazzi. Quando è chiaro, limpido come il sole che si è acceso (da parte dell'opposizione in consiglio comunale) il motore di un macchina senza guidatore lanciata contro il primo cittadino. Amato e odiato, di certo uno che è arrivato a ricoprire quella carica solo di suo. Con la sua volontà, come Renzi scalò il Pd. Senza guardare in faccia nessuno. Tanto meno i poteri forti tradizionali della città. Tutti.
Basta parlare con i mantovani, di qualsiasi orientamento politico, e ti diranno che hanno voluto incastrare Palazzi. Partendo proprio dal versante più pruriginoso, quello sessuale.
È un caso quello di Mantova, dove riecheggiano i tuoni del rapporto magistratura e informazione. Fake news e politica. Il polverone, l'assenza di verità e il rutto libero dei social. E delle briglie sciolte che stanno intorno. La superficialità con la quale si mette in rete, o si pubblica sui giornali, una notizia denigrando Tizio o Caio perché sta sulle scatole. Perché si nutre odio personale, avversità che sorpassa ogni codice etico di rispetto della dignità e del privato. Un offuscamento visivo e intellettuale che impedisce di valutare con obiettività quello che sta accadendo. S'insinua, si sospetta, si presume. Si scava tra le lenzuola. Abbiamo odorato prediche del giorno dopo a Palazzi, incitandolo a dire la verità perché le prove contro sono tante: ma come facevano avere così tante informazioni questi soloni?
E paradossalmente il caso Palazzi è affine a quello della sottosegretaria Boschi alla quale si chiede impetuosamente di dimettersi e non candidarsi alle prossime politiche.
Maledetto il giorno che... dalle parti del Pd, lo stratega in capo, ha avuto l'idea malsana di fare la commissione banche. Anche il più sprovveduto avrebbe previsto che si sarebbe parlato solo di Etruria. E diciamolo senza peli sulla lingua: Renzi e la Boschi hanno sbagliato strategia fin dall'inizio. Avrebbero dovuto ammettere che si sono adoperati a salvare banca Etruria come si sono adoperati a salvare le altre banche, con l'unico obiettivo di salvare i correntisti, certo, ma anche gli obbligazionisti e gli azionisti. Paradossale vero? La soluzione era semplicissima. Cosa c'è di male in quello che avrebbero fatto. E che nega con acrobazie lessicali? Ne sarebbero usciti anche alla grande. Col plauso di quegli aretini, e zone limitrofe, risparmiatori incavolati, che girovagano di piazza in piazza appena si presenta qualcuno del Pd. Invece oggi sono sul banco degli imputati, Renzi e la Boschi per aver fatto chissà quale maneggio. Nulla. Zero. Tentativi andati a vuoto. Peccato. Sì, proprio peccato. Ci stava bene il carico da novanta, l'ammissione di aver smosso chissà chi per evitare sfracelli di quella banca. È insopportabile il gioco sulla difensiva. Iniettato di quel politically correct che sta impastando ogni spicchio di vita quotidiana.
Alcuni giornali, vedi il Fatto Quotidiano, hanno titolato "Abbiamo un banda", parafrasando quel "abbiamo una banca" di Fassino, nell'affaire Bnl e Unipol. Altri ancora ci sono andati giù pesante definendo questo caso la pietra tombale della carriera di Renzi. Gli stessi toni usati nel caso Palazzi a Mantova.
Trasportiamo questo scenario durante gli anni del pentapartito, con una Dc obesa di consensi e il Psi golden share di ogni coalizione. Se dovessimo enumerare tutti i dialoghi, gli scambi, l'occupazione militare della banche nazionali e locali, da parte di quei partiti, ci vorrebbe la Treccani. Che deve fare un politico che occupa posizioni apicali? Starsene negli uffici e vedere che un istituto di credito fallisce? Lo diciamo alle anime belle di coloro che comunque hanno vissuto diverse stagioni politiche e sanno che grazie alla politica il sistema bancario italiano non ha subito le crisi di altri paesi. Solo quando l'attenzione della politica è venuta meno, o si è voltata da un'altra parte, si sono acuiti i disastri e le disavventure finanziarie.
Lo dico a coloro che da mattina a sera ci fanno la lezione sui clienti delle banche, cioè anche noi, buggerati dagli sportelli manigoldi: non è una distinzione di lana caprina quella tra azionisti- obbligazionisti e i correntisti. È chiarezza. Se si sa naturalmente cos'è e come funziona una banca in un sistema di mercato. Se tu risparmiatore punti i risparmi su azioni e obbligazioni lo fai a tuo rischio e pericolo. E non puoi prendertela e chiedere soccorso allo Stato se cadi in malasorte. Soprattutto nella vicenda dell'Etruria si è messo in piedi lo spettacolino degli agnelli sacrificali per salvare papà Boschi. La figlia, stando ai racconti di questi giorni non è stata un influencer di prima classe. Anzi. Se ne stava quasi in disparte, per rispettare quel protocollo che passa sotto la siglatura del conflitto di interessi. Aveva certo il padre che ci lavorava all'Etruria, ma come deputato della Repubblica e una dei politici più importanti, sarebbe stato peggio se fosse stata a laccarsi le unghie disinteressandosene.
Ha fatto bene Renzi a ribadire che la Boschi va candidata. Coraggiosa malgrado abbia un macigno sulle spalle e soprattutto non abbia alcuna colpa se non quella di essere stata fin troppo prudente, per le ragioni che abbiamo spiegato sopra. La Boschi va candidata perché siamo dentro una grande fake news. Quel dare intendere fischi per fiaschi. Confondere l'elettorato che ormai è intriso, da un lato di fanfaluche raccontate ovunque, dai social ai giornali, e dall'altro di perbenismo qualunquista che li condanna a essere, per forza maggiore, il calimero nero della situazione. Maledetta sfortuna, allora?
Sarà difficile far passare il messaggio sul perché la Boschi vada candidata, ma ha su di sé il passo del riscatto, di quel paese che condanna senza motivi, quello che è successo a Mantova insegna. Un paese che prende volutamente fischi per fiaschi, giusto per avallare tesi e teorie che non hanno né capo né coda. Come una fiction. O una telenovela.
Stupisce che gli indignati abbiano messo fuori dall'uscio il cartello "chiuso per ferie". Manca la solidarietà attorno alla Boschi, in primis del suo partito dove ormai ha preso il sopravvento il sospetto. L'attesa di liberarsi al più presto di Maria Elena e di Matteo. Diciamolo con franchezza, andare in campagna elettorale con questo spirito non è il massimo. Renzi candiderà la Boschi, entrambi non abbiano paura di dire che hanno incontrato anche l'Altissimo per Etruria, come per le altre banche o per le imprese in difficoltà: non c'è nulla di male. Chi vede il danno non ha a cuore le sorti dei risparmiatori.

