“Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta. Purché sia una cucina, un posto dove…”
“vivere: la cucina luogo di passione e voluttà.”
Odio quegli appartamenti dove la cucina viene relegata quasi a ripostiglio nascosto dove si preparano i cibi che vengono poi portati trionfalmente nella più suntuosa sala da pranzo. La frenetica accensione di cappe aspiranti, gli spruzzi disperati dei vari deodoranti, pubblicizzati quotidianamente dalla televisione, affinché la puzza dei soffritti di aglio e cipolla, la maleducazione di questi odori, venga condannata e allontanata con grave ignominia da parte della società del panino e dell’insalata, che una volta alla settimana vuol fare bella figura con l’ospite di turno senza però far vedere o sentire come è stato preparato il cibo degustato in sala da pranzo-salotto tra piatti di ceramica, cristalli vari e quadri alle pareti che creano gravi problemi digestivi ai poveri ospiti, che non osano neanche chiedere cosa stanno mangiando. Quale ipocrisia! Certo cucine come quelle di una volta con la vecchia e impagabile stufa a legna oramai sono un sogno. La polenta è istantanea non viene più cotta a lungo: e poi chi la mangia più, fa tanto “ serial-contadino”. Basta uno snack per sentirsi in forma, dicono quelle ragazze longilinee che in televisione fanno pubblicità. Sono belle, per loro la cucina si riduce essenzialmente a un tavolino con un microonde, un frullatore e un fornello piccolino giusto per il caffè o qualcos’altro di veloce. Nessuno sa più cosa vuol dire la parola cucina, il vocabolario cita: ”locale attrezzato per la preparazione e la cottura delle vivande”. Per me è riduttivo, è snaturare l’essenza stessa del luogo che dovrebbe trasmettere entusiasmo(a me succede) nella preparazione e nella cottura dei cibi, fino al trionfo dei sughi, degli intingoli, degli arrosti, che mi fanno diventare un incallito peccatore di gola. Tra i miei ricordi di bambino, sì bambino perché avevo una nonna favolosa in cucina, ce ne sono tanti, forse varrebbe la pena di scrivere un libro su tutte le cose che ho appreso in quegli anni. Non parlo di ricette, quelle sono la sintesi finale delle spezie, del rosmarino, dell’aglio, tutti aromi che normalmente dovrebbero trovarsi lì. Provate a pensare per un attimo di entrare in una moderna cucina dove tutto è asettico, sterilizzato. Che odore sentite? Ammoniaca, detergente al mentolo o altro. Giusta la pulizia, ma date spazio anche agli altri “odori” altrimenti succede che non cucinate più niente per paura di sporcare: quando mai! Io ho avuto la sfortuna-fortuna, a seconda dei punti di vista, di nascere in un periodo dove le comodità e le frivolezze erano solo appannaggio di certa gente, quindi mi sono forgiato leggendo libri perché non c’era la televisione, e aiutando la nonna in cucina che mi ha trasmesso la sua passione per me diventata viscerale, stimolando la mia curiosità per sperimentare sempre cose nuove. Succedeva a volte che alla domenica, a casa da scuola, dormivi qualche ora in più e ti svegliava un profumo di gallina in brodo che ti riempiva il cuore di gioia e speranza per il mezzogiorno. Ti lavavi alla svelta e poi correvi giù di corsa saltando il caffèlatte e mangiando al suo posto una fumante tazza di brodo con il formaggio e il pane vecchio. Magari fuori pioveva, ma chi se ne fregava, la stufa scoppiava di salute, il gatto si stiracchiava cambiando posizione e da quel posto, “dalla cucina” non saresti più uscito. Ovviamente con il tempo le cose sono cambiate. Le grandi cucine non ci sono più, come non ci sono più le famiglie patriarcali di una volta. Ci si vergogna quasi a cucinare cibi poveri che diffondono nell’aria il loro profumo, quasi che presentarli in tavola sia una cosa umiliante, da mangiare di nