20 febbraio 2018
Gibson verso il fallimento, storia di un disastro
annunciato
Lo storico marchio rischia di chiudere. Con il suo
suono ha innervato la storia del Novecento, ma politiche industriali sbagliate
hanno provocato una voragine di 375 milioni di debiti.
Django Reinhardt, lo zingaro, e che bella parola, questa,
musicale come una svisata, Django il gitano, che un rogo a 18 anni aveva
privato dell'uso di anulare e mignolo della mano sinistra eppure aveva il ferro
e fuoco nelle altre dita, una potenza che bruciava le corde e consumava una
chitarra ogni sei mesi, Django si siede. Gli altri del Quintet du Hot Club de
France, con Stéphane Grappelli al violino, Joseph Reinhardt, il fratello, e
Roger Chaput alle chitarre ritmiche, Louis Vola al contrabbasso, lo aspettano.
Django posa la sua Maccaferri e imbraccia una Gibson L5 acustica con pick-up de
Armond. Anni 30, Anni 40, fino al 1953 quando la morte spezza il suo infinito
concerto, Django suona, dall'Europa all'America, suona a orecchio, perché non
conosce la musica, ma il leggendario chitarrista classico André Segovia a un
ricevimento lo ascolta, si turba, gli chiede dove si può comprare lo spartito
di quel brano appena eseguito. «Non c'è spartito», risponde lo zingaro,
divertito, «stavo solo improvvisando».
Charlie
Christian
1938, Charlie Christian, il pioniere dell'assolo elettrico, ha
mollato la chitarrina giocattolo da 2 dollari e si è ripresentato equipaggiato
di tutto punto. Anche lui forse ha stretto un patto col diavolo. Suona come
nessuno ha mai fatto prima di lui, suona come tutti cercheranno di fare dopo di
lui. Suona una Gibson ES-150 (Electric Spanish) con pick-up che ha chiamato
come lui. Anche l'amplificatore, probabilmente, è un Gibson.
Chuck Berry.
1956, teatro Paramount, Chuck Berry ha un problema. Il suo
prezioso completo, pagato 22 dollari, è tutto spiegazzato: come fare a
presentarsi in scena così? L'unica è inventarsi un duck walk, un passo del
papero; ovviamente imbracciando una Gibson, la chitarra della vita; di
preferenza, ma non sempre, una semiacustica, meglio se un modello stereo
ES-335.
1940, il quindicenne Riley King, in futuro noto al mondo come
B.B. King, ha finalmente una chitarra vera: è una Gibson acustica che suo
cugino, il leggendario Bukka White, lo ha aiutato a procurarsi, tra sacrifici
di sangue. Lui le mette addosso un pick-up DeArmond. È amore a prima nota, e,
dal 1958, Gibson sarà la compagna di vita anche del King: prima la ES-335, la
stessa di Chuck Berry, poi una custom, personalizzata, cassa chiusa senza tagli
a “f” per limitare il feedback.Dentro ci ficca pure degli stracci: trucchi da
bluesmen, artigiani dell'espediente. Il ponticello è un Gibson TP-6 accordato
sul retro dello strumento, «così non mi impiglio più le mani e i polsini della
camicia». Ampli: Gibson. Corde: Gibson 740XL. Un uomo fedele, King. Alla marca,
se non altro. Un altro King, Freddie, anche lui innamorato (quasi) a senso
unico: per incidere Hideway, ad esempio, aveva usato una vecchia Gibson
Les Paul; dal vivo, spesso una ES-335, oppure una ES-345, o anche una ES-355.
Da Presley a Lennon, da Keith Richards a Ron Wood, da Santana
a Jimmy Page, ad Angus Young, una Gibson l'hanno posseduta tutti
Eric Clapton, nel periodo in cui lo chiamavano “clapout”, lo
sballato, si era venduto tutte le chitarre (gli amici poi gliele ricomperavano,
pietosamente, per rendergliele). Collezioni da favola, dove spiccavano le
Gibson che, col loro suono humbucking, erano l'ideale per suonare il blues. Le
Les Paul, sopra tutte le altre, le vecchie, che non tradivano mai. Gibson (tra
le altre) anche nelle prodigiose mani di Jimi Hendrix, in particolare una Les
Paul per il blues e, più avanti, una Flying V mancina, il suo “angelo volante”.
E tra quelle, inquiete, mercuriali, sperimentali, di Frank Zappa: su Freak
Out!, Absolutely Free e We're Only In It For The Money, un modello ES-5
Switchmaster; poi gli piacerà la Les Paul; quindi passa a una Gibson SG, specie
dal vivo. Poi basta, perché l'elenco delle modifiche, maniacalmente
personalizzate, sugli strumenti di Zappa è almeno altrettanto incasinato di
quello delle pubblicazioni degli album. E basta anche con la casistica, che
tanto, da Presley a Lennon, da Keith Richards a Ron Wood, da Santana a Jimmy
Page, ad Angus Young (la SG “Diavoletto”, avete presente?), eccetera, eccetera,
eccetera, una Gibson l'hanno posseduta tutti, e l'accezione valga nel senso più
totale. Tutti i più grandi.
Che mondo sarebbe senza la Gibson? Un mondo probabile,
purtroppo: lo storico marchio musicale che ha innervato l'intero Novecento
partendo ancora prima, nel 1894, quando un umile artigiano, Orville, mettendo
le mani su un mandolino non sapeva di fondare una dinastia di chitarre, rischia
di sbaraccare: è la seconda volta, dopo la crisi a metà degli Anni 80,
scongiurata da un risanamento in extremis, ma, a questo giro, le
speranze sembrano davvero esili come un assolo nel vento.
POLITICHE INDUSTRIALI SBAGLIATE. Colpa di
politiche industriali sballate, di quella (megalo)mania tutta postmoderna di
allargarsi, di acquisire, di estendere le partecipazioni a raggiera: prima le
cuffie, i diffusori, i marchingegni per dj, nel 2011, con l'acquisizione di
Stanton Group che dava luogo a Gibson Pro Audio. Poi, l'anno dopo, il sodalizio
con i giapponesi di Onkyo, per infilare il manico nei sistemi di home theater
e, successivamente, maturare il controllo azionario di Teac Corp. Ancora, nel
2014, l'assorbimento della sezione elettronica di consumo di Royal Philips. Tutta
roba che alla fine ha chiesto il conto.
È la seconda volta, dopo la crisi a metà degli Anni 80,
scongiurata da un risanamento in extremis, che Gibson rischia di sparire
Chissà cosa credeva di fare, l'amministratore delegato Henry
Juszkiewicz, intanto che si allontanava dal senso stesso della società, la
costruzione di strumenti musicali, particolarmente chitarre, destinate a fare
la storia. E le chitarre, in effetti, reggevano. Compatibilmente con la
flessione di un mercato per cui si consuma sempre più musica, ma in modi sempre
più evanescenti (ci torneremo), le chitarre restavano il senso, il sole
immobile, tutto.
L'AZIENDA HA NUMERI GLACIALI. Secondo
Moody's, la società di rating, considerata nel suo core business, Gibson Guitar
Corporation, in Nashville, Tennessee, è sana. «Stabile e sostenibile», dice
l'agenzia. Ma anche il sole, a trascurarlo, si raffredda. E adesso i numeri
sono glaciali: obbligazioni per circa 380 milioni di dollari, scoperti con
banche per altri 145 milioni di dollari, necessità di rifinanziarle entro il 23
luglio prossimo, avvicendamenti nell'organigramma superiore. Si chiama profumo
di bancarotta. Per scongiurare la quale adesso l'avventato Juszkiewicz cerca di
svendere a tutto spiano tutto quello che può: partecipazioni, rami aziendali,
pacchetti azionari.
La solita storia di chiudere la stalla a buoi scappati. Si
parla anche di inevitabili tagli di personale, che probabilmente non serviranno
a niente: se non si fa avanti qualcuno in tempi brevi, qualcuno con le spalle
forti e una passione ancora più solida, se ne vanno a casa tutti: uomini e
chitarre. Ma, prima di chiunque altro, a levare le tende dovrebbe essere
proprio Juszkiewicz. Ed è garantito che, se mai qualcuno dovesse ancora farsi
carico di un marchio che non deve morire, la prima condizione sarà che
l'amministratore delegato riempia il suo scatolone delle sue cose, e faccia
fagotto. Vai a suonare sotto la metro, amministratore delegato. Perché Gibson
non deve morire. Non può. Non finché ci sarà un retaggio. Non finché ci sarà un
ragazzino che scopre un 33 giri, lo mette sotto una puntina, lo fa girare e
decide di provarci anche lui. E allora imbraccia una chitarra, si mette davanti
allo specchio, si sente il bastardo più fico del mondo, e la solita dannata storia
ricomincia.
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