sabato 27 aprile 2019

Il 27 aprile 1937 moriva, stroncato dalla dittatura fascista Antonio Gramsci






Il 27 aprile 1937 moriva, stroncato dalla dittatura fascista, un grande Uomo, Italiano, politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario – Così Pier Paolo Pasolini lo ricorda con il suo poema – “Le ceneri di Gramsci”

...
Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)

E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.

Ecco qui ad attestare il seme
non ancora disperso dell’antico dominio,
questi morti attaccati a un possesso
che affonda nei secoli il suo abominio
e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
quel vibrare d’incudini, in sordina,
soffocato e accorante – dal dimesso
rione – ad attestarne la fine.

Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
dei panni che i poveri adocchiano in
vetrine
dal rozzo splendore, e che ha smarrito
la sporcizia delle più sperdute strade,
delle panche dei tram, da cui stranito
è il mio giorno: mentre sempre più rade
ho di queste vacanze, nel tormento
del mantenermi in vita; e se mi accade
di amare il mondo non è che per violento
e ingenuo amore sensuale
così come, confuso adolescente, un tempo
l’odiai, se in esso mi feriva il male
borghese di me borghese: e ora, scisso
– con te – il mondo, oggetto non appare
di rancore e quasi di mistico
disprezzo, la parte che ne ha il potere?

Eppure senza il tuo rigore, sussisto
perché non scelgo. Vivo nel non volere
del tramontato dopoguerra: amando
il mondo che odio – nella sua miseria
sprezzante e perso – per un oscuro
scandalo
della coscienza…







giovedì 25 aprile 2019

Brasile, verso una nuova dittatura? Intervista a Leonardo Boff

Brasile, verso una nuova dittatura? Intervista a Leonardo Boff

Bella Ciao - Marlene Kuntz & Skin

Salvini scopre l'antimafia il 25 aprile


Salvini scopre l'antimafia il 25 aprile

·         Gian Carlo Caselli Magistrato


Stefano Montesi - Corbis via Getty Images

Una normale dialettica fra alleati, pur con orizzonti politico-culturali diversi, sembra per il nostro Paese un lusso. Dai sotterfugi - come le kafkiane "approvazioni salvo intese" o le magiche "clausole di dissolvenza" - si è passati alla rissa furiosa, come dimostrano le cronache sul "Salva Roma" e sul "caso Siri/Arata".

Senza pretesa di affrontare il merito specifico di quest'ultimo caso (se non altro perché l'inchiesta è appena iniziata), è evidente che esso ripropone - sul piano generale e astratto - l'eterno problema dei rapporti fra mafia, politica, economia. Eterno perché esiste da sempre, da quando la mafia ci appesta. Nel senso che la mafia non è solo attività gangsteristico-predatoria. Non è solo droga, rifiuti tossici, gioco d'azzardo, contraffazioni, appalti truccati e quant'altro concorre a un vero e proprio saccheggio globale. Strutturalmente è anche "relazioni esterne" con pezzi - appunto - della politica e dell'economia. La "zona grigia" che garantisce alla mafia complicità e coperture, mediante favori scambiati e reciproco sostegno. La spina dorsale del potere mafioso. Perciò una realtà oscena, anche nel senso che va tenuta "fuori scena", rigorosamente nascosta, ma innegabile.

Il "fuori scena" è favorito dalla scaltrezza (viltà?) di quanti si riempiono la bocca con la pericolosità delle relazioni esterne finché si rimane sul piano teorico. Per poi trincerarsi dietro timidezze d'ogni tipo quando si passa al piano concreto dell'effettiva individuazione di tali rapporti. Le scaltrezze dei casi singoli sfociano poi nel tentativo di negare in generale l'esistenza stessa di rapporti mafia-politica-economia. Una rilettura surreale il cui leit-motiv è una sorta di "riduzionismo/negazionismo" di tali rapporti, che sarebbero in pratica inventati da indagini "creative", quindi inquinate e inattendibili. In ogni caso si tratterebbe di isolate vicende locali, prive di respiro idoneo a farne una componente della storia nazionale. Per contro, la tesi riduzionista/negazionista è totalmente smentita dall'imponente materiale probatorio emerso dai processi (Andreotti e Dell'Utri per tutti) e dalle indagini storico-fattuali dei ricercatori più qualificati.

