domenica 25 marzo 2018

Chiesa di San Giacomo di Rialto

I primi documenti in cui viene citata la Chiesa di San Giacomo risalgono al 1152, ma la tradizione la vuole il primo edificio costruito nella zona di Rialto — eretta lo stesso anno della fondazione di Venezia — nel 421.
Collocata nel luogo più commerciale e più animato della città, Rialto, questa chiesa si caratterizza per una splendida meridiana e un originale porticato…
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25 marzo: auguri Venezia!

Leggenda narra che... la millenaria ma sempre affascinante Signora quest'oggi compia gli anni... auguri Venezia! 🎉🎊❤️
Leggenda narra che... il 25 marzo 421 viene fondata quella che sarà poi una città unica al mondo, un'impero millenario, una culla di eccellenze nonché un…
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Stiore Francesco — Persone — Venipedia®

#Accaddeoggi: il 23 marzo 1884 moriva Francesco Stiore, abile medaglista della Serenissima, ultimo incisore della Zecca di Venezia.
Abile medaglista della Serenissima, ultimo incisore della Zecca di Venezia.
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Monumento funebre di Daniele Manin

#Accaddeoggi: Il 22 marzo 1868 tornano in Italia e a Venezia le spoglie mortali di Daniele Manin, per opera del figlio Giorgio. Sarà celebrato da un'immensa folla commossa che accompagnerà la bara in un lungo corteo dalla Stazione Ferroviaria Santa Lucia a San Marco.
Le ceneri di Daniele Manin giunsero a Venezia nel 1868, accolte da un fiume di persone mestamente emozionate. La sua memoria rimane ancora oggi viva in…
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sabato 24 marzo 2018

Metodo Salvini


 IL BLOG

Metodo Salvini

Predicare al "fuori" della politica, riversando poi il peso di questo voto di opinione sul "dentro" del circuito politico. Questa è la differenza tra populismo e politica


REUTERS
Northern League leader and senator Matteo Salvini casts his vote at the Senate during the first session since the March 4 national election in Rome, Italy March 23, 2018. REUTERS/Remo Casilli
Tempo di battezzare una nuova categoria della politica: il Salvinismo, cioè il metodo con cui Matteo S. sblocca le situazioni a suo favore. Un misto di forzatura, calcolo, imprevedibilità e azzardo – che ne ha fatto il protagonista di questo primo round post elettorale, la elezione dei Presidenti di Senato e Camera.
Il metodo, dunque.
Salvini si è trovato spinto dai risultati delle urne elettorali nella posizione scomoda che conosciamo: essere il primo partito, con il 18 per cento, in una coalizione del 37 per cento, ancora dominata dal prestigio e dalla macchina politico economica di Silvio Berlusconi, leader in calo di consensi, di freschezza anagrafica, ma non di ambizioni. Posizione quasi insostenibile - rimanere potrebbe significare essere messo a balia da Silvio, uscire significherebbe diventare il leader di un partito del 18 per cento, con unica possibilità quella di diventare partner di un Cinque Stelle con il 33.
Il Cavaliere, e il suo apparato, in queste prime due settimane dopo il voto, non hanno mancato di far sentire il proprio peso, ricordando la forza di Silvio, i suoi poteri. Richiamandolo insomma alla realtà. E proponendogli lo scambio fra il ruolo (al di là da venire) di rappresentante del centrodestra alle consultazioni (con un occhio all'incarico per formare il governo) e la Presidenza del Senato a un uomo di strettissima fiducia di Silvio, Paolo Romani, molto sgradito ai cinque stelle. Insomma lo scambio fra una leadership futura e l'oggi di una nomina, quella di Romani, sgradita ai Cinque Stelle, potenziali alleati di Salvini.
Un incrocio che solo 48 ore sembrava aver reso ancora più scomoda la posizione del leader leghista.
E qui rientriamo sul metodo Salvini.
Nelle categorie tradizionale della politica esiste la regola per cui la leadership di un'area politica, dopo un voto, la si consolida, stabilisci contatti, apri discussioni, proponi alleanze e piani. Entri insomma dentro le dinamiche di questa area, e provi a stabilizzarle a tuo favore.
Salvini invece ha fatto il contrario: ne è uscito fuori. Con dichiarazioni pubbliche ha ribaltato lo schema, rifiutando Romani, così da dare soddisfazione alle richieste M5s (e ottenerne i voti), e dando conto alla pubblica opinione di quello che faceva, con un indovinato refrain politico di fedeltà al centrodestra "Noi non chiediamo poltrone per noi: stiamo solo mettendo alla prova il M5S, che fin qui ha rifiutato Romani, e lavorando a raggiungere l'obiettivo che Berlusconi vuole, la presidenza del Senato a uno dei suoi". Una sorta di "disobbedire obbedendo", o viceversa.
Ci sono voluti, ovviamente, più passaggi per portare al termine l'operazione sui nomi finali ma l'operazione ha mantenuto il metodo: tutto in chiaro sotto le luci delle Tv e davanti ai taccuini dei giornalisti.
Che è, poi, il metodo praticato da Matteo fin dalla sua entrata in scena: rivolgersi, nel corso di una campagna politica permanente, al voto di opinione, predicare cioè al "fuori" della politica, riversando poi il peso di questo voto di opinione sul "dentro" del circuito politico.
Infatti, anche questa volta, dopo l'apertura delle urne è ripartito per una coda di tour elettorale, invece di sedersi a tavoli, o caminetti. Facendo montare il suo consenso pubblico, allargando il suo perimetro a vere e proprie trattative con i pentastellati mentre Silvio Berlusconi li attaccava. E quando gli accordi su chi votare alle presidenze si sono avviati, li ha virtualmente condotti tutti fuori dalle mura di Palazzo Grazioli.
Il risultato finale ha un doppio e forse triplo segno per tutti i protagonisti: Forza Italia ha avuto al Senato, come aveva chiesto, una berlusconiana di ferro, ma il Cavaliere ha subito un bel taglio di unghie. I Pentastellati, come volevano, hanno ottenuto la cancellazione di Romani e alla Camera hanno eletto Fico. Ma le prove d'amore di Salvini hanno avuto il caro prezzo di ridurli al traino di quel che succedeva dentro il centrodestra. Una sminuizione di ruolo.
Ovviamente, come sempre in politica, nel risultato finale c'è da valutare che prezzo futuro avrà per Salvini la disponibilità dei Pentastellati a seguirlo; e, va presa in considerazione la possibilità che Silvio Berlusconi più che ridimensionato, sia stato complice del percorso.
Qualunque sia il retroscena, oggi il leader leghista può dire di aver guadagnato per sè e per la sua coalizione la posizione migliore per l'incarico al centrodestra, quando inizieranno le consultazioni.
Dimostrando, anche, che il centro destra è oggi l'area, e l'arena dentro cui si stanno decidendo i giochi. che la partita delle leadership tra Lega e Forza Italia è il motore che può sbloccare una situazione di governo, per ora inchiodata. E, infine, che il cosiddetto metodo Salvini altro non è che la differenza tra il populismo e la politica.

