lunedì 26 febbraio 2018

neofascismo



24 febbraio 2018
Neofascismo, perché non si può abbassare la guardia
Il regime vinse politicamente perché offriva soluzioni semplici a problemi complessi. Per questo è un errore minimizzare i rigurgiti di estrema destra a cui stiamo assistendo. Alessandrini dell'Istituto Parri a L43.

Oggi «il problema non è il 3% che potranno prendere Forza Nuova o CasaPound alle elezioni, ma il 40% degli italiani disposti ad accettare le idee di estrema destra». A partire da quella, fascistissima, di "nazione" in cui confluiscono i concetti di terra e il sangue, il cosiddetto ius sanguinis. E che porta dritto allo slogan «l'Italia agli italiani», spiega a Lettera43.it Luca Alessandrini, direttore dell'Istituto Parri di Bologna. Un mantra nella campagna elettorale di Lega, Fratelli d'Italia ed estrema destra. Ma ripetuto anche da alcuni esponenti di Forza Italia e condiviso (o condivisibile) pure da elettori insospettabili di centrosinistra che però sono a digiuno di una cultura democratica solida. E dire che «l'Italia non è degli italiani», continua Alessandrini, «dalla nascita delle Nazioni Unite il nostro Paese come il resto del mondo appartiene a tutti. L'Italia è solo affidata a chi ha la cittadinanza».

«MANCANO GLI ANTICORPI». Eppure il messaggio passa, funziona. Per questo davanti ai rigurgiti neofascisti a cui assistiamo Alessandrini non minimizza, anzi: «La situazione è molto grave perché mancano gli anticorpi». Se in passato i partiti di massa rappresentavano un argine a queste recrudescenze, e di fatto erano agenzie formative, con la fine della Repubblica dei Partiti si è creato un vuoto pneumatico, la politica ha smesso di essere mediazione e i partiti sono diventati semplici comitati elettorali. Ma la democrazia, insiste, non è andare a votare ogni cinque anni. «Senza una cultura democratica si insinuano vecchie e terribili idee, e così i gruppi neofascisti si trovano la strada spianata».

LA FASCINAZIONE DEI GIOVANISSIMI. Vero è che le formazioni neofasciste attirano soprattutto giovanissimi. Anzi, sono proprio gli adolescenti a essere il loro "core business" come del resto è emerso da un'informativa dei Ros dello scorso novembre sul reclutamento e l'indottrinamento dei più giovani presso sezioni romane di Fn. Ed è proprio questo il punto: la seduzione lugubre che queste forze esercitano, oggi come ieri.

Roberto Fiore, leader di Forza Nuova.
Che il fascismo sia stato una dittatura atroce non ci sono dubbi. Anche il mito del «fascismo buono» è stato recentemente smontato dal presidente Sergio Mattarella. Il problema però è che si proponeva, almeno agli inizi, come «un modello vincente», spiega Alessandrini. «Le imposizioni fasciste non erano vissute dalla maggioranza degli italiani come tali. Ma come opportunità, o necessità». In altre parole: «Se il fascismo non avesse convinto non avrebbe vinto». Questo, mette in chiaro il direttore del Parri, non significa che non fosse violento. «Ma non si impose alle masse con la violenza, la usava questo sì ma l'arma vincente fu la persuasione». D'altra parte il fascismo poteva contare sulla forza di polizia, il dissenso era represso, silenziato. La violenza poi era giustificata perché, per la propaganda, «poteva risolvere i problemi della nazione. E quando il problema era "interno"», continua, allora era lecito usarla contro gli elementi "disturbanti", ossia i socialisti e, dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, gli ebrei.

IL RAPPORTO CON LE MASSE. Uno dei punti cardine su cui il regime ha costruito il suo consenso è stato, sottolinea Alessandrini, il rapporto con le masse. Del resto «tutti i fascismi vengono dal socialismo», spiega. «Colgono l'idea socialista e la traducono su posizioni di destra». A preoccupare dovrebbe essere proprio il fatto che la vittoria di Mussolini fu prima di tutto politica. «La violenza divenne un nuovo metodo», dice ancora il direttore. E alla violenza, purtroppo, ci si abitua. Sempre. Basta ricordare la tentata strage di Macerata. «Se un fatto del genere fosse accaduto 10 anni fa», è il ragionamento, «l'Italia intera sarebbe scesa in piazza». Ora invece, a parte i cortei che si sono comunque svolti, il centrosinistra si è incartato sull'opportunità di una manifestazione anti-razzista a caldo mentre l'estrema destra si è schierata con Luca Traini, offrendosi anche di pagargli le spese legali.