mercoledì 20 dicembre 2017

Il manuale del perfetto arrogante




 


Il manuale del perfetto arrogante

Secondo voi è possibile che siate degli stronzi? Lo so, è una domanda scortese, ma non completamente assurda. Dopotutto, siamo circondati da persone così – se non mi credete, date un’occhiata ai titoli dei giornali, provate a guidare all’ora di punta, o a scorrere Twitter – perciò, statisticamente, è plausibilissimo che tra loro ci siate anche voi. Sono sicuro che non avete la sensazione di esserlo, naturalmente. Ma nessuno ce l’ha. In parte perché a ben poche persone piace pensare cose negative di se stesse.
Ma come sostiene il filosofo Eric Schwitzgebel in diversi suoi saggi, è anche perché l’essenza della stronzaggine (che, secondo lui è ben distinta da altre forme di sgradevolezza) è “vedere il mondo attraverso lenti che offuscano l’umanità degli altri”.
Gli stronzi considerano le altre persone “strumenti da manipolare o gente da ingannare piuttosto che loro pari dal punto di vista epistemico e morale”. Di conseguenza, se vi comportate male con gli altri, e quelli reagiscono in modo prevedibile – con rabbia, irritazione o, se siete fortunati, con critiche amichevoli – di solito non prendete sul serio la loro reazione, sempre dando per scontato che siate stati a sentirli. Perché? Perché siete stronzi.
Diritto al rispetto
E non finisce qui, spiega Schwitzgebel. Se aspirate sinceramente a capire se lo siete, probabilmente comincerete a chiedervi se trattate regolarmente gli altri con arroganza, considerando i loro desideri e le loro idee inferiori alle vostre, utili solo nella misura in cui servono ai vostri scopi.
Ma il fatto stesso che vi state ponendo la domanda significa che, almeno in quell’istante, non lo siete. “Se qualcuno si preoccupa sinceramente di essere uno stronzo, la sua stronzaggine momentaneamente scompare”, scrive Schwitzgebel. “Se tremate di paura e di vergogna alla possibilità di esservi comportati male con qualcun altro, in quel momento, proprio in virtù di quella sensazione, state vedendo la persona come un individuo che ha diritto al vostro rispetto”.
Smettete di fare introspezione e riflettete su come vedete gli altri
Ma non rilassatevi troppo: se pensate che questo significhi che non potete assolutamente essere stronzi, dato che siete abbastanza sensibili da porvi il problema, tornerete a essere compiaciuti di voi stessi, creando il terreno più adatto per diventarlo di nuovo.
Quindi, in parole povere: forse non vi sentite stronzi solo perché lo siete. E se fate un piccolo esame di coscienza, scoprirete sicuramente di non esserlo, anche se di solito lo siete. Allora esiste un modo oggettivo per stabilire la verità? Schwitzgebel pensa di sì: smettete di fare introspezione e riflettete su come vedete gli altri.
Avete spesso la sensazione di essere circondati da idioti? Dato che gli stronzi in genere hanno questa opinione di tutti, dovrebbe squillarvi un campanello d’allarme. “Dovunque vi girate, siete circondati da cretini, noiose nullità, masse senza volto, nemici, deficienti e… stronzi? Siete l’unica persona competente e ragionevole che conoscete?”.
Se è così, devo darvi una brutta notizia: probabilmente siete stronzi, almeno in alcune circostanze. Nei giorni in cui avete praticamente da ridire su tutti quelli che incontrate, potete scommetterci che il motivo è la cosa che tutti quegli incontri hanno in comune: voi.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