Elisabetta Casellati, la pasdaran


 di Berlusconi che fece assumere la figlia al ministero della Salute

Elisabetta Casellati, la pasdaran di Berlusconi che fece assumere la figlia al ministero della Salute
Elisabetta Casellati (reuters)






In Parlamento dal 1994, anno della discesa in campo del Cavaliere, nel 2005 ricoprì l'incarico di sottosegretaria nel dicastero guidato da Sirchia. E la figlia Ludovica divenne capo della segreteria ministeriale. Nel curriculum della neo presidente del Senato anche il contributo alle leggi ad personam e il contrasto alle unioni civili. E sui social se la prendono con i 5 stelle
Era il 2005. Maria Elisabetta Alberti Casellati, fedelissima del Cavaliere, si trovò a ricoprire la carica di sottosegretario al Ministero della Salute, guidato all'epoca dal "tecnico" Girolamo Sirchia. Appena insediata, non perse tempo e piazzò a capo della segreteria del dicastero la figlia Ludovica. Inevitabili, piovvero sulla sua testa le accuse di familismo e clientelismo. Proprio a lei, esponente di un governo a guida Berlusconi, il premier dell'"Italia Azienda" che aveva giurato di fare piazza pulita della vecchia politica e dei suoi metodi.

Casellati non restò in silenzio. O meglio, fu la figlia Ludovica a rispondere a chi la accusava di aver scavalcato a destra (sic) tutti gli altri possibili e meritevoli candidati grazie al cuore della mamma che aveva fatto in modo che il suo curriculum finisse in pole position. Raccontando a mezzo stampa di averci messo 10 anni a liberarsi dell'etichetta "figlia di" e di essersi guadagnata l'assunzione sul campo, grazie a una professionalità nota solo a chi la conosceva davvero". Davvero pochi, quanto meno nel campo della sanità, dove il suo nome non perveniva nelle ricerche incrociate seguite alla polemica. Lo "skill" nella Salute di Ludovica, davvero un segreto custodito gelosamente, difficilmente intuibile dalla precedente carriera manageriale trascorsa in Publitalia, la concessionaria Mediaset per la pubblicità.

Quanto alla mamma, avvocata e docente universitaria, esperta in diritto canonico e ecclesiastico diventata parlamentare di Forza Italia con la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994, "sistemata" Ludovica (si scrisse di uno stipendio da 60mila euro annui) e commossa dalla sua appassionata autodifesa, si era elegantemente sottratta a qualsiasi provocazione, domanda e pubblica richiesta di chiarimento su un presunto personale conflitto d'interesse. Perché, come spesso amava dire, "noi della Casa delle Libertà governiamo solo nell'interesse dei cittadini".

Dall'interesse dei cittadini all'interesse di Berlusconi, Casellati viene ricordata e "celebrata" per il suo attivismo negli anni del confronto tra il Cavaliere e le "toghe sporche". Quando buona parte dello staff legal-politico del premier-imprenditore fu impegnato nel disegno di quell'architettura di provvedimenti consegnata alla storia contemporanea d'Italia come "leggi ad personam". Casellati lavorò tanto dietro le quinte, da esperta in materia, quanto in prima linea, sul piano della comunicazione.