UN FASCIO DI OPPORTUNITÀ. Oggi come ieri il fascismo può sembrare una opportunità. Una soluzione semplice a problemi complessi. Lo era, per esempio, per molti giovani nell'Italia poverissima uscita dalla Grande guerra. Il Regime inaugurò le politiche giovanili. La vita quotidiana era scandita da appuntamenti fissi, come il sabato fascista dedicato alle attività fisiche e paramilitari. «L'uniforme, la ginnastica, le armi, il gruppo ti facevano sentire importante», riflette Alessandrini. Senza parlare delle possibilità di crescita culturale. Durante il Ventennio intorno a riviste come l'Architrave, foglio della Gioventù universitaria fascista che scivolò dal 1942 in poi su posizioni critiche, si formò quell'Intellighenzia che diede successivamente vita all'antifascismo.
Mussolini A Salò
Propaganda, presenza capillare del regime in ogni aspetto della vita e della società, mitizzazione del duce. La maggior parte degli italiani viveva in un grande Truman Show. L'aspetto seduttivo però a un certo punto si ruppe, svelando la vera natura del fascismo, «dalle leggi razziali all'entrata in guerra fino alle restrizioni alimentari», fa notare Alessandrini.

LE MENZOGNE SVELATE. Gli italiani scoprirono così sulla propria pelle le menzogne del fascismo. «Il regime mandava a morire al fronte uomini male armati e impreparati», continua il direttore. Era lo stesso regime che non proteggeva veramente i "suoi figli". Si prenda l'Unpa, l'unione nazionale protezione antiaerea, nata nel 1934: «Non solo durante i bombardamenti i rifugi si rivelarono insufficienti per quantità e qualità, ma l'ente si trasformò in uno stipendificio, l'ennesima prova della corruzione del sistema». Non solo. A chi riusciva a rientrare dalla Russia, per esempio, fu subito chiaro «che di patriottico quella guerra non aveva nulla visto che venivano ammazzati i civili, indistintamente». E lo stesso accadde prima in Africa e poi nella ex Jugoslavia. Nel 1942, ricorda ancora Alessandrini, i razionamenti limitarono le calorie quotidiane a 970, «insufficienti per sopravvivere, in particolare impossibili per le donne incinte, per i lavoratori manuali e per i giovani». Una limitazione che diede origine al mercato nero. Accadde così che il regime dell'ordine e della legalità «costringesse a infrangere la legge e spendere tutto ciò che si aveva per mangiare poco e male».
IL VERO VOLTO DEL VENTENNIO. Fu così che anche il sabato fascista, che fino a qualche anno prima era vissuto come un'occasione per stare con gli amici e sentirsi qualcuno, divenne solo «una forma odiosa da operetta, visto come era armato il nostro esercito, e una imposizione». Durante i primi anni del Ventennio, continua Alessandrini, furono in pochi a vedere cosa stava accadendo. E ne pagarono le conseguenze: dalla galera dove molti morirono a causa della tisi dopo essere stati bastonati ripetutamente sulla schiena, al confino, fino all'espatrio. Chi non prendeva la tessera del Pnf non lavorava. E non solo nelle aziende di Stato come le ferrovie dove per essere assunti era necessaria l'iscrizione al partito, ma un po' ovunque. «Nel conformismo totale chi non era in linea veniva emarginato, era fuori». Questo per dire, se fosse ancora necessario, che no il fascismo non "fece anche cose buone". «Era una dittatura vera, violenta. Non un regime con solo un po' meno democrazia», insiste Alessandrini. Nella sua crescita fece relativamente poche vittime ma «solo perché vinse in fretta».
Per questo è importante non abbassare la guardia. «Forza Nuova o CasaPound sono seducenti quanto lugubri», continua Alessandrini. «E questo perché offrono messaggi semplici ed efficaci. Più la gente è in difficoltà più vuole risposte semplici. È una urgenza esistenziale, prima che politica. Ti dà identità e appartenenza». Di più. «La semplificazione non conosce contraddizione», sottolinea il direttore del Parri. «Per questo non si può combattere con strumenti razionali».
«LA DEMOCRAZIA VA DIFESA». Che fare allora? «L'unica risposta è costruire una militanza democratica», risponde convinto Alessandrini. «I partiti devono cospargersi il capo di cenere, è necessario che nascano nuove realtà che non si curino solo del risultato elettorale, che non siano solo comitati elettorali, ma che costruiscano luoghi di scambio democratico tra i cittadini e le istituzioni nel periodo di tempo che intercorre tra un 'elezione e l'altra». A breve termine invece si deve rispondere. «Chi è sedotto accetta tutto, quindi bisogna fermarsi prima», mette in guardia Alessandrini. «È necessario rovesciare punto su punto la loro propaganda, questo sappiamo farlo. E applicare la Costituzione e le leggi che abbiamo, come la Scelba. «La democrazia non è essere tutti fratelli», conclude, «è una raffinata forma di governo che deve difendersi». Soprattutto ora che gli anticorpi sono deboli, se non inesistenti.

