martedì 3 novembre 2020

 

Biografia

 

Nâzım Hikmet Ran, nasce a Salonicco il 20 novembre del 1901, anche se la registrazione fu effettuata il 15 gennaio 1902, da un'agiata famiglia aristocratica. Il padre, Hikmet Bey, era un diplomatico, figlio di Çerkes Nâzım Pascià, un console turco oltreché autore di poesie e racconti brevi (e da cui i genitori presero poi il nome per il futuro poeta), mentre la madre, Ayşe Celile Hanım, era una pittrice, appassionata di poesia francese, in particolar modo di Lamartine e Baudelaire, proveniente da una famiglia aristocratica di origini polacche.

A 18 anni si unì a Kemal Ataturk ccondividendo la sua lotta di indipendenza ma ben presto fu attratto dalla rivoluzione d’ottobre e si recò in Russia dove trascorse alcuni anni.

Dopo il suo ritorno in Turchia nel 1928, Hikmet aderì al Partito Comunista turco, scrisse articoli, testi teatrali ed altri scritti. Fu condannato alla prigione nel 1929 per affissione irregolare di manifesti politici e trascorse circa cinque anni in carcere ma venne amnistiato nel 1935. In questo periodo scrisse nove libri di poesie che avrebbero rivoluzionato la lirica moderna turca con l'uso di versi liberi. Si sposa con una donna che aveva già dei figli e per mantenere la famiglia e la madre rimasta vedova lavora anche come rilegatore di libri.

Dopo la morte del leader turco Kemal Atatürk (di cui Hikmet era uno strenuo critico, nonostante il suo appoggio giovanile), il quale apprezzava le sue liriche non politiche, e, in qualche modo, lo aveva difeso da una repressione eccessiva, il regime si irrigidì ancora di più. Nel 1938 un suo poema venne accusato di incitare i marinai alla rivolta; arrestato e processato, fu condannato a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività contro il regime, le sue idee comuniste e le sue iniziative internazionali anti-naziste e anti-franchiste. Nel frattempo divorziò dalla moglie. Alcune sue poesie di argomento politico furono proibite poiché considerate sovversive e lesive dell'onore dell'esercito, e per questo fu anche torturato e costretto a una dura detenzione, la quale culminò nel suo sciopero della fame di 18 giorni, che gli provocò i problemi cardiaci che l'avrebbero portato alla morte. In carcere scrisse molte altre poesie, tra cui la celebre lirica Alla vita. Scontò quasi 12 anni in Anatolia, nel carcere di Bursa, nel corso dei quali venne colpito dal primo infarto.

Fu l'intervento di una commissione internazionale composta tra gli altri da Tristan TzaraPablo PicassoPaul RobesonPablo Neruda e Jean-Paul Sartre nel 1949, a favorirne la scarcerazione nel 1950, in seguito ad una nuova amnistia. Una volta libero il governo organizza due attentati alla sua vita e tenta anche di arruolarlo nell'esercito nonostante i suoi problemi di salute. Nuovo matrimonio con Münevver Andaç, traduttrice in lingua francese e in lingua polacca, conosciuta quando lei lo visitava in prigione, a cui dedicò diverse poesie. Da lei ebbe un figlio, Mehmet.

Viene candidato nel frattempo al premio Nobel per la pace, all'equivalente sovietico (Premio Lenin) e vince il "World Peace Council prize".

Nel 1951, a causa delle costanti pressioni, fu costretto a ritornare a Mosca  dove scrisse anche "Ma è poi esistito Ivan Ivanovic?"satira contro la burocrazia e la dittatura stalinista, che avevano corrotto l'ideale socialista   ma la moglie e il figlio non poterono seguirlo.

Al figlio Mehmet dedicò una poesia carica di speranza nei confronti dell'umanità "Prima di tutto l'uomo".

 Nel 1960 si innamorò della giovane Vera Tuljakova, e, annullato il precedente matrimonio, la sposò in quarte nozze. Morì il 3 giugno 1963, a 61 anni, in seguito a una nuova crisi cardiaca incorsa mentre usciva dalla porta di casa (il numero 6 della via Pesciànaya a Mosca, dove si era trasferito dopo il matrimonio). Una delle sue ultime poesie è dedicata alla moglie e al tema della morte.