In particolare da sottosegretaria alla Giustizia nel triennio 2008-2011, quando fece della necessità di combattere la narrazione di un Ministero della Giustizia piegato sulle esigenze difensive del premier e del tutto assente su tutto il resto della materia - dai tempi dei processi alla riforma carceraria -, una sua sentitissima missione. E, da autentica "frontwoman" fu un grande momento televisivo il suo faccia a faccia con Marco Travaglio a Otto e Mezzo. Casellati si schierò a favor di telecamera in difesa del Cav, i toni inevitabilmente salirono e lei arrivò al punto di minacciare l'abbandono dello studio.

Casellati presidente del Senato, quando difendeva Berlusconi condannato: "Un golpe"

 
Ora che sul suo nome si è "trovata la quadra" nel Centrodestra e con i 5 stelle per la presidenza del Senato, l'hashtag #Casellati è diventato trending topic. Soprattutto sulla spinta di chi tiene a ricordare altre pagine della storia personale di Elisabetta, dalla strenua difesa di Berlusconi nel caso Ruby alla radicale opposizione alle unioni civili. "Lo Stato non può equiparare il matrimonio e unioni civili, né far crescere un minore in una coppia che non sia famiglia. Le diversità vanno tutelate ma non possono diventare identità, se identità non sono", diceva nel 2016 Casellati, all'epoca membro del Csm.

Un profilo che divide, quello di Maria Elisabetta Alberti Casellati, che non ci si aspetterebbe da chi dovrebbe essere garanzia di imparzialità nella super partes seconda carica dello Stato. E che finisce col mettere nel mirino degli sfottò via social soprattutto il Movimento 5 Stelle duro e puro che fu, adeguatosi alla vecchia logica spartitoria. Proprio quel M5s a cui, solo il 13 febbraio scorso, anche Casellati aveva rinfacciato su Facebook il caso dei mancati rimborsi elettorali dei suoi candidati: "La campagna elettorale dei 5stelle è iniziata con la ricerca delle 'nefandezze' dei competitori politici. La macchina del fango si è rovesciata su di loro".

Post al vetriolo in risposta all'ordine impartito in chat ai candidati veneti del movimento, scrivevano le cronache locali a inizio febbraio, dal capo della comunicazione del M5s, Ferdinando Garavello: "Cercate nefandezze e foto imbarazzanti dei concorrenti. Tutto il peggio che si può tirare fuori. Nefandezze, foto imbarazzanti, dichiarazioni e tutto quello che può servire a fare campagna negativa su di loro“.

Se la ragion di Stato chiama, anche nel Movimento 5 stelle si può fingere di aver dimenticato. E accettare il nome di Casellati, accusano ancora i social rivolti ai pentastellati, dopo aver detto "no" al povero Paolo Romani, ex capogruppo forzista al Senato incastrato dalle telefonate rubate dalla figlia al suo telefono istituzionale. Per quella vicenda Romani è stato condannato. La fedina di Casellati è immacolata. Così, ancora sui social, si rinnova l'eterno duello tra forma e sostanza.

Usa: la politica estera secondo Bolton, nuovo consigliere di Trump

Usa: la politica estera secondo Bolton, nuovo consigliere di Trump

Altre sanzioni all'Iran. Via libera ai raid sul Libano. Dissoluzione dei Territori Palestinesi. Le idee dell'ex ambasciatore all'Onu (favorevole all'atomica a Riad) fanno tremare il Medio Oriente.

Con l'ultimo siluramento via Twitter dalla Casa Bianca si è dissolto il cordone eretto dai repubblicani attorno a Donald Trump. Non è un mistero che la vittoria del tycoon alle Presidenziali 2016 avesse spiazzato la stessa maggioranza del Grand old party (Gop). L'imprevedibilità, l'estremismo e la volubilità di pensiero di Trump erano una preoccupazione anche per il partito che – tra gli altri candidati – lo aveva infine fatto correre alle primarie, poi conquistate. Il generale ed ex consigliere alla Sicurezza H.R. McMaster era, con l'ormai ex segretario di Stato Rex Tillerson, uno dei conservatori a fare da argine all'irragionevolezza e alle stravaganze di The Donald, specie in politica estera.
TERREMOTO A WASHINGTON. Un intralcio, come altri fatti fuori in precedenza. La lunga lista di cacciati dall'Amministrazione Trump non risparmia falchi come l'ex spin doctor Steve Bannon: a volte è questione di carattere. Ma se l'uscita dall'entourage della Casa Bianca di un estremista come Bannon aveva tranquillizzato la comunità internazionale, la purga di Tillerson e McMaster fa tremare mezzo Medio Oriente e non solo. Con l'ex capo della Cia Mike Pompeo e l'ex ambasciatore John Bolton piazzati, nell'ordine, al loro posto, un falco come James Mattis al Pentagono, che pure finora aveva frenato Trump, può tornare degno del soprannome nella guerra in Iraq, «cane pazzo». Attaccando nuovi Stati canaglia.