martedì 20 febbraio 2018

Gibson verso il fallimento,


20 febbraio 2018

Gibson verso il fallimento, storia di un disastro annunciato
Lo storico marchio rischia di chiudere. Con il suo suono ha innervato la storia del Novecento, ma politiche industriali sbagliate hanno provocato una voragine di 375 milioni di debiti.


Django Reinhardt, lo zingaro, e che bella parola, questa, musicale come una svisata, Django il gitano, che un rogo a 18 anni aveva privato dell'uso di anulare e mignolo della mano sinistra eppure aveva il ferro e fuoco nelle altre dita, una potenza che bruciava le corde e consumava una chitarra ogni sei mesi, Django si siede. Gli altri del Quintet du Hot Club de France, con Stéphane Grappelli al violino, Joseph Reinhardt, il fratello, e Roger Chaput alle chitarre ritmiche, Louis Vola al contrabbasso, lo aspettano. Django posa la sua Maccaferri e imbraccia una Gibson L5 acustica con pick-up de Armond. Anni 30, Anni 40, fino al 1953 quando la morte spezza il suo infinito concerto, Django suona, dall'Europa all'America, suona a orecchio, perché non conosce la musica, ma il leggendario chitarrista classico André Segovia a un ricevimento lo ascolta, si turba, gli chiede dove si può comprare lo spartito di quel brano appena eseguito. «Non c'è spartito», risponde lo zingaro, divertito, «stavo solo improvvisando».

 Charlie Christian
1938, Charlie Christian, il pioniere dell'assolo elettrico, ha mollato la chitarrina giocattolo da 2 dollari e si è ripresentato equipaggiato di tutto punto. Anche lui forse ha stretto un patto col diavolo. Suona come nessuno ha mai fatto prima di lui, suona come tutti cercheranno di fare dopo di lui. Suona una Gibson ES-150 (Electric Spanish) con pick-up che ha chiamato come lui. Anche l'amplificatore, probabilmente, è un Gibson.

Chuck Berry.
1956, teatro Paramount, Chuck Berry ha un problema. Il suo prezioso completo, pagato 22 dollari, è tutto spiegazzato: come fare a presentarsi in scena così? L'unica è inventarsi un duck walk, un passo del papero; ovviamente imbracciando una Gibson, la chitarra della vita; di preferenza, ma non sempre, una semiacustica, meglio se un modello stereo ES-335.