Dunque, la mafia è questione nazionale: avvelena il sistema e corrode la democrazia. Ciò significa che per contrastarla efficacemente occorrono unità d'intenti e concordia d'azione. L'esatto contrario di quel che succede se, di fatto, si strumentalizza l'antimafia in funzione divisiva, organizzando a Corleone una iniziativa per disertare le manifestazioni del 25 aprile.

Dimenticando che fare memoria della Liberazione significa ricordare che essa ci ha "regalato" la Costituzione: un progetto di Stato da vivere non come espressione degli interessi di qualcuno ma come garante dei diritti di tutti. Un patrimonio comune minacciato dalla tentazione di tornare a un vecchio modello, in base al quale lo status e le libertà dei cittadini (compresi gli immigrati onesti) dipendono non dalle regole, ma dai rapporti di forza.

Infine, una riflessione sulla scelta del ministro Salvini di manifestare a Corleone. In quanto storico simbolo di Cosa Nostra va ancora bene. Ma viste le radicali trasformazioni della nuova mafia, ormai 3.0, viene da chiedersi (paradossalmente, ma neanche troppo) se non sarebbe meglio una qualche "piazza" dedicata a operazioni finanziarie internazionali...


Chi non vuole il 25 aprile


Chi non vuole il 25 aprile

Dal '45 fino a Berlusconi e poi a Salvini, la Liberazione è stata restituita alla "cittadinanza" attraverso il suo catasto filmico, fino al suo depotenziamento politico



"Aldo dice 26 x 1 Stop Nemico in crisi finale Stop". Così il testo del telegramma che dette inizio all'insurrezione, alla "Festa grande d'Aprile", parole da accostare a "Bella ciao" nel canzoniere tematico dei partigiani infine vittoriosi. Ora però, ammesso che davvero lo si voglia, non è il caso di insistere in epica e retorica. Meglio, semmai, provare a spiegare, nell'accidentato 2019, dopo molta acqua passata sotto i ponti non più minati della Repubblica, partendo precisamente dal suo 25 aprile, la fine della guerra di liberazione dal nazi-fascismo, 1943-1945? Nel tentativo di farlo, occorre forse rimuovere ogni zavorra prevedibile, gli argomenti che bloccano come chiodi a quattro punte, gli stessi che sbarravano la strada ai camion tedeschi nella Roma occupata, sia l'idea di una Resistenza "incompiuta", perché mai giunta a farsi anche questione sociale, lotta di classe, fino all'affermazione del "socialismo" sia quell'altra, opinione diffusa tra gli ottusi capannelli di triste vigogna in galleria, secondo cui "gli italiani erano tutti fascisti, e il giorno dopo invece tutti antifascisti!". E perfino l'uso d'altri argomenti non meno fulminanti, tra prosaico e pertinente, di Ennio Flaiano: "I fascisti in Italia si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti".

Ciò nonostante, nella discussione sul 25 aprile e il suo precipitato ultimo, nella memoria dei singoli concittadini, la semplificazione è pane quotidiano, posto che la nostra data nel calendario del sentire nazionale, affatto univoco, assume sovente i tratti della miseria culturale, dell'analfabetismo civile di massa.

Quando il ministro dell'Interno Matteo Salvini, facendo evidente ammuina, dichiara: "Io il 25 aprile non sarò a sfilare qua o là, fazzoletti rossi, neri, gialli o bianchi". Così dicendo chiaramente parla a certo cuore nostalgico. Salvo smentite, pare abbia anche accennato a "una festa superata" e questo perché, ancora lui, "siamo nel 2019: mi interessa poco il derby fascisti-comunisti". Linguaggio da banchetto al Punto Snai, tuttavia, nella sostanza, l'opinione del capo della Lega, risaputo serbatoio di una Vandea nera, come ha elencato Ugo Maria Tassinari nel volume "Fascisteria", è sufficiente a far comprendere che il "Capitano" non voglia deludere le attese più prossime ai "Boia chi molla!" presenti nel suo elettorato, pura "zona grigia".