1. L'Iran: trema l'accordo sul nucleare, all'orizzonte nuove sanzioni

Resisterà Mattis al Pentagono? Quando il generale a capo dei comandi in Africa e in Medio Oriente fu pensionato da Barack Obama, perché troppo duro sull'Iran, sembrava impossibile pensarlo, qualche anno dopo, a persuadere (invano) Trump a non ritirarsi dal Trattato sui cambiamenti climatici o a non far saltare l'intesa con Teheran. Ma pare che The Donald non l'abbia cacciato perché caratterialmente, con Mattis, va d'accordo. In più lo attrarrebbe il nomignolo «cane pazzo» affibbiatogli per frasi come «è divertente sparare a certe persone in Afghanistan».

DA FALCHI A SUPER-FALCHI. Se alle riunioni ci sarà un superfalco come Bolton, il falco Mattis non riuscirà più a far quadrato sul presidente degli Usa. Per esempio sul dossier Iran: Bolton è un irriducibile della guerra a Saddam Hussein, che progettò e rivendica con orgoglio. Paladino della lotta alle presunte armi chimiche e di distruzione di massa, promette fuoco e fiamme contro l'Iran: nuove sanzioni, come minimo e stop all'accordo internazionale sul nucleare. Ha promesso il «cambiamento del regime di Teheran», come prima di rovesciare Saddam Hussein.
L'ex ambasciatore all'Onu Bolton è per consegnare Gaza all'Egitto e la West Bank alla Giordania

2. Il Libano: ok ai raid di Netanyahu?

Dal Pentagono, Mattis dovrà spiegare a Bolton come mai ha cambiato idea sull'Iran «più forte minaccia del Medio Oriente» e anche perché mai Gerusalemme non può essere la capitale esclusiva di Israele. Il nuovo consigliere alla Sicurezza di Trump è uno che traccia gli Stati col righello e ha le idee chiare: Israele non si tocca; la Siria va assegnata ai ribelli, con buona pace delle riconquiste del regime di Bashar al Assad e delle macerie lasciate dagli Usa nel confinante Iraq; soprattutto, l'Iran deve essere allontanato dai confini dello Stato ebraico.

UN ATTACCO NELL'ARIA DA MESI. Ragion per cui, prima di un attacco diretto ai pasdaran persiani, a finire nel mirino potrebbe essere il Libano, retto di fatto dalle milizie filo-iraniane degli Hezbollah. Nel Paese dei Cedri un nuovo attacco di Israele è nell'aria da mesi, con l'avanzata di Assad in Siria e dei pasdaran alleati che guadagnano influenza nei due Stati. La missione Onu Unifil in Libano è in allerta per il muro costruito da Israele al confine e una crisi è stata appena sfiorata con l'Arabia Saudita: il trio Pompeo, Bolton e Trump potrebbe dare un assist formidabile al premier israeliano Benjamin Netanyahu, pronto ai raid.


3. L'Arabia Saudita: anche Riad può avere l'atomica Quanto all'Arabia Saudita, i siluramenti di Trump cadono nel mezzo della lunga visita negli Usa dell'erede al trono di Riad Mohammed bin Salman. Di fatto reggente di re Salman padre, il principe saudita che contro l'Iran ha intrapreso una devastante guerra in Yemen, alla Casa Bianca ha paragonato la Guida Suprema iraniana Khamenei al «nuovo Hitler» che vuole espandersi in Medio Oriente e rivendicato il diritto «all'atomica, se Teheran la svilupperà». Tra Trump e bin Salman l'intesa è eccellente Bolton potrebbe dar man forte alle mire di Riad.
CONTRATTI PER 350 MILIARDI. Per l'occasione l'amministrazione Trump ha approvato nuove vendite di armamenti per 1 miliardo di dollari all'Arabia Saudita (tra i quali oltre 6.500 missili), dopo l'accordo di un anno fa della commessa di 110 miliardi tra armi e sistemi di difesa. In prospettiva si punta a contratti con gli Usa per 350 miliardi in armamenti in 10 anni. Come Trump, Bolton è famoso per agire e vista la legalità internazionale dell'accordo sul nucleare con l'Iran – anche l'Ue, tra le parti firmatarie è intenzionata a mantenerlo – potrà aiutare bin Salman a «sviluppare velocemente la bomba atomica».

4. Palestina: la soluzione dei tre Stati

Il 14 maggio aprirà i battenti l'ambasciata americana a Gerusalemme e il nuovo consigliere alla Sicurezza degli Usa potrebbe anche stravolgere i piani di pace tra Palestina e Israele. La soluzione dei due popoli nei due Stati, con Gerusalemme Ovest capitale di Israele e la parte Est della Palestina, non gli è mai piaciuta. Bolton è un fautore dei cosiddetti tre Stati: Israele; la Striscia di Gaza consegnata all'Egitto e la West Bank palestinese alla Giordania; Gerusalemme naturalmente annessa in toto a Israele, anche la parte Est, con la città vecchia, per l'Onu sotto occupazione illegale.
EQUILIBRI DELICATI. Va da sé che, per quanto dialogante con gli Usa, re Abdallah di Giordania punterebbe i piedi, men che meno sarebbero contenti del dono i militari egiziani. L'estromissione dei palestinesi, martiri per tutti gli arabi, metterebbe in grossa difficoltà anche l'Arabia Saudita che, avvicinandosi a Trump, inevitabilmente si accosta a Israele. Ma con Bolton c'è il genero del presidente degli Usa, l'ebreo Jared Kushner, vicino di famiglia a Netanyahu e come lui fervente anti-iraniano e anti-palestinese. Insieme a Trump e Pompeo, quattro elefanti nella cristalleria israelo-palestinese.