1940, il quindicenne Riley King, in futuro noto al mondo come B.B. King, ha finalmente una chitarra vera: è una Gibson acustica che suo cugino, il leggendario Bukka White, lo ha aiutato a procurarsi, tra sacrifici di sangue. Lui le mette addosso un pick-up DeArmond. È amore a prima nota, e, dal 1958, Gibson sarà la compagna di vita anche del King: prima la ES-335, la stessa di Chuck Berry, poi una custom, personalizzata, cassa chiusa senza tagli a “f” per limitare il feedback.Dentro ci ficca pure degli stracci: trucchi da bluesmen, artigiani dell'espediente. Il ponticello è un Gibson TP-6 accordato sul retro dello strumento, «così non mi impiglio più le mani e i polsini della camicia». Ampli: Gibson. Corde: Gibson 740XL. Un uomo fedele, King. Alla marca, se non altro. Un altro King, Freddie, anche lui innamorato (quasi) a senso unico: per incidere Hideway, ad esempio, aveva usato una vecchia Gibson Les Paul; dal vivo, spesso una ES-335, oppure una ES-345, o anche una ES-355.

Da Presley a Lennon, da Keith Richards a Ron Wood, da Santana a Jimmy Page, ad Angus Young, una Gibson l'hanno posseduta tutti
Eric Clapton, nel periodo in cui lo chiamavano “clapout”, lo sballato, si era venduto tutte le chitarre (gli amici poi gliele ricomperavano, pietosamente, per rendergliele). Collezioni da favola, dove spiccavano le Gibson che, col loro suono humbucking, erano l'ideale per suonare il blues. Le Les Paul, sopra tutte le altre, le vecchie, che non tradivano mai. Gibson (tra le altre) anche nelle prodigiose mani di Jimi Hendrix, in particolare una Les Paul per il blues e, più avanti, una Flying V mancina, il suo “angelo volante”. E tra quelle, inquiete, mercuriali, sperimentali, di Frank Zappa: su Freak Out!, Absolutely Free e We're Only In It For The Money, un modello ES-5 Switchmaster; poi gli piacerà la Les Paul; quindi passa a una Gibson SG, specie dal vivo. Poi basta, perché l'elenco delle modifiche, maniacalmente personalizzate, sugli strumenti di Zappa è almeno altrettanto incasinato di quello delle pubblicazioni degli album. E basta anche con la casistica, che tanto, da Presley a Lennon, da Keith Richards a Ron Wood, da Santana a Jimmy Page, ad Angus Young (la SG “Diavoletto”, avete presente?), eccetera, eccetera, eccetera, una Gibson l'hanno posseduta tutti, e l'accezione valga nel senso più totale. Tutti i più grandi.
Che mondo sarebbe senza la Gibson? Un mondo probabile, purtroppo: lo storico marchio musicale che ha innervato l'intero Novecento partendo ancora prima, nel 1894, quando un umile artigiano, Orville, mettendo le mani su un mandolino non sapeva di fondare una dinastia di chitarre, rischia di sbaraccare: è la seconda volta, dopo la crisi a metà degli Anni 80, scongiurata da un risanamento in extremis, ma, a questo giro, le speranze sembrano davvero esili come un assolo nel vento.

POLITICHE INDUSTRIALI SBAGLIATE. Colpa di politiche industriali sballate, di quella (megalo)mania tutta postmoderna di allargarsi, di acquisire, di estendere le partecipazioni a raggiera: prima le cuffie, i diffusori, i marchingegni per dj, nel 2011, con l'acquisizione di Stanton Group che dava luogo a Gibson Pro Audio. Poi, l'anno dopo, il sodalizio con i giapponesi di Onkyo, per infilare il manico nei sistemi di home theater e, successivamente, maturare il controllo azionario di Teac Corp. Ancora, nel 2014, l'assorbimento della sezione elettronica di consumo di Royal Philips. Tutta roba che alla fine ha chiesto il conto.
È la seconda volta, dopo la crisi a metà degli Anni 80, scongiurata da un risanamento in extremis, che Gibson rischia di sparire
Chissà cosa credeva di fare, l'amministratore delegato Henry Juszkiewicz, intanto che si allontanava dal senso stesso della società, la costruzione di strumenti musicali, particolarmente chitarre, destinate a fare la storia. E le chitarre, in effetti, reggevano. Compatibilmente con la flessione di un mercato per cui si consuma sempre più musica, ma in modi sempre più evanescenti (ci torneremo), le chitarre restavano il senso, il sole immobile, tutto.