Hikmet è ricordato principalmente per il suo capolavoro, la raccolta Poesie d'amore, che testimonia il suo grande impegno sociale e il suo profondo sentimento poetico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nazim Hikmet, poeta turco, ha avuto una larga diffusione in Italia. Molte sue opere si possono trovare tradotte nella nostra lingua, lette in molte scuole mentre suoi poemi e drammi sono stati rappresentati e recitati nei circuiti alternativi democratici. Possiamo affermare con tranquillità che a partire dagli anni 50 gode di una certa popolarità nel nostro paese. Paradossalmente la critica letteraria ufficiale lo ha sistematicamente ignorato forse perché sconcertata dalla libertà delle sue forme poetiche, non riuscendo a catalogarlo in un genere letterario considerato sconosciuto e fuori dai canoni classici e istituzionali, dal canto suo il poeta ignorava sia i critici che la letteratura classica. Non si riteneva un letterato, personaggio che, a suo dire, di solito gode di una popolarità acquisita con il cumulo di libri  scritti e magari messo a confronto con i primi della classe. La genesi della sua poesia non deriva da un contesto tipico  ben definito, magari consolidato da altri scrittori ma dalla coscienza storica e dalla lotta politica rivolta al popolo di qualsiasi paese anche se analfabeta. Considerava la poesia un mezzo utile a divulgare la cultura, le emozioni, nel maggiore numero di persone. E’ forse questa l’anima essenziale della sua opera, l’aver dato coscienza dell’utilità della stessa non solo a una singola persona ma a quanti avevano voglia di leggere e capire quanto scriveva.

 

“Detesto non solo le celle della prigione ma anche quelle dell’arte, dove si sta in pochi o da soli. Sono per la chiarezza senza ombre del sole allo zenit che non nasconde nulla del bene e del male. Se la poesia regge a questa gran luce, allora è vera poesia. Credo che la forma sia perfetta quando dà la possibilità di creare il ponte più solido e più comodo tra me, poeta, e chi mi legge o mi ascolta.”

 

