venerdì 26 agosto 2011

La morte




L’altra sera ho incontrato la morte,
mi salutò e le risposi gentilmente.
Non ero stupito e se ne accorse sorpresa:
“Cosa devo fare perché tu mi consideri
un essere ripugnante,
privo di sensibilità,
caparbiamente attratto dalle disgrazie altrui?” Mi chiese.
“Nulla, fai il tuo mestiere;
da sempre terrorizzi l’uomo,
lo prendi per mano fin dalla nascita,
lo guidi senza appello nella tua dimora,
lo lasci cadere all’improvviso ai tuoi piedi;
tu non mi crei angosce,
sei solo un ombra che vola bassa,
come gli avvoltoi;
nessuno potrà mai aver paura
di ciò che è già morto,
per questo non ti temo,
non ti darò mai soddisfazione.”



giovedì 25 agosto 2011

Parole


 Una lunga vita che evoca ricordi  tristi,
 sono caduto nella polvere,
 ne ho assaporato il gusto amaro,
 sono stato un bersaglio perfetto:
 un uccello in volo.
 Ho guardato da lontano
 baci e dolcezze per lungo tempo proibite.
 Ma, adesso, eccomi a te, cara amica,
 se ho perso qualcosa nel terreno, non     
 cercarla,
 io sono l’erba, gli alberi, il mare:
 la mia tristezza lava le pietre.
 Scrivo queste parole al vento
 perché possa trasportarle lontano,
 perché nessuno possa più ascoltarle.

giovedì 18 agosto 2011

lunedì 15 agosto 2011

The Doors - Roadhouse Blues w/Lyrics

The Doors - L.A. Woman

La vita di un amore

Millequattrocentosessantuno giorni ( per via di un anno bisestile)
Trentacinquemilasettantaquattro ore
Duemilionicentotremilaottocentoquaranta minuti
Centoventiseimilioniduecentotremilaquattrocento secondi


La vita di un amore
Notte calda di piena estate
sul tappeto d'erba
al riparo di un larice trapiantato
noi e la nostra storia.
Lei non lo sa ma io ricordo bene.
I suoi occhi nuotavano al riverbero
nel bianco bagliore del suo corpo
col caldo umore tra le cosce lunghe.
Non prometterò più nulla
né i milioni di minuti che ci aspettano
né i miliardi di secondi e le frazioni
che scandirà il mio cuore
ma non per questo smetterò d'amarla
e l'ombra incerta delle mie mani
troverà sempre sorgenti di luce
per proiettarsi sul bianco del suo corpo.

Franco Zagato

Una dolcezza perduta



Come un uomo, stanco di sé stesso, scivola nei ricordi, mi ritrovo bambino.
La quiete di quei giorni in cui ti osservavo di nascosto,
la voglia di essere grande,
il sangue che mi pulsa nelle vene.
Sfioro i tuoi lunghi capelli,
la tua pelle diafana,
sento la tua mano che scivola dolcemente sul mio viso.
Vedo quella porta aperta e poi chiusa all’improvviso,
la voglia di godere una dolcezza perduta,
di essere ancora bambino.

The Doors - Indian Summer

sabato 13 agosto 2011


Emozioni

Osservo il tuo corpo, perfetta sintesi di curve sinuose, eccitanti; i miei muscoli tremano, mentre un copioso sudore ricopre la mia pelle. Voglio ritardare quel momento tanto atteso, prolungare l’avidità del mio sguardo, fissare le immagini che scorrono nei miei occhi. Ecco, finalmente il piacere assoluto, le emozioni si fondono nell’infinito, senza alcun riguardo per l’anima, mentre seduto, il viso sfigurato, osservo il custode togliere l’ultimo velo alle rotondità di quel marmo così sapientemente scolpito.

giovedì 11 agosto 2011

Una libbra di carne

Sono un uomo nel vuoto
Un uomo solo cieco muto
Sopra un immenso piedestallo di silenzio nero

Nulla questo oblio senza limiti
Questo assoluto di uno zero ripetuto
La solitudine compiuta

Il giorno è senza macchia la notte è pura

Qualche volta prendo i tuoi sandali
E cammino verso di te

Qualche volta indosso la tua veste
E ho i tuoi seni e ho il tuo ventre

Allora mi vedo con la tua maschera
E mi riconosco

Paul Eluard

mercoledì 10 agosto 2011

Per un amica




Ti svegli al mattino, osservi il cielo dalla finestra, cerchi di scacciare le ragnatele che ti soffocano, ritorni ai sogni passati, li vedi crollare uno a uno: i sorrisi si trasformano in smorfie, la felicità in angoscia.
Apri la porta agli amici, ascolti le loro voci come un dono che si perde nell’aria. La notte è passata, il vento e la pioggia hanno flagellato i tuoi pensieri; rimani in silenzio, osservi il ghiaccio sciogliersi, si trasforma in una pozza d’acqua; un passero con un ala spezzata cerca di non affogare, lo guardi disperata, non puoi far nulla: lo lasci morire.