L'AZIENDA HA NUMERI GLACIALI. Secondo Moody's, la società di rating, considerata nel suo core business, Gibson Guitar Corporation, in Nashville, Tennessee, è sana. «Stabile e sostenibile», dice l'agenzia. Ma anche il sole, a trascurarlo, si raffredda. E adesso i numeri sono glaciali: obbligazioni per circa 380 milioni di dollari, scoperti con banche per altri 145 milioni di dollari, necessità di rifinanziarle entro il 23 luglio prossimo, avvicendamenti nell'organigramma superiore. Si chiama profumo di bancarotta. Per scongiurare la quale adesso l'avventato Juszkiewicz cerca di svendere a tutto spiano tutto quello che può: partecipazioni, rami aziendali, pacchetti azionari.
La solita storia di chiudere la stalla a buoi scappati. Si parla anche di inevitabili tagli di personale, che probabilmente non serviranno a niente: se non si fa avanti qualcuno in tempi brevi, qualcuno con le spalle forti e una passione ancora più solida, se ne vanno a casa tutti: uomini e chitarre. Ma, prima di chiunque altro, a levare le tende dovrebbe essere proprio Juszkiewicz. Ed è garantito che, se mai qualcuno dovesse ancora farsi carico di un marchio che non deve morire, la prima condizione sarà che l'amministratore delegato riempia il suo scatolone delle sue cose, e faccia fagotto. Vai a suonare sotto la metro, amministratore delegato. Perché Gibson non deve morire. Non può. Non finché ci sarà un retaggio. Non finché ci sarà un ragazzino che scopre un 33 giri, lo mette sotto una puntina, lo fa girare e decide di provarci anche lui. E allora imbraccia una chitarra, si mette davanti allo specchio, si sente il bastardo più fico del mondo, e la solita dannata storia ricomincia.



lunedì 12 febbraio 2018

Almirante si vergognerebbe di Salvini

Almirante si vergognerebbe di Salvini
Il segretario della Lega ha creato una una destra diversa da quella tradizionale. Il suo è un reazionarismo simile a quello degli Usa, in cui le idee estremiste e razziste hanno piena cittadinanza. E la sinistra non può voltarsi dall'altra parte.