Nasce nel 1902 da famiglia aristocratica a Salonicco, città che rimane sotto il dominio turco fino al 1912, a 18 anni esce dall’Accademia di Marina e da tutte le tradizioni che lo, legavano alla famiglia per arruolarsi nell’esercito di liberazione di Kemal Ataturk che lotta per conquistare l’indipendenza dagli occupanti greci, francesi, inglesi. L’arrivo in Anatolia fu una svolta decisiva  nella sua esistenza. Vide per la prima volta in faccia e con altri occhi, i contadini, gli stessi che si prostravano nella polvere quando passava, lui bambino, nella carrozza del nonno. Entrò nelle capanne di fango, nelle grotte, comprese la loro fame millenaria, il loro linguaggio, scoprì i loro canti, dedicò a loro questa sua esperienza nel poemetto ”Anatolia” pubblicato in Turchia nel 1922, ma tutta questa sua attività da agitatore politico lo fa entrare nell’occhio della polizia che lo segue. Inizia a sentire parlare di marxismo, dell’Unione Sovietica e della sua rivoluzione, riesce in qualche modo a raggiungere clandestinamente Trebisonda e alla fine del 1921 è a Mosca dove si iscrive al KUTV (Università comunista dei lavoratori dell’oriente). Mosca in quegli anni era una fucina intellettuale, perno della cultura rivoluzionaria appena nata. Dalla fantasia teatrale di registi come Mayerhold e i suoi spettacoli che coinvolgevano attori e pubblico, Chagall che affrescava il teatro di stato, Eisenstein che prepara il suo primo film ma tanti altri che entusiasmano il giovane Hikmet. Purtroppo quando nel 1951 uscito dal carcere riesce a scappare dalla Turchia per ritornare a Mosca trova un profondo cambiamento. Tutti gli attori di quel fantastico periodo di innovazione rivoluzionaria erano stati cancellati dal socialismo conformista, tanto da indurlo a scrivere il dramma satirico: “Ma è mai esistito Ivan Ivanovich?” in cui attacca in modo spietato la nuova classe di burocrati che ormai domina l’Unione Sovietica. Il dramma verrà messo in scena da una compagnia di giovani attori ma dopo tre giorni sarà cancellato con motivazioni evasive anche se tutto questo non procurò alcun fastidio a Hikmet, ormai troppo conosciuto nel panorama letterario internazionale. L’amore nelle poesie di Hikmet non è mai funzionale a una forma di erotismo oppure a un ossessivo sentimentalismo, si inserisce nel suo vivere quotidiano senza grandi sconvolgimenti, con un costante equilibrio personale. La sua visione di donna fa parte di un mondo che completa il suo vivere. Amica, oltre che amante, non solo figura, oggetto o stimolo sessuale. La sua “donna” riunisce tutte le cose che ama, i suoi ideali, le lotte, il suo paese, la speranza di un amore che coinvolga l’esistenza in modo tangibile e reale. Ecco perché lui dava il meglio di se stesso nella poesia. Ricchissima la sua produzione poetica negli ultimi anni di vita. Scriveva di getto senza ritornare su quanto scritto, a volte imperfetto, scriveva in modo libero perché quello era il suo modo di esprimersi. Era felice se i suoi versi piacevano, alzava le spalle incurante del contrario. Regalava poesie alla gente perché ne facesse quel che voleva, importante era che servissero a una causa. Legatissimo alla sua terra scrisse sempre in turco e gli ultimi 12 anni che trascorse in esilio senza poter più rivedere il suo paese furono all’insegna della nostalgia anche se Mosca “la bianca città dei suoi sogni più belli”, come amava dire, lo aveva adottato. Si era sposato con una giovane sovietica, Vera, e nelle ultime poesie il pensiero della morte ritornava prepotente e accettato malvolentieri. Non moriva da rivoluzionario o in carcere dove aveva passato 13 anni della sua vita, vittima di una dittatura, per lui la morte ormai era fatale, poteva succedere ora o fra pochi mesi, qualche anno. Non ne aveva paura, la considerava una spiacevole umiliazione tanto che il dialogo che lui stesso aveva con lei si trasforma in un inno alla vita, tranquillo, solare. Morì il 3 giugno 1963 a Mosca in un appartamento dove abitava con la moglie Vera. Stava uscendo per fare una camminata nella bella giornata di sole ma l’infarto era stato fulminante, il primo lo aveva colpito vent’anni prima nel carcere di Bursa in Anatolia. Diceva che morire è indispensabile e di conseguenza si augurava una morte rapida, decisa come la sua vita. Alcuni giorni prima di morire aveva scritto la sua ultima poesia: “Il mio funerale”.

Hikmet è ricordato principalmente per il suo capolavoro, la raccolta Poesie d'amore, che testimonia il suo grande impegno sociale e il suo profondo sentimento poetico.

Da questo libro che consiglio vivamente a tutti di leggere ho tratto poco più di una decina di poesie. Non dico le migliori, sono tutte belle, ma le più significative per rendere omaggio a un grande poeta, forse poco conosciuto dai media ma sicuramente presente nel cuore di chi ama la poesia.

 

 

 

 

Francesco Danieletto

 

 

 

 

 

 

 

 

Poesie tratte da:

 

“Poesie d’amore”

Di Nazim Hikmet

Oscar Mondadori Libri

 

Nella mia nota d’autore mi sono avvalso  di alcuni

spunti tratti dalla prefazione di Joyce Lussu presente in:

 

“Hikmet”

Poesie

Grandi tascabili economici

Newton poesia

 

 

 

 

 

 

 

                                   

 

 

 

 

                                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                

 

POESIE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

              

 

 

                Il mio funerale

Maggio 1963

 

Il mio funerale partirà dal nostro cortile?

Come mi farete scendere giù dal terzo piano?