Semplificando ancora, va aggiunto che il Paese ha voluto bene nel profondo al fascismo, iniziando da chi, grazie al regime, ottenne divise e stivali, sentendosi così rassicurato nel bisogno gerarchico, conquistando i galloni da "caporale", ma anche, all'occorrenza, da capofabbricato, capomanipolo o addirittura centurione, quanto alle donne, in tempi di campagna demografica, ecco una decorazione ornata da minuscoli fiocchi, per ogni figlio "donato alla Patria". Anche l'invito a prolificare sembra essere tornato di moda, ora come allora.

Restando a Salvini, sembra però che questi abbia finalmente "liberalizzato", con l'aiuto dei suoi giovani addetti alla comunicazione, l'uso e il consumo di un pensiero per nulla rimosso, semmai acquattato nell'attitudine generale del Belpaese, così per retaggio familiare, compromissione, indole, bisogno appunto di semplificazione, cose che il fascismo ha donato loro. Esiste, in questo senso, un documentario, reperibile in rete, di Guido Chiesa e Giovanni De Luna, e ne suggeriamo la visione, "25 aprile la memoria inquieta" (1995), dedicato al modo in cui, dall'infuocato 1945 all'arrivo di Berlusconi, la data della Liberazione è stata cerimonialmente restituita alla "cittadinanza" attraverso il suo catasto filmico, fino al suo depotenziamento simbolico e dunque politico.

In conclusione, sembra avere ragione sempre più contestualmente Gramsci quando afferma che "il fascismo si è presentato come l'anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri". Seguito, perdonate l'eccesso di citazioni, dal già menzionato Ennio Flaiano: "Il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli 'altri' le cause della sua impotenza o sconfitta".

Ora, sarebbe davvero banale ravvisare in queste parole il selfie degli argomenti che di recente hanno determinato il consenso sovranista e insieme populista, resta però che con queste premesse era intuibile che qualcuno, perfino da posizioni istituzionali, insinuasse che non c'è festa più "divisiva" del 25 aprile, di conseguenza occorre addormentarne la celebrazione e l'esistenza: il fatto stesso che la lotta di liberazione sia avvenuta, così con l'alibi che si tratti di una ricorrenza propria del calendario dei "comunisti", sì, quelli della "Volante rossa", del "triangolo della morte" in Emilia, e soprattutto di piazzale Loreto, dimenticando che nello stesso luogo, mesi prima, gli sgherri in camicia nera della "Ettore Muti" avevano trucidato e lasciato alla vista dei passanti i cadaveri di 15 partigiani, ma questo nel sentire dei capannelli in galleria non è contemplato, infatti proprio con l'alibi della "macelleria messicana", così definita non da parte fascista, semmai da Ferruccio Parri, e ancora esattamente con l'adagio perenne dei "comunisti assassini", sono riusciti a ritenere che la festa fosse in realtà lutto nazionale, proprio come quando i nipoti dei militi di allora, ancora adesso, scrivono sui muri: "Il 25 aprile è nata una puttana e le hanno dato nome Repubblica Italiana".

Con queste premesse restano a noi i versi di Pasolini: "Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da una dei milioni d'anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione".

Perfetti per rispondere all'altrettanto ufficiale misera esibizione intimidatoria delle armi da parte degli addetti alla tastiera cui è affidata la propaganda dell'attuale ministro dell'Interno, li guardi tutti insieme in foto, e trovi un solo commento: se questi sono uomini.

Ma sì, a dispetto di tutto e tutti, oggi come allora: "Ora e sempre Resistenza!"



Fulvio Abbate Scrittore

Il 25 aprile in Italia è tornata la libertà, ricordiamolo a tutti


Il 25 aprile in Italia è tornata la libertà, ricordiamolo a tutti

Francesca Chiavacci Presidente nazionale Arci



NurPhoto via Getty Images

Il 25 aprile non è un litigio da operetta tra "fascisti e comunisti", come qualcuno sprezzantemente si ostina a dire. È la data della sconfitta del nazifascismo, della liberazione dall'oppressione della dittatura, del riscatto di un popolo e dell'emancipazione dei più deboli. È la data che restituisce al nostro paese la libertà. È il momento fondativo della Repubblica italiana, della nostra democrazia, della nostra Costituzione. E per ricordarlo, quello stesso giorno, saremo ancora in tanti in piazza.

Celebrare il 25 aprile non è uno stanco rito, ma rimane un tratto identitario che caratterizza il nostro Paese, e motiva l'attività di molte persone ogni giorno dell'anno.

Lo è ancora più quest'anno, di fronte al continuo attacco ai diritti umani, a cui si aggiunge l'erosione di senso della Festa della Liberazione che si prova a mettere in atto direttamente da parte del governo. Il ministro dell'interno che riduce tutto a "sfilata", che orgogliosamente dichiara la sua astensione dalle celebrazioni, è un fatto indegno che ci induce automaticamente a impegnarci di più perché l'anniversario della Liberazione sia la festa di tutti, la più bella del nostro calendario.

L'approccio che nega il senso del 25 aprile ci indigna, ma purtroppo non stupisce. Oggi il tentativo di togliere alla storia il peso, la responsabilità e la verità è più forte che mai. È una banalizzazione che deve essere interpretata come una pericolosa variante del negazionismo.

Perché non nasconde il fascismo, ma lo riduce a evento ormai estinto, che punta a far diventare la Festa del 25 aprile come un retaggio di nostalgici. Non è così. Il fascismo, nelle sue diverse forme, infatti si ripresenta continuamente, e non solo nel nostro Paese. Si manifesta nella violenza che spinge ad atti aggressivi contro la libertà di pensiero, l'uguaglianza, la dignità delle persone.

Il 25 aprile non è solo un giorno di festa ma è soprattutto quello in cui si riafferma la memoria e si rinnova il valore della democrazia e della libertà. Per evitare che quanto accaduto in passato, non riaccada oggi.








domenica 21 aprile 2019

Sia licenziato subito Luca Morisi. E subito!


Sia licenziato subito Luca Morisi. E subito!

All'epoca dei social non è tutto consentito, Matteo Salvini intervenga sul suo responsabile della comunicazione

         






HuffPost Italia

Sia subito licenziato, e subito! Che tal Luca Morisi, responsabile ufficiale della comunicazione del ministro degli Interni, incolli, su Twitter, una foto dove appare il suo "padrone", il suo principale, Matteo Salvini, mentre questi maneggia e insieme, con occhio attento, controlla la bontà di un'arma, un mitra, aggiungendo allo scatto un commento evidentemente, espressamente minaccioso, tutto ciò in un paese in possesso delle cinture di sicurezza del diritto, della legalità e della democrazia stessi, va ritenuto del tutto inaccettabile. Per questa semplice sua licenza, il signor Morisi meriterebbe d'essere destituito dall'incarico in tronco.

Lo stesso Quirinale, se non avesse scelto un profilo, diciamo, sobrio, dovrebbe richiamare il ministro affinché chiarisca che, da posizioni apicali per la sicurezza dello Stato, non è ammissibile un lessico improprio, tipico di un film da sgherri. Assodato che, culturalmente ragionando, quel genere di messaggio pubblico corrisponde a un atto di indicibile arroganza. E', lo ribadiamo, frutto di un puro atteggiamento intimidatorio, proprio di una subcultura degna di coloro che, a suo tempo, si presero cura di mettere a tacere le voci di un Matteotti e d'ogni altra possibile opposizione, roba da sgherri.

Un ministro degli Interni, ben al di là d'ogni plateale assenteismo rispetto al quotidiano lavorativo lì al Viminale, oltre ogni lessico assolutamente irrituale, che pure gli è proprio, in un contesto, salvo contrordini, di democrazia parlamentare, ha addirittura l'obbligo-dovere stoico di accettare perfino gli insulti: è il costo naturale dell'assunzione del potere, dei "baffi", nel senso dei gradi, dei galloni. Soprattutto da chi reputi, e non sono pochi, il suo comportamento, la sua condotta, perfino linguistica, degna della peggiore destra xenofoba. Nel caso questi, il ministro in oggetto, legittimamente dovesse trovare gli insulti inaccettabili e lesivi di propri onore e incolumità, in tal caso si rivolga agli organi competenti, proceda, insomma, come il collega Matteo Renzi, che di recente ha promesso ogni sorta di querele ai suoi detrattori. E non obbligateci, sempre in questo caso, a ricordare lo stile di Andreotti, lo stesso che si è visto indicato come mandante d'ogni possibile orrendo crimine, eppure mai a chiese ai suoi scagnozzi, che pure certamente aveva, di rispondere con un parole da repertorio gangsteristico.

Episodi di questo genere, la presenza stessa di un Morisi al fianco di Salvini, il badge ufficiale lì visibile sul blazer da supplente, danno la misura della complice miseria culturale di chi, sempre parlando di Salvini, lo definisce una nuova "icona pop" tacendo su quella che, per amore di ironia, abbiamo semplicemente chiamato irritualità di linguaggio; né altri potranno convincerci che Morisi stia semplicemente proteggendo il suo Capo da coloro che, scrollando le spalle con cinismo, diranno che nell'epoca dei social tutto è consentito, poiché, se davvero così fosse, se sul serio ci trovassimo in presenza di un redde rationem, mi aspetterei davvero una replica immediata, o un semplice tweet, anche da parte del Quirinale che, come ho già ipotizzato, dica a Salvini di mettere fuori la porta il suo Morisi.

Si tratta insomma dell'ennesimo atto del sempre più evidente '68 della destra. Nella galleria storico-fotografica delle armi impugnate da figure istituzionali, ci viene subito in mente Salvador Allende, presidente del Cile, mitra in pugno e elmetto sul capo, al Palazzo della Moneda durante l'assedio dei militari golpisti di Pinochet, solo che lì, in quella foto, mitra ed elmetto hanno valore d'uso difensivo, esatto, di risposta, armi in pugno, a un'aggressione subita dal corpo stesso della democrazia e dalla legalità; al contrario, nella foto postata dall'impiegato Morisi, pagato con denaro pubblico per curare la comunicazione del suo ministro e della stessa Lega, dove testualmente si legge: "Vi siete accorti che fanno di tutto per gettare fango sulla Lega? Si avvicinano le Europee e se ne inventeranno di ogni per fermare il Capitano. Ma noi siamo armati e dotati di elmetto!" (sic) c'è una minaccia preventiva a una presunta minaccia fantomatica incombente; in tutto questo non possiamo che ravvisare, avendo memoria della storia, lo stesso orrore che Costa-Gavras mostrava nel film "Z - L'orgia del potere", si aizzano i propri, li si crea a misura di plebe ringhiosa in funzione del preservare la propria autorità perfino oltre la doverosa grazia delle regole democratiche. Sappiano allora che è chiaro pure a noi di che fango son fatti.



Fulvio Abbate Scrittore


sabato 6 aprile 2019

Le schede ospedaliere 2019-2023






Veneto, equipe di medici itineranti per scongiurare la chiusura dei reparti


Le schede ospedaliere 2019-2023: un taglio di 546 posti letto, via le lungodegenze, più riabilitazione e spazio ai privati
VENEZIA. È lo spauracchio che agita i sonni di politici e manager. È il DM 70, acronimo del decreto ministeriale che ridefinisce gli standard qualitativi e strutturali della rete ospedaliera; non si tratta di consigli bonari: il regolamento assegna a ciascun reparto volumi di prestazioni e “bersagli clinici” tassativi e sottoposti a verifica annuale, riservando la chiusura tout court a chi non centra gli obiettivi. Prende le mosse da qui, dall’esigenza di salvaguardare l’offerta pubblica della salute nel Veneto, la più significativa novità prevista dalle Schede di dotazione ospedaliera 2019-2023 presentate ieri a Palazzo Ferro-Fini, ovvero la mobilità degli specialisti in camice bianco da un presidio all’altro, così da garantire il “fatturato” richiesto e scongiurare la scure romana: «Sì, sposteremo le équipe mediche tra più ospedali aiutando i più “deboli” a rientrare negli parametri di qualità e quantità», taglia corto Domenico Mantoan, direttore della sanità regionale.