Questa campagna elettorale cattiva ha creato qualcosa di nuovo e, temo, di irreversibile nella scena politica italiana. Non a sinistra: qui siamo in piena confusione e dio solo sa che cosa potrà succedere. Forse al centro se Calenda riuscirà, magari con Emma Bonino, a dar vita a un gruppo stabile, ancorché piccolo, di liberali moderni. La cosa nuova è avvenuta a destra. Salvini è un personaggio buffo e si tende a non prenderlo sul serio. Probabilmente è astemio ma parla come dopo una serata in osteria. Neppure la storia lo prenderà sul serio e prima o poi arriverà un uomo di destra più solido a ereditarne il lavoro.
L'EREDITÀ DI ALMIRANTE. Ciò che ha fatto Salvini è abbastanza importante. La destra italiana è stata sempre osteggiata con l’arco costituzionale malgrado la Dc e Andreotti se ne siano serviti e spesso l’abbiano spaccata. Giorgio Almirante è stato un capo carismatico con un brutto passato repubblichino ma verso la seconda parte della sua vita politica avversò l’estremismo. Dopo di lui, raccogliendo anche un grumo culturale che nello stesso Msi si era creato e che andava da intellettuali veri (ne parla Gabriele Turi nel suo La cultura delle destre, Bollati Boringhieri) a Pinuccio Tatarella, questa destra si buttò nell’agone politico cercando e ottenendo la legittimazione. Con Fini fece il passo più difficile e contrastato, poi Fini fu distrutto dalla sua famiglia.
SALVINI E LA NUOVA DESTRA. Salvini, invece, crea una destra su basi diverse. Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che la prima destra era una destra nazionale, Salvini, per quanto possa ingannare gli elettori, è uomo della secessione, un nemico dell’Unità d’Italia e del Sud. Su questo ceppo, opportunisticamente celato, si regge l’impalcatura di una struttura e di una cultura politica che si alimentano di tutte le pulsioni più reazionarie. Niente di nostalgia e vecchi riti, sia chiaro, anche se Salvini non ama condannare il fascismo e tanto meno i neo-fascisti e addirittura vorrebbe un raduno nazionale per contestare la prossima manifestazione nazionale antifascista indetta per la fine del mese. Il reazionarismo di Salvini è molto simile a quello di tanti Paesi occidentali, in primo luogo gli Stati Uniti, in cui le idee della destra estrema e razzista hanno piena cittadinanza persino decenni dopo la sconfitta della segregazione razziale. Oggi nella gara Salvini tende a costituzionalizzare le due organizzazioni fasciste più inquietanti, come CasaPound e Forza Nuova.
Salvini ha posto le basi per inserire nel gioco politico una destra che cinguetta con il fascismo. E ambisce, come la Le Pen, a costruire un polo di governo. In nessun Paese europeo le forze moderate hanno accettato questo connubio
C’è dal lato di Salvini, anche se la cosa farà alzare il sopracciglio a più di una personalità di sinistra, una cultura forte, ben incastonata nella società, nella borghesia decadente e frustrata e soprattutto fra la povera gente. Il nazionalismo è declinato come separazione dall’altro, l’odio verso la sinistra porta alle estreme conseguenze il lavoro di altri (e non faccio i nomi, per carità di patria), torna un’idea di Stato che provvede a tutto, il contrasto sociale è immaginato con l’uso di maniere forti e di epurazioni (c’è pure la Meloni che vuole cacciare il direttore del Museo Egizio).
LA DERIVA AUTORITARIA DEL M5S. Salvini oggi viaggia su un risultato personale decente, per nulla clamoroso ma ha posto le basi per due cose: rendere stabile e inserita nel gioco politico una destra che cinguetta con il fascismo, ambire, come la Le Pen, a costruire un polo di governo. In nessun Paese europeo le forze moderate hanno accettato questo connubio. Berlusconi, con mal di pancia a giorni alterni, e gente come Stefano Parisi (che brutta fine!) stanno invece costruendo cose con questo mondo che i moderati europei contrastano. Questa destra in Italia non può che diventare autoritaria, come l’evoluzione dei 5 stelle, se non verranno distrutti dalla democristianizzazione di Di Maio, che non potrà che essere altrettanto antidemocratica a mano a mano che Casaleggio controllerà tutta l’organizzazione.
L'ERRORE CAPITALE DI BERLUSCONI. Idee reazionarie e xenofobe, sovranismo, indifferenza verso il fascismo, sottovalutazione dei fenomeni violenti e del nuovo squadrismo, radici separatiste: ecco la destra che Salvini lascerà al suo successore quando la “cupola” della destra deciderà di fare sul serio e non saprà che farsene del fidanzatino della Isoardi. Tutto ciò avverrà con strappi ed evoluzioni rapide in concomitanza con il declino fisico di Silvio Berlusconi. Per tanto tempo si è chiesto al leader di Forza Italia di nominare un successore o una classe dirigente. Non ha voluto o non ha saputo o non ha potuto. Adesso gli si chiede di non regalare, in un futuro che gli auguriamo lontano, la sua gente a personaggi che lui stesso ha creato. Arriva il momento in cui lo scienziato pazzo deve uccidere la sua creatura per salvarsi l’anima.
LA SINISTRA NON PUÒ SOTTOVALUTARE. La sinistra non può commettere l’errore di sottovalutare quel che sta accadendo soprattutto di non parlarne per il timore di amplificare le gesta dei nuovi fascisti. Questo blocco sociale ed elettorale ormai avrà una rappresentanza parlamentare robusta, non ha limiti costituzionali, non ha autorità morali, presenti o del passato, a cui rispondere. Ci sono solo due strade per fermarla: spiegare agli italiani spaventati che con questa destra l’Italia diverrà un Bronx, e in secondo luogo rimettere piede, costi quel che costi, nei loro territori. Ci sarebbe poi lo Stato a dover fare la sua ma il ministro vede solo i neri, quelli di pelle non quelli neri dentro.