La bara nell’ascensore non c’entra

e la scala è tanto stretta.

 

Il cortile sarà, forse, pieno di sole, di piccioni

forse nevicherà, i bambini giocheranno strillando

forse sull’asfalto bagnato cadrà la pioggia

e al solito ci saranno i bidoni per l’immondezza.

 

Se mi tiran su nel furgone col viso scoperto, come usa qui,

forse mi cadrà in fronte qualcosa di un piccione, porta fortuna,

che ci sia o no la fanfara, i bambini accorreranno

i bambini sono sempre curiosi dei morti.

 

La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo

il nostro balcone mi accompagnerà col bucato steso.

Sono stato felice in questo cortile, pienamente felice.

Vicini miei del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Poesie pessimiste

 

Le piante, da quelle di seta fino alle più arruffate

gli animali, da quelli a pelo fino a quelli a scaglie

le case, dalle tende di crine fino al cemento armato

le macchine, dagli aeroplani al rasoio elettrico

 

e poi gli oceani e poi l’acqua nel bicchiere

e poi le stelle

e poi il sonno delle montagne

e poi dappertutto mescolato a tutto l’uomo

 

ossia il sudore della fronte

ossia la luce nei libri

ossia la verità e la menzogna

ossia l’amico e il nemico

ossia la nostalgia la gioia il dolore

 

sono passato attraverso la folla

insieme alla folla che passa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1959

 

Non ha strappato le ali alle mosche quando era piccolo

non ha legato barattoli alla coda dei gatti

né imprigionato scarafaggi

     nelle scatole di fiammiferi

non ha distrutto le case

      delle formiche.

E’ diventato grande.

E vedete il male che gli hanno fatto.

Quando è morto ero al suo capezzale

e mi ha detto: “leggimi una poesia

che canti il sole e il mare

le officine atomiche la luna artificiale

che canti la grandezza dell’uomo”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                Foglie morte

Lipsia, settembre 1961

 

Veder cadere le foglie mi lacera dentro

soprattutto le foglie dei viali

soprattutto se sono ippocastani

soprattutto se passano dei bimbi

soprattutto se il cielo è sereno

soprattutto se ho avuto, quel giorno,

     una buona notizia

soprattutto se il cuore quel giorno

      non mi fa male

soprattutto se credo, quel giorno,

      che quella che amo mi ami

soprattutto se quel giorno

      mi sento d’accordo

      con gli uomini e con me stesso

veder cadere le foglie mi lacera dentro

soprattutto le foglie dei viali

dei viali di ippocastani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                Mosca 1961

 

Le sei del mattino.

Ho aperto la porta del giorno ci sono entrato

ho assaporato

l’azzurro nuovo delle finestre

le rughe della mia fronte di ieri

sono rimaste sullo specchio

 

sulla mia nuca una voce di donna

tenera peluria di pesca

e le notizie del mio paese alla radio

 

vorrei correre d’albero in albero

nel frutteto delle ore

 

verrà il tramonto, mia rosa

al di là della notte

mi aspetterà

spero

il sapore di un nuovo azzurro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Berlino 1961

 

Nelle mie braccia tutta nuda

      la città la sera e tu

il tuo chiarore l’odore dei tuoi capelli

      si riflettono sul mio viso

 

Di chi è questo cuore che batte

      più forte delle voci e dell’ansito?

è tuo è della città è della notte

      o forse è il mio cuore che batte forte?

 

Dove finisce la notte

      dove comincia la città?

dove finisce la città dove cominci tu?

      dove comincio e finisco io stesso?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                Berlino 1961

 

 

                Anche questa mattina mi sono svegliato

e il muro la coperta i vetri la plastica il legno

si sono buttati addosso a me alla rinfusa

e la luce d’argento annerito della lampada

 

mi si è buttato addosso anche un biglietto di tram

e il giallo della parete e tre righe di scritto

e la camera d’albergo e questo paese nemico

e la metà del sogno caduta in questo lato si è spenta

 

mi si è buttata addosso la fronte bianca del tempo

e i ricordi più vecchi e la tua assenza nel letto

e la nostra separazione e quello che siamo

 

mi sono svegliato anche questa mattina

      e ti amo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1942

 

Il più bello dei nostri mari

è quello che non navigammo.

il più bello dei nostri figli

non è ancora cresciuto.