mercoledì 21 marzo 2018

Museo della Filanda — Musei,

Un'antica fabbrica di seta, i cui cascami servivano per realizzare il cordame delle navi costruite all'Arsenale di Venezia.
Il visitatore diventa protagonista di una vera e propria esperienza, rivivendo quello che era il lavoro nell’antica fabbrica della seta. Si toccheranno con mano i bachi…
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Renier Paolo — Persone — Venipedia®

#Accaddeoggi: il 21 novembre 1710 nasceva Paolo Renier, che fu tra gli ultimi dogi di Venezia. Per l'esattezza il 119°. Uomo di cultura, aveva tradotto Platone in veneziano.
Paolo Renier fu il 119° doge della Serenissima (14 gennaio 1779 - 2 marzo 1789).
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Br, terrorismo e il mestiere della vittima: un fondo di verità c'è

Br, terrorismo e il mestiere della vittima: un fondo di verità c'è

Le parole della brigatista Balzerani fanno scalpore. Ma un'attitudine autocelebrativa di certi cognomi esiste. Solo che non tocca agli ex della lotta armata dirlo. Per rispetto ai superstiti sommessi e atipici.


SGRADEVOLE REITERAZIONE DEL DOLORE. Non solo nel terrorismo. Anche e specialmente nell'alone della spoon river di stampo mafioso è fiorita nel tempo una attitudine autocelebrativa che non di rado lascia perplessi. Quando la vittima scade nel vittimismo, quando il suo ruolo di testimonianza necessaria degenera in vittimologia? Quando comincia a riscuotere i suoi prezzi, quando viene arruolata dai partiti e da questi infilata, senz'altra ragione che il trauma pregresso, nelle istituzioni ai massimi livelli, nel para Stato, nella televisione di Stato, nel mondo editorial-culturale. A quel punto si innesca un meccanismo di reiterazione del dolore che somiglia ai saldi di fine stagione e lascia un retrogusto sgradevole anche se rischioso da criticare.
COI COGNOMI SI PUÒ FARE CARRIERA. Di nomi non è necessario farne, ma gli esempi sono sotto gli occhi di tutti e c'è qualcuno che ha fatto carriera quale figlio di un cognome portato a spasso da decenni, con rivolti di gabbana anche sconcertanti, assalti al carro del vincitore di turno. Altri si accontentano della sovraesposizione, della processione per istituti scolastici dove regalano le solite banalità rassicuranti del “non abbassare la guardia, tenere alta la testa, non odiare nessuno” e fanno professione di quel perdonismo cattostrampalato che tanto piace ai media con in testa un'idea meravigliosa: consolare, riappacificare, ricomporre, rassicurare. Come se fosse quello il compito di chi informa.

Barbara Balzerani.

La “Compagna Luna”, tutto considerato, tutti i torti non ce li ha. Il problema è che non può essere lei a parlare. Anzitutto perché lei e quelli e quelle come lei sono, se si preferisce sono stati, fabbriche di vittime. La sola Balzerani ha in curriculum, oltre al ruolo di primo piano nell'intero delitto Moro a partire dalla strage di via Fani, l'uccisione di Girolamo Minervini, la rivendicazione dell'omicidio del sindaco fiorentino Lando Conti e un bel po' di altre imprese.
LETTURE FARNETICANTI DEGLI EX BR. Se non gradisce l'inflazione di parenti in occasione delle ricorrenze tragiche, cominciasse a praticare un salutare esame di coscienza, a “ripensare”, come dicono i suoi ex colleghi, l'esperienza personale sulla quale non si stanca di riproporre letture farneticanti o di comodo, comunque di una pochezza sconfortante se si pensa che questa è la gente che per anni ha ridotto il Paese a ostaggio della paura. Non da soli, certo, ma insomma i manovali, gli operativi, questi erano.
UNA GARA DI SOVRAESPOSIZIONE. E qui, a proposito di sovraesposizione, non si può scampare una questione ulteriore: chi è più insistente, le vittime con le loro lamentazioni oppure i terroristi coi loro ricordi, i richiami, le nostalgie allucinanti, le dietrologie a volte impuni? Una come questa Balzerani non tace mai, non manca mai, ha preso i suoi ergastoli ma ovviamente è libera, come tutti suoi “colleghi”. Scrive libri, li presenta ovunque, pontifica nei centri sociali, questa è gente che chiamano nelle buone scuole e anche qui ci sarebbe da mettersi qualche mano sulla coscienza o se non altro tra i capelli.
Se una terrorista arriva a irridere su Facebook Moro e poi lo sfrutta, beh, una così non può proprio lamentarsi per l'invadenza di nessuno
Hanno pagato i loro debiti? Poco e male, obietta qualche vittima più o meno di professione, se con i loro pacchi di ergastoli sono stati “reinseriti” alla svelta in quella sorta di amnistia di fatto che Pecorelli preconizzava e che puntuale è arrivata, caso unico nella storia delle democrazie occidentali.
LO STATO NON DEVE INFIERIRE, MA... Ma diciamo pure che è giusto, che se lo Stato ha vinto non deve infierire sugli sconfitti, diciamo che è giusto e normale ascoltare anche la campana di chi ha ammazzato e ha perso la sua partita. Il punto, però, è che quando una terrorista, ex terrorista, come preferite, arriva a irridere su Facebook - «che palle il quarantennale per Moro, chi mi ospita?» - e poi lo sfrutta, beh, una così non può proprio lamentarsi per l'invadenza di nessuno. E non può, dopo, fare la vittima a sua volta se la rimbeccano.
ASSURDO NARCISISMO DEGLI EX BR. Chi ha giocato di più con le parole in tutti questi anni? C'è un narcisismo negli ex della lotta armata che è sconcertante. A chi scrive la Braghetti disse: «Me lo ricordo come un periodo fantastico, irripetibile». Molti lo fanno coincidere con la gioventù, sorta di scoutismo in mitraglietta; tutti scialano in arabeschi sentimentali e ci senti sotto i rimpianti e gli stravolgimenti virtuosi, non terrorismo ma guerra difensiva «al regime delle carceri speciali e delle condanne sommarie». Che è un bel ribaltare la frittata. Spiegano anche che non conveniva, la rivoluzione, perché è andata buca.

Aldo Moro prigioniero delle Br.

Nessuno nella lunga fase del fall out terroristico è stato così presente, interpellato, intervistato, consultato, ammirato, ascoltato, cercato, pubblicato, fotografato, ospitato come i terroristi che furono. Nessuno ha prodotto tanta fluviale, ancorché trascurabile, pubblicistica, memorialistica e perfino qualche romanzetto d'appendice guerrigliera o di autocompiacimento ballista (il libro Il Prigioniero, della citata Braghetti, venne demolito, fatti alla mano, praticamente in ogni sua riga dal magistrato Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, il prigioniero in questione).
BRUCIATI NELLA SCOMMESSA ESISTENZIALE. Ma chi se non i vecchi sodali del milieu antagonista, dell'album di famiglia, gli scaltri attendisti capaci di fortunate carriere, ha aperto ai più sprovveduti che si bruciarono nella scommessa esistenziale, rivoluzionaria le porte dei partiti, delle case editrici, dei giornali, delle televisioni, dei teatri, delle scuole, nel segno di un dialogo il più delle volte peloso?
MEMORIE DI FENOMENI SOVVERSIVI. Gli sforzi di comprensione di questi grafomani passati dalla rivoltella alla penna si sono dimostrati perlopiù velleitari: sono a loro modo illuminanti le memorie di Mauro Rostagno che affondano nella fase preliminare, studentesca, del fenomeno sovversivo: «Io e Renato [Curcio] vivevamo facendo le supplenze. Si parlava di tutto, di scuola, di come trasformare l'Università, dell'Internazionalismo, del Che Guevara, di Lang, di Freud. Renato mi spaccava le palle con Camus e il suicidio».

Mauro Rostagno.

E ancora: «Vivevo con Renato e Paolo Palma in una casa abbandonata. Eravamo poveri da far schifo. Rubavamo un casino di mele che mettevamo nella stanza della frutta, tutta la casa era molto profumata. Un giorno arrivò un matto di nome Tito Tomba. Comunicava con gli spiriti ed era vero. Fece un affresco con me nel mezzo, Renato Curcio da una parte e senza una spalla perché non gli voleva bene, Paolo dall'altra».
UMORISMO SURREALE E INVOLONTARIO. Frutta e spiritismo come culla della rivoluzione. Anche le memorie brigatiste di Patrizio Peci sono in certi passaggi di un umorismo surreale quanto involontario. Più in definitiva, margine di confronto non sussisteva e non c'è oggi, ciascuno rimane sulle proprie posizioni, che nel caso dei reduci della lotta armata sono comprensibilmente distorte. Come si narra in un diario tremendo, la testimonianza, straziante e umanissima, di uno fra i meno ricordati e i più torturati, se una classifica del dolore è lecita.
UN URLO MUTO CHE NON TROVA ASCOLTO. L'architetto carcerario Sergio Lenci racconta il suo martirio nel libro Colpo alla nuca. Diario afasico: il commando di Prima linea che lo “semigiustizia” il 2 maggio del 1980 gli lascia una pallottola saldata alle ossa del cranio, che intacca anche le corde vocali. Come uno ritornato dal lager, Lenci capisce che il suo urlo muto non interessa a nessuno: nessuno vuole sentire il racconto dell'esecuzione, della penosa degenza, della atroce convalescenza, dell'impossibile ritorno alla normalità e poi dell'allucinante processo, segno dell'ambiguità poderosa di una macchina statale che vuole solo condurre alla rimozione forzata, fino al tarlo che non smette mai di scavare: perché a me?

Sergio Lenci.

Lenci non troverà risposta, malgrado un fitto carteggio con i suoi aguzzini: ed è questa latitanza di una ragione, una ragione seria, discutibile, sostenibile, a ferire di più. Il “perdono” di Lenci è di natura diversa. Formalmente non c'è, ma egli non si nega a un dialogo epistolare con i suoi carnefici, una in particolare, una ragazza che vorrebbe conoscere da lui, dalla sua stessa vittima, le ragioni di un gesto così abietto.
TERRORISTI CHE NON ACCETTANO RISPOSTE. Il rovesciamento dei ruoli, della stessa logica, è allucinante e inutile: la ex terrorista, pur nel suo rimorso sincero, non è in grado di capire altre ragioni che quelle che ha già in testa, non riesce ad accettare le risposte, pazienti, civili, quasi paterne, che le giungono dal suo bersaglio. Il diario si chiude registrando l'ennesima delusione, la sconfitta dell'incomunicabilità, è il ferito a vita che deve dar fondo a tutta la sua riserva di pietà per chi lo ridusse in uno stato pietoso. Sergio Lenci è morto nel 2001 dopo 21 anni di calvario. La via che il Comune di Roma gli ha dedicato nel 2007 non riscatta un solo giorno del suo dolore mite.
MA LE VITTIME SONO PURE ATIPICHE. Lenci era una vittima. Sommersa e sommessa. Non di mestiere: una di quelle che gli ex come Balzerani “rivendicano” e liquidano come effetti collaterali. C'è un'altra vittima atipica, uno che non sopporta neanche lui le “viptime”, come le chiama e sarebbero i professionisti del vittimismo glamour, quelli che smaniano per incontrare gli aguzzini dei loro cari, per farsi fotografare nell'abbraccio complice, sorta di cortocircuito della fama famigerata che sta benissimo ai reduci di entrambe le parti.

Massimo Coco.

Massimo Coco, figlio di Francesco, il primo giudice abbattuto insieme con la scorta dalle Brigate Rosse nel 1976 a Genova, ha scritto Ricordare stanca, libro di dolore composto per dire: no, non chiudo conti aperti come ferite perenni, non se me lo ponete come un obbligo, non sul presupposto dell'irrisione da parte di chi mi ha straziato la vita. Lo hanno compatito in fama di rancoroso.
IL MESTIERE È ANCHE QUELLO DELL'ASSASSINO. Coco ha voltato le sue pagine, è professore di Conservatorio, non cerca ribalte, se lo chiamano trova doveroso non sottrarsi ma sempre con un'ombra di fastidio, quel disagio che nasce dal pudore. Dalla sua pagina Facebook ha semplicemente risposto a Barbara Balzerani: «Ti costringe al mestiere della vittima chi ha scelto il mestiere dell'assassino».

lunedì 19 marzo 2018

Dati rubati a Facebook

19 marzo 2018

Dati rubati a Facebook: l'attività di Cambridge Analytica ai raggi X

L'algoritmo utilizzato per profilare gli elettori. Gli intrecci con ambienti della Difesa inglese. E quelli con Bannon. Breve storia della la società che ha lavorato (contro le regole) per le vittorie di Trump e della Brexit.

Lunedì 19 marzo Facebook si è svegliata nella sua peggiore mattinata di Borsa da mesi, -5,2% all'apertura degli scambi e -6,7% in chiusura, dopo che nel fine settimana due inchieste del New York Times e del Guardian hanno rivelato come i dati di circa 50 milioni di utenti del social network - stime fatte dai due quotidiani - siano stati utilizzati impropriamente da una società di data analytics inglese, la Cambridge Analytica, per tracciare profili psicometrici dettagliati degli utenti e indirizzare loro messaggi targettizzati durante diverse competizioni elettorali, tra cui quelle che hanno portato alla vittoria della Brexit nel Regno Unito e a quella di Donald Trump alla Casa Bianca.
MUELLER INDAGA SU CAMBRIDGE ANALYTICA. La vicenda è molto intricata e ha numerosi risvolti, anche legali: Cambridge Analytica è finita nel fascicolo del procuratore federale Robert Mueller che indaga sulla presunte interferenze russe nella campagna elettorale americana del 2016, e diversi parlamentari negli Stati Uniti e in Inghilterra ora chiedono l'apertura di inchieste dedicate per appurare se Facebook fosse consapevole dell'uso improprio dei suoi dati da parte della società.