I racconti della Seriola


“Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta. Purché sia una cucina, un posto dove…”

“vivere: la cucina luogo di passione e voluttà.”


Odio quegli appartamenti dove la cucina viene relegata quasi a ripostiglio nascosto dove si preparano i cibi che vengono poi portati trionfalmente nella più suntuosa sala da pranzo. La frenetica accensione di cappe aspiranti, gli spruzzi disperati dei vari deodoranti, pubblicizzati quotidianamente dalla televisione, affinché la puzza dei soffritti di aglio e cipolla, la maleducazione di questi odori, venga condannata e allontanata con grave ignominia da parte della società del panino e dell’insalata, che una volta alla settimana vuol fare bella figura con l’ospite di turno senza però far vedere o sentire come è stato preparato il cibo degustato in sala da pranzo-salotto tra piatti di ceramica, cristalli vari e quadri alle pareti che creano gravi problemi digestivi ai poveri ospiti, che non osano neanche chiedere cosa stanno mangiando. Quale ipocrisia! Certo cucine come quelle di una volta con la vecchia e impagabile stufa a legna oramai sono un sogno. La polenta è istantanea non viene più cotta a lungo: e poi chi la mangia più, fa tanto “ serial-contadino”. Basta uno snack per sentirsi in forma, dicono quelle ragazze longilinee che in televisione fanno pubblicità. Sono belle, per loro la cucina si riduce essenzialmente a un tavolino con un microonde, un frullatore e un fornello piccolino giusto per il caffè o qualcos’altro di veloce. Nessuno sa più cosa vuol dire la parola cucina, il vocabolario cita: ”locale attrezzato per la preparazione e la cottura delle vivande”. Per me è riduttivo, è snaturare l’essenza stessa del luogo che dovrebbe trasmettere entusiasmo(a me succede) nella preparazione e nella cottura dei cibi, fino al trionfo dei sughi, degli intingoli, degli arrosti, che mi fanno diventare un incallito peccatore di gola. Tra i miei ricordi di bambino, sì bambino perché avevo una nonna favolosa in cucina, ce ne sono tanti, forse varrebbe la pena di scrivere un libro su tutte le cose che ho appreso in quegli anni. Non parlo di ricette, quelle sono la sintesi finale delle spezie, del rosmarino, dell’aglio, tutti aromi che normalmente dovrebbero trovarsi lì. Provate a pensare per un attimo di entrare in una moderna cucina dove tutto è asettico, sterilizzato. Che odore sentite? Ammoniaca, detergente al mentolo o altro. Giusta la pulizia, ma date spazio anche agli altri “odori” altrimenti succede che non cucinate più niente per paura di sporcare: quando mai! Io ho avuto la sfortuna-fortuna, a seconda dei punti di vista,  di nascere in un periodo dove le comodità e le frivolezze erano solo appannaggio di certa gente, quindi mi sono forgiato leggendo libri perché non c’era la televisione, e aiutando la nonna in cucina che mi ha trasmesso la sua passione per me diventata viscerale, stimolando la mia curiosità per sperimentare sempre cose nuove. Succedeva a volte che alla domenica, a casa da scuola, dormivi qualche ora in più e ti svegliava un profumo di gallina in brodo che ti riempiva il cuore di gioia e speranza per il mezzogiorno. Ti lavavi alla svelta e poi correvi giù di corsa saltando il caffèlatte e mangiando al suo posto una fumante tazza di brodo con il formaggio e il pane vecchio. Magari fuori pioveva, ma chi se ne fregava, la stufa scoppiava di salute, il gatto si stiracchiava cambiando posizione e da quel posto, “dalla cucina” non saresti più uscito. Ovviamente con il tempo le cose sono cambiate. Le grandi cucine non ci sono più, come non ci sono più le famiglie patriarcali di una volta. Ci si vergogna quasi a cucinare cibi poveri che diffondono nell’aria il loro profumo, quasi che presentarli in tavola sia una cosa umiliante, da mangiare di nascosto, senza che nessuno veda o senta. Certo una volta erano le donne che si sobbarcavano i maggiori oneri della cucina, adesso si sono emancipate, non ci stanno più ad essere considerate l’angelo