I più belli dei nostri giorni

non li abbiamo ancora vissuti.

E quello

che vorrei dirti di più bello

non te l’ho ancora detto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1943

 

Guardo in ginocchio la terra

guardo l’erba

guardo l’insetto

guardo l’istante fiorito e azzurro

sei come la terra di primavera, amore,

io ti guardo.

 

Sdraiato sul dorso vedo il cielo

vedo i rami degli alberi

vedo le cicogne che volano

sei come il cielo di primavera, amore,

io ti vedo.

 

Ho acceso un fuoco di notte in campagna

tocco il fuoco

tocco l’acqua

tocco la stoffa e l’argento

Sei come un fuoco di bivacco all’addiaccio

io ti tocco.

 

Sono tra gli uomini amo gli uomini

amo l’azione

amo il pensiero

amo la mia lotta

sei un essere umano nella mia lotta

ti amo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1947

 

 

Il vento cala e se ne va

lo stesso vento non agita

due volte lo stesso ramo

di ciliegio

gli uccelli cantano nell’albero

ali che vogliono volare

la porta è chiusa

bisogna forzarla

bisogna vederti, amor mio

sia bella come te, la vita

sia amica e amata come te

 

so che ancora non è finito

il banchetto della miseria

ma finirà…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1948

 

I questa notte d’autunno

sono pieno delle tue parole

parole eterne come il tempo

come la materia

Parole pesanti come la mano

scintillanti come le stelle.

Dalla tua testa dalla tua carne

dal tuo cuore

mi sono giunte le tue parole

le tue parole, cariche di te

le tue parole, madre

le tue parole, amore

le tue parole, amica.

Erano tristi,  amare

erano allegre, piene di speranza

erano coraggiose, eroiche

le tue parole

                erano uomini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1949

 

 

Sei la mia schiavitù sei la mia libertà

      sei la mia carne che brucia

      come la nuda carne delle notti d’estate

sei la mia patria

      tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi

      tu, alta e vittoriosa

sei la mia nostalgia

di saperti inaccessibile

nel momento stesso

in cui ti afferro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                Alla vita

1948

 

 

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

    come fa lo scoiattolo, ad esempio,

senza aspettarti nulla

    dal di fuori o nell’aldilà.

Non avrai altro da fare che vivere.

 

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che messo contro un muro, ad esempio le mani legate,

o dentro un laboratorio

      col camice bianco e grandi occhiali,

tu muoia affinché vivano gli uomini

gli uomini di cui non conoscerai la faccia,

e morrai sapendo

che nulla è più bello, più vero della vita.

 

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte

       pur temendola,

e la vita peserà di più sulla bilancia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questa poesia troviamo l’eredità spirituale che Nazim Hikmet lascia a suo figlio, quale insegnamento eterno. “Spero che la Turchia e il popolo turco, come tutte le nazioni e i popoli del mondo, un giorno sappiano parlare un unico linguaggio comune: quello della pace, della verità, della libertà, dell’eguaglianza, della dignità, dell’amore, della giustizia.”

 

Prima di tutto l'uomo (ultima lettera al figlio)

Non vivere su questa terra
come un estraneo
e come un vagabondo sognatore.

Vivi in questo mondo
come nella casa di tuo padre:
credi al grano, alla terra, al mare,
ma prima di tutto credi all'uomo.

Ama le nuvole, le macchine, i libri,
ma prima di tutto ama l'uomo.
Senti la tristezza del ramo che secca,
dell'astro che si spegne,
dell'animale ferito che rantola,
ma prima di tutto senti la tristezza
e il dolore dell'uomo.

Ti diano gioia
tutti i beni della terra:
l'ombra e la luce ti diano gioia,
le quattro stagioni ti diano gioia,
ma soprattutto, a piene mani,
ti dia gioia l'uomo!