Da non perdere

una incredibile vergogna..che riguarda non solo l'Argentina ma il mondo intero! C'è qualcosa che non va nella nostra società, o no?"

·
una incredibile vergogna...

"Mentre il Paese va a fuoco ( per le alte temperature estive, ndr ), questa bambina si idrata bevendo dal marciapiede. C'è qualcosa che
repubblica.it

lunedì 18 dicembre 2017

Cinque domande per il 2018




Cinque domande per il 2018

A cosa somiglierà il 2018 da un punto di vista delle relazioni internazionali? Guerra o pace? Scontro o cooperazione? Per ora sembra difficile parlare di distensione, ma spetta agli europei mostrarsi all’altezza di un mondo in decadenza.
Dopo un sinistro 2016 (attentati, Brexit, Trump, eccetera) tutti temevano il 2017, che in realtà si è rivelato meno peggio del previsto (tutto è relativo) in un clima internazionale globalmente negativo. La principale vittima del 2017 è stato il multilateralismo, la visione del mondo fatta di cooperazione tra gli stati per risolvere i problemi anziché ricorrere allo scontro diretto e alle dichiarazione bellicose. Questa tendenza negativa continuerà?
Cerchiamo di esplorare il 2018 attraverso cinque domande.
Scoppierà la guerra in Iran, in Corea del Nord o in entrambi i paesi?
A Washington molti si pongono la questione in questi termini. Donald Trump ha preso di mira questi due paesi, che rappresentano il suo personale “asse del male”. Il presidente americano ha molta voglia di farla finita con “rocket man” (come ha soprannominato Kim Jong-un) e con il paese dei mullah (al quale non ha ancora trovato un soprannome).
La Corea del Nord pone agli Stati Uniti un duplice problema: oltre all’arma nucleare che ha già dimostrato di possedere, sta sviluppando un programma di missili balistici teoricamente capaci di raggiungere il territorio americano e anche la sua capitale, Washington, e il suo leader sembra trovare un gusto particolare nel provocare direttamente il cowboy della Casa Bianca.
Trump ha messo in gioco la sua reputazione dicendo chiaro e forte che avrebbe risolto il problema, se necessario facendo “fuoco e fiamme”, ma i suoi generali e il suo segretario di stato Rex Tillerson sanno che un conflitto con la Corea del Nord avrebbe un costo umano molto alto e rappresenterebbe un reale rischio di escalation nucleare come il mondo non ha più conosciuto da decenni. Se Trump sostituirà Tillerson nelle prossime settimane, come annunciato da gran parte dei mezzi d’informazione statunitensi, il rischio sarà ancora più forte.
Il problema dell’Iran è invece di altra natura. Non minaccia direttamente gli Stati Uniti, ma gli “amici” di Trump nella regione (in particolare l’Arabia Saudita e Israele) lo considerano una minaccia diretta.
Alla fine del 2018 le elezioni di metà mandato che potrebbero decidere il destino di Trump
Inoltre Trump ha condotto una parte della sua campagna elettorale attaccando l’accordo nucleare firmato da Barack Obama con Teheran alla fine di un lungo negoziato internazionale e ha confermato questa posizione denunciando la “certificazione” dell’accordo, lasciando al congresso la decisione di imporre o meno nuove sanzioni all’Iran.
Un conflitto diretto o indiretto con l’Iran ha diversi vantaggi per Washington: gli Stati Uniti hanno degli alleati “motivati”, non c’è, come in Corea, uno scomodo vicino cinese e inoltre sarebbe una rivincita storica per i generali dei marines che non hanno mai perdonato all’Iran i loro 241 morti di Beirut nel 1983 (lo stesso giorno un attentato simultaneo era costato la vita a 58 francesi nell’edificio Drakkar).
L’unico problema è che secondo tutti i sondaggi gli statunitensi non hanno voglia di una nuova guerra dopo il decennio di scontri e di morti in Afghanistan e in Iraq. Basterà a fermare Trump?
Trump sarà ancora presidente?