Cambridge Analytica è una azienda inglese nata nel 2003 come spin off dell'Scl Group, una società di comunicazione strategica e ricerca comportamentale fondata nel 1993 da Nigel Oakes e specializzata in analisi predittive. L'Scl ha due dipartimenti, Scl Defence e Scl Elections, che lavorano per conto di governi e agenzie private - hanno collaborazioni anche con il ministero della Difesa inglese e con la Nato – ai quali, come spiegano sul loro sito, forniscono «dati, analisi e strategie», ed elaborano campagne di comunicazione, secondo una metodologia sviluppata dal think tank Behavioural Dynamic Institute. In sostanza usano dati e big data per orientare il consenso delle persone intorno a certi temi e produrre dei cambiamenti effettivi nei loro comportamenti di voto o nelle loro scelte politiche. Dalla Malesia al Kenya, Scl è stato attivo in decine di elezioni soprattutto nei Paesi emergenti fino a quando, nel 2012, per entrare sul mercato americano, ha creato una nuova società, la Cambridge Analytica, che prima di lavorare alla campagna di Trump è stata coinvolta in 44 competizioni elettorali negli Stati Uniti.
NIX E LA SCHEDATURA DELLE NOSTRE PERSONALITÀ. Come opera Cambridge Analytica? Raccogliendo dati sui cittadini relativi all'età, al sesso, al reddito, alla razza, all'istruzione, alla posizione geografica, insomma tutti quelli a cui riesce ad avere accesso anche acquistandoli dai cosiddetti “broker di dati”, società che raccolgono informazioni di varia natura sulle persone e le rivendono. Negli Stati Uniti, dove le leggi sulla privacy sono meno stringenti che in Europa, questo commercio è molto più sviluppato. In un video pubblicato su YouTube dal titolo The Power of Big Data and Psycographics (Il potere dei big data e la psicografia) - l'amministratore delegato di Cambridge Analytica, Alexander Nix, spiega come la società sia riuscita a costruire profili psicologici degli utenti basandosi su una tecnica psicogeografica fondata sul punteggio Ocean: openness, conscientiousness, extraversion, agreeableness and neuroticism. Così è arrivata a costruire, sulla base di sondaggi, un archivio sulle personalità di migliaia, se non milioni di cittadini, e un modello che, come spiega Nix, è in grado di «predire la personalità di ogni singolo adulto negli Usa», dunque anche le sue paure, i desideri, le abitudini di consumo o culturali e così via.
L'algoritmo è stato messo a punto da un ricercatore di Cambridge, Michal Kosinski, secondo il quale bastano 68 like di su Facebook per tracciare un profilo
Questo modello si basa su un algoritmo è stato messo a punto da un ricercatore di Cambridge, Michal Kosinski, secondo il quale bastano 68 like di su Facebook per tracciare un profilo della personalità di un soggetto, da 150 a 300 per sapere di più della sua comunità e della sua famiglia. Con questi strumenti Cambridge Analytica ha lavorato alle campagne per il Leave in Gran Bretagna, e con il tema Trump durante la campagna del 2016. L'investitore principale della società è il miliardario Robert Mercer, che ha finanziato anche la campagna di The Donald e che è uno dei principali finanziatori del sito dell'estrema destra Usa Breitbart. Steve Bannon, l'ideatore di Breitbart, è stato anche manager della Cambridge Analytica.
50 MILIONI DI AMERICANI PROFILATI. Cosa c'entra Facebook con tutto questo? Guardian e New York Times, che indagano da anni sulla vicenda, hanno scoperto grazie alle rivelazioni di Christopher Wylie, un informatico di 28 anni che ha lavorato per la Cambridge Analytica tra il 2013 e il 2014 e che dice di essere stato uno degli ideatori del programma di microtargettizzazione psicologica, che l'azienda usava anche i dati ottenuti da Facebook da un'altra società, la Global Science Research fondata da Aleksandr Kogan. Kogan nel 2015 aveva sviluppato una app, This is your digital life, alla quale si poteva accedere tramite il proprio profilo Facebook. L'app è stata scaricata da 270 mila persone, che così davano il consenso ad accedere non solo ai propri dati ma anche a quelli dei propri contatti. In questo modo Kogan è riuscito a mettere insieme un archivio più ampio, che potrebbe arrivare a 50 milioni di persone, secondo i due quotidiani.
FACEBOOK SAPEVA? Kogan aveva assicurato a Facebook che quei dati venivano raccolti per fini accademici, ma in realtà li aveva venduti a Cambridge Analytica, violando le regole del social che proibiscono di vendere a terzi i dati raccolti. Nel 2016 Facebook ha chiesto a Kogan e Cambridge Analytica di distruggere i dati in loro possesso, le due società hanno assicurato di averlo fatto e Facebook si è fidato. Il 16 marzo, però, l'azienda di Zuckerberg - secondo alcuni perché aveva saputo dell'imminente pubblicazione degli articoli del Guardian e del New York Times - ha sospeso dall'uso della propria piattaforma Cambridge Analytica, Kogan e anche il whistleblower Wylie. Vale a dire due anni dopo la richiesta di distruzione dei dati a cui Facebook aveva creduto. Perché? Secondo Wylie il colosso di Menlo Park sapeva del problema fin dal 2015. La priorità, ora, sarà accertare se questo è vero.

mercoledì 14 marzo 2018

Ghega Carlo — Persone — Venipedia®

Il 14 marzo 1860, a Vienna, viene a mancare Carlo Ghega. Ai più forse sarà sconosciuto ma è stato un brillante ingegnere veneziano, artefice dell'imponente ferrovia del Semmering in Austria – tra le sue opere più famose e divenuta patrimonio UNESCO nel 1998 – e di alcuni dei più importanti tratti stradali, idraulici e ferroviari, del Nord Italia e dell'impero austro-ungarico.
Talmente importante il suo lavoro, da farlo finire nelle banconote austriache.
Brillante ingegnere veneziano, artefice dell'imponente ferrovia del Semmering in Austria – tra le sue opere più famose e divenuta patrimonio UNESCO nel 1998 – e di alcuni dei più importanti tratti stradali, idraulici e ferroviari, del Nord Italia e…
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