del focolare: se sono fortunate ad avere ancora qualcuno che prepara loro il pranzo, bene, altrimenti con la scusa della dieta mangiano quello che capita. Comprendo le loro ragioni. Guai se tutto fosse rimasto immobile senza adeguarsi ai tempi. Il mio più gran difetto è che oltre ad essere un buongustaio sono in grado di farmi pressoché tutto, ecco perché prediligo la cucina come stanza principale della casa. Quando ho ospiti dò il meglio di me stesso, anzi al loro arrivo pretendo che facciano un sopraluogo per vedere di persona come procede l’esecuzione dell’opera e ne vado fiero. Oltretutto, ed è innegabile, rappresenta un punto di riferimento, di sicurezza. Anche se è piccola basta accendere un fuoco per prepararsi il pranzo o la cena, disporre poche cose essenziali sulla tavola e ci si sente come il naufrago che finalmente ha trovato un posto tranquillo dove ripararsi. Controllare il placido sobbollire della pasta, aggiustare di sale il sugo, nobilitarlo con qualche foglia di basilico e poi sedersi in santa pace e usare il rito del cibo come terapia rilassante, anzi, certi medici, anziché prescrivere tante medicine, dovrebbero consigliare questo metodo a parecchi pazienti. Avete mai fatto caso a quei film americani dove il protagonista di turno torna a casa la sera dal lavoro, butta via le scarpe, apre il frigo (sono quelli enormi, panciuti dove dentro c’è di tutto tranne quello che serve) prende la bottiglia di latte, un tramezzino, si butta sul divano, accende la televisione e dopo due minuti pure la sigaretta perché ha già finito di mangiare. E’ una questione di cultura. La cucina è cultura. Non serve avere un diploma di cuoco per farsi da mangiare, basta interessarsi al cibo, dargli la sua giusta importanza, trattarlo nella maniera in cui si tratta una bella donna, conoscerlo nei suoi momenti più intimi come se anziché in cucina si fosse in camera da letto. Un arrosto nel forno, del guanciale  che sfrigola sul fuoco preludio di una superba amatriciana, una sogliola al burro: dite un po’ non li farete mica in salotto per caso? Una volta alcuni amici mi stuzzicarono chiedendomi quando avrei preparato uno dei miei soliti pranzetti speciali. Quando volete risposi, mi basta solo sapere in quanti siamo e se i gusti di tutti coincidono. Detto fatto ci siamo messi d’accordo per un sabato sera: quattro persone e libertà di fare quello che volevo. Mancavano tre giorni all’appuntamento e tre successive telefonate aggiunsero altre quattro persone: totale otto. Non mi preoccupai più di tanto ero arrivato anche a tredici. Feci un menù un po’ particolare: crostini caldi di lardo speziato, lumache alla bourguignonne, zuppa di cipolle alla francese, granelli di toro al pernod, contorni vari. Quando arrivarono al sabato sera, dopo le rituali presentazioni ( gli altri quattro non li conoscevo) li portai ad ispezionare la cucina, i vecchi amici fecero salti di gioia, eravamo una compagnia di buongustai, gli altri quattro rimasero perplessi:                                                                                                 
"Ma quella che roba è?"
"Prova a indovinare" dissi io.                                                                                                    
Aveva un tono di voce mieloso con le parole strascinate; gli fece eco la seconda:
”Se sperate che io mangi quelle cose” disse. 
Uno dei ragazzi continuò:
”Non c’è mica un panino?” 
Il quarto invece fu più possibilista:
”Io di questa roba non ne ho mai mangiata, però si può provare." 
Era già qualcosa. Infatti fu lui a trascinare gli altri che dopo un po’ cominciarono a dire: però che buono, anche questo, meraviglioso, mancava poco che avessero un orgasmo. Il pranzo inutile dirlo fu un successo. Quando al caffè dissi loro che quelle sottili fettine di carne erano i coglioni  del toro rimasero allibiti: erano da test psicologico. Non li vidi più però qualcuno mi disse che avevano cambiato abitudini alimentari: meno male a qualcosa ero servito.


Questo racconto ha partecipato al Premio letterario "La Seriola" di Dolo nell'anno 2001 e successivamente è stato inserito nel libro "Gocce di emozioni" 2009 opportunamente riscritto e ampliato.

Checcuswriter

La grande arte del Te


Questa volta, vorrei lasciare in disparte il cibo, per parlare di una bevanda popolare anche se in misura minore rispetto alle genti asiatiche: Il Tè, con tutte le sue sfumature e, perché no, la sua filosofia, ritmata sapientemente da quella fantastica civiltà che comprende la Cina, il Giappone e L’india. 

 La leggenda racconta che Bodhidharma, monaco buddista indiano, fondatore e primo predicatore della dottrina c’han, meglio conosciuta con il termine giapponese Zen, dopo anni passati, senza sosta, nella meditazione e stremato, sia stato vinto dal sonno. Al suo risveglio, per punire la sua debolezza, si tagliò le palpebre per impedire che gli occhi si richiudessero nuovamente, impedendogli la preghiera.
Le palpebre gettate a terra diedero vita alla pianta del tè, il cui uso tiene viva la facoltà intellettuale, e le cui foglie a mandorla ne trasmettono l’origine. Da questa premessa si capisce l’importanza tributata dagli asiatici, al rito del tè e al culto della bevanda stessa: mantenere sempre uno stato vigile per non cedere alla ripetizione meccanica delle attività  manuali, presenti nella vita quotidiana. Quando troppi avvenimenti si susseguono e stiamo per dimenticarci chi siamo, il tè ci solleva dallo stress e ci riporta alla quiete interiore, ci fa ritrovare noi stessi. Il tè, nato come medicina, divenne bevanda  nella Cina dell’VIII secolo, per incontri raffinati ed eleganti; fu elevato dai Giapponesi nel XV secolo, a religione armoniosa e all’arte: “il teismo”, culto che pone le sue radici sull’adorazione della bellezza, non solo estetica ma intesa come purezza ed equilibrio dell’anima. Nato imperfetto da una leggenda, vuole realizzare il possibile in quel percorso impossibile che è la vita.
Si può dividere l’evoluzione del tè, in tre metodi e tre diverse epoche: Il tè bollito, il tè sbattuto e il tè infuso, che appartiene all’era moderna. Il tè bollito era un impasto di foglie cotte a vapore e successivamente fatte bollire in acqua purissima, con l’aggiunta di sale. Quello battuto, le cui foglie si pestavano in un mortaio, riducendole in polvere e quello in foglie che si utilizzavano per l’infusione. I primi due metodi sono scomparsi dalla memoria della Cina a seguito delle invasioni subite nei secoli, rimane il terzo, l’infuso di foglie, che si diffuse in Europa alla fine della dinastia Ming. Non esiste una tecnica assoluta nella preparazione del tè, anche perché il teismo non obbliga a compiere gesti meccanici, libera la mente lasciando il corpo altrettanto libero di fare come meglio crede. Scartando l’uso del tè in bustina, molto industriale e fatto con tè nero, vi consiglio di usare solo tè in foglia e soprattutto tè verde. Il mio metodo di preparazione è molto semplice, prendo due bricchi, uno lo riempio d’acqua, circa mezzo litro e lo metto sul fuoco, nell’altro metto un cucchiaio da tavola di tè verde cinese in foglia (circa 5/6 gr). Quando l’acqua giunge ad ebollizione, spengo, ne levo un quarto e ne aggiungo altrettanta di fredda; in tal modo porto la temperatura a 60/70 gradi, non deve essere più calda altrimenti si rovina tutto. Lascio in infusione per 4/5 mn., poi filtro con un colino sull’altro bricco ancora caldo e mi siedo a tavola con qualche fetta biscottata (è la colazione del mattino), bevendone lentamente un paio di tazze, riordinando le idee e osservando la gatta che, nel frattempo, ha partecipato al rito, mangiando la sua razione di crocchette, felice e contenta, mentre in giardino i passeri mangiano le briciole di pane avanzate la sera prima. Come potete constatare, questi piccoli gesti, creano una filosofia personale e un armonia che danno lo spunto per iniziare una nuova giornata in tutta tranquillità.
N.B. Il Tè verde, va bevuto senza zucchero (un paio di volte e ci si abitua e lo si gusta meglio) e non va usato limone o altro per non alterarne il sapore.   


Il poco spazio a disposizione ha un po’ sacrificato questa mia dissertazione sulle proprietà di questa bevanda, non ridete sulla sua filosofia, chi è stato in Cina, India o Giappone, capisce benissimo cosa intendo dire e, forse, anche a noi occidentali non farebbe male rallentare un po’ il ritmo, qualche volta. Si vivrebbe meglio  e con più tranquillità d’animo.


Questo scritto è stato pubblicato nella mia rubrica: "Angolo cucina", nel quindicinale Dolo Sport.

Checcuswriter  

lunedì 8 agosto 2011

alba



L’alba è piena di profumi, i tuoi occhi colmi di rugiada; è venuto il tempo di fuggire senza rimpianti del tempo passato. Ti canterò nei giorni futuri, come l’ultima luce cercata dai miei occhi; verrà il momento in cui la grande madre mi dirà che i giochi sono finiti; mescolerò il riso al pianto, tornerò cenere dispersa nel vento, gli occhi spenti, le labbra chiuse, il pensiero vuoto.