Spoke, hub e comunità A introdurre il documento di programmazione, l’assessore Manuela Lanzarin:«I posti letto complessivi reali sono diminuiti in tutto di sole 9 unità, rispettando l’indice nazionale del 3 per mille per acuti, dello 0,5 per i riabilitativi e dello 0,2 per la mobilità extraregionale, con un ulteriore più 0,2 per mille destinato alle aree disagiate della montagna e del Polesine. Le apicalità? 731, secondo il rapporto consolidato 1 primario/25 medici». In cifre si passa dai 18.398 del 2013 ai 17.852 previsti nell’immediato futuro («Abbiamo “congelato” quelli inutilizzati in attesa di una valutazione da parte dell’assemblea») ma più rilevante appare la rotta intrapresa, riflesso di un territorio dove le culle si svuotano e la popolazione invecchia: «In ogni ospedale hub abbiamo previsto un reparto di neuropsichiatria infantile con posti letto e primario, distinguendolo dalle pediatrie», puntualizza Lanzarin «e confermiamo tutti i punti nascita, anche i tre che non hanno ottenuto la deroga nazionale - Piove di Sacco (chiuso), Adria e Valdagno non raggiungono il tetto minimo di 500 parti l’anno ndr - perché il calo delle nascite impone una revisione dei parametri. Viceversa, è prevista l’eliminazione delle lungodegenze, che determinavano ricoveri lunghi e spesso inappropriati, sostituite dal rafforzamento delle strutture intermedie e degli ospedali di comunità, accompagnato dal potenziamento della riabilitazione con un centro a valenza provinciale in ciascuna delle nove Ulss».

SFORBICIATA A CHIRURGIA Più qualità e degenze ridotte nel materno-infantile, allora; maggiori investimenti sulla “filiera della cronicità” e una sforbiciata ai posti letto anche nelle chirurgie «perché oggi tecnologia e robotica meno invasive limitano la durata del ricovero post-operatorio». La riabilitazione, già. Caratterizzata da una domanda in crescita a fronte di un’offerta insoddisfacente: «La nostra rete riabilitativa non funziona e sconta un calo di affluenza del 20% a beneficio di Friuli, Emilia e Lombardia. Dobbiamo migliorare l’offerta di recupero funzionale», scandisce Mantoan. Ancora, è immutata la classificazione degli ospedali: quelli “di base” con un bacino d’utenza tra 80 e 150 mila abitanti, gli “spoke” tra 150 e 300 mila; gli “hub” da 600 mila in su. Per una serie di specialità caratterizzate da tempi d’attesa «impropri» - psichiatria, pediatria, ostetricia/ginecologia, oculistica - è previsto l’accesso diretto dal pronto soccorso. Sul versante Iov, spunta la volontà di aprire un ambulatorio a Portogruaro.

I CASI DI PADOVA E vENEZIA Tant’è. L’apertura della discussione ad opera del presidente leghista Fabrizio Boron, è stato animato dagli interventi dell’opposizione. Marino Zorzato (Forza Italia) e il Pd - per voce di Stefano Fracasso, Claudio Sinigaglia, Bruno Pigozzo e Orietta Salemi - chiedono chiarezza sul percorso del Sant’Antonio, l’ospedale padovano destinato a fondersi con il Giustiniani in vista del del nuovo policlinico universitario, e del Civile veneziano a rischio di declassamento; «A Padova potremo dedicare una scheda di “transizione pluriennale” mentre la particolarità del caso Venezia è all’attenzione del sottosegretario Coletto», la replica dell’assessore. Duri Piero Ruzzante (Leu) e Patrizia Bartelle (Italia in comune) che contestano la crescita del business privato: «La Lega è il killer della sanità pubblica»; «Schede conservative, a fronte della scarsità di medicimanca il coraggio politico di cercare via nuove», il giudizio a 5 Stelle di Jacopo Berti. —