Un altro modo di porre la domanda è quello di chiedersi se l’inchiesta sulla “russian connection” con la sua dose di scoop e di rivelazioni quotidiane ha già e avrà un impatto sul modo in cui Trump dirige gli Stati Uniti e definisce il suo ruolo nel mondo.
La risposta è ovviamente sì. La storia del novecento mostra fino a che punto Richard Nixon, il presidente messo in stato d’accusa e destituito per le sue bugie nel caso Watergate, fosse ossessionato dall’inchiesta che lo riguardava. “Tricky Dick”, “Richard il furbo”, ha condotto la guerra del Vietnam sempre pensando alla politica interna e alla sua stessa sorte, come ha mostrato bene una serie di documentari su questo grande conflitto della recente storia statunitense.
Alla fine del 2018 Trump ha un appuntamento importante, le elezioni di metà mandato che potrebbero deciderne il destino. Se il Partito repubblicano ne uscirà bene, il presidente – se fino ad allora non sarà coinvolto nell‘“inchiesta russa” – potrà sperare di sopravvivere fino alla fine del suo mandato con un congresso che gli sarà riconoscente. Se invece le elezioni andranno male per i repubblicani, affermare che il resto della presidenza di Trump sarà complicata è un semplice eufemismo.
In meno di un anno, Trump ha deciso di lasciare gli accordi di Parigi sul clima, ha sbattuto la porta in faccia all’Unesco e all’organizzazione dell’Onu sui migranti, ha “decertificato” l’accordo con l’Iran, rischia di riaccendere il conflitto israelo-palestinese, ha destabilizzato la rete di alleanze degli Stati Uniti in Europa e in Asia. Insomma per il 2018 è meglio allacciarsi le cinture di sicurezza.
Putin sarà rieletto?
Se esitate sulla risposta, allora dovete fare un po’ di ripasso. Vladimir Putin ha appena annunciato la sua decisione di ricandidarsi alle elezioni presidenziali del 18 marzo 2018, ma non bisogna essere dei fini esperti del Cremlino per prevedere che sarà rieletto a schiacciante maggioranza contro Ksenia Sobchak, la figlia dell’ex mentore di Putin, Anatoly Sobchak, che comunque non dovrebbe preoccuparlo più di tanto.
In questo modo, come faceva notare con perfidia un osservatore francese, Putin raggiungerà Stalin nel record di longevità al potere al Cremlino.
In un contesto di controllo assoluto del potere a Mosca rinnovato, rafforzato e ringiovanito con una sapiente dose di manager, di oligarchi, di tecnocrati e di collaboratori più discreti, Putin dispone di numerosi punti di forza.
Il modello cinese è l’antitesi del modello occidentale: un capitalismo autoritario e un settore privato strettamente controllato dal partito
Ha saputo sfruttare a suo vantaggio la guerra in Siria, è riuscito a sopravvivere alle sanzioni occidentali imposte dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e dispone di una serie di alleanze più o meno solide che rompono l’isolamento nel quale pensavano di averlo messo gli occidentali. Dalla Cina alla Turchia o all’Iran, Putin non dispone dell’influenza dell’Unione Sovietica di un tempo, ma ha certamente delle carte a sua disposizione che lo hanno rimesso al centro della politica mondiale.
La sola domanda che poneva di recente un esperto europeo è quella di sapere se Putin avrà bisogno della guerra per mantenere la stabilità nel suo paese. Non dimentichiamo che in Russia l’economia, anche se si è stabilizzata dopo un periodo di crisi, rimane comunque molto dipendente dal settore degli idrocarburi.
In fin dei conti tranne qualche sorpresa sempre possibile, l’unico interrogativo che si pongono gli osservatori della Russia è quello di sapere che cosa succederà nel 2024, quando Putin a 70 anni potrebbe passare la mano. In quale stato lascerà il paese e a chi?
Il “modello cinese” sarà capace di sedurre?
La domanda può stupire, ma la Cina del presidente Xi Jinping – il cui potere si è considerevolmente rafforzato con il 19° congresso del Partito comunista di questo autunno – ha smesso di presentarsi con umiltà al mondo e afferma ormai in modo evidente la sua potenza e la sua influenza.
Il “modello cinese” è l’antitesi del modello occidentale: un capitalismo autoritario ribattezzato “socialismo dalle caratteristiche cinesi” fondato sulla meritocrazia al vertice, su uno stato forte, su un’assenza di separazione dei poteri e di quelle libertà così care in occidente (libertà di stampa, di associazione, di religione, di sindacato e così via) e su un settore privato strettamente controllato dal partito.
La forza di questo modello è la sua efficienza, che contro ogni aspettativa ha reso l’economia cinese, senza fare alcuna concessione politica, la seconda – e probabilmente, un giorno, la prima – del mondo e una delle più innovative. Un risultato che ha fatto crollare interi settori delle teorie politiche.
È proprio la voce dell’Europa che manca in questo mondo attraversato da pulsioni nazionaliste e populiste
Di fatto molti paesi del mondo in via di sviluppo guardano con invidia e ammirazione più a Pechino che a un occidente sempre meno credibile, indebolito e disunito, tanto più che la Cina, con le sue nuove “vie della seta” ha una strategia di influenza nel mondo accompagnata da generose elargizioni di fondi.
Per conquistare nuovi “amici” Pechino arriva ormai anche in Europa con la sua strategia di infrastrutture finanziate senza le abituali costrizioni internazionali. Così la Cina ha creato il vertice “16+1” che riunisce i 16 stati europei dei Balcani e anche alcuni dei membri dell’Unione europea dell’Europa centrale e orientale, che hanno beneficiato della sua generosità e di consistenti investimenti in cambio di una politica compiacente.
Questa tendenza continuerà nel 2018? Certamente. Il rullo compressore cinese non ha molto da temere in questo periodo, soprattutto da Trump e dalla sua incoerente politica.
L’Europa saprà sfruttare l’occasione per rilanciarsi?
Questa è in fin dei conti la domanda più difficile per il 2018. La depressione europea del 2016 dovuta alla Brexit e poi all’elezione di Trump che lasciavano intravedere un’irresistibile ondata populista ha ceduto il passo al relativo sollievo del 2017, nonostante i tanti voti ottenuti dai populisti e dall’estrema destra anche in Germania.
Emmanuel Macron, l‘“eroe” europeo del 2017 approfitta chiaramente dell’eclissi britannica dovuta al disastro storico della Brexit e di una Germania temporaneamente assorbita nei suoi complicati negoziati postelettorali, per mostrarsi come il leader di un’Europa in procinto di rilanciarsi. Il presidente francese ha presentato le sue proposte in un discorso alla Sorbona e spera di disporre nel 2018 di un partner tedesco suscettibile di avanzare insieme verso una futura Europa probabilmente a diverse velocità.
Ma il successo non è garantito in un continente che nell’ultimo decennio ha imparato a deludere e a mancare i suoi appuntamenti con la storia. Tuttavia è proprio la voce dell’Europa che manca in questo mondo attraversato da pulsioni nazionaliste e populiste, presenti anche all’interno dell’Ue (particolare attenzione si dovrà prestare nella primavera del 2018 al pericoloso appuntamento elettorale in un grande paese come l’Italia), e minacciato da avventure militari dalle conseguenze imprevedibili.
L’Europa è l’unica in grado di garantire, grazie alla sua esemplarità, la pace e un alto livello democratico, sociale, ambientale e umano. Tutti elementi che solo in questo continente sono in cima a tutte le preoccupazioni, anche se questa esemplarità è ben lontana da essere perfetta in tutti i suoi “28” membri. Ma per fare questo è necessario che l’Europa lo voglia, che i suoi popoli l’accettino. Nel 2018 bisognerà cogliere questa opportunità, che difficilmente si ripresenterà così presto.
(Traduzione di Andrea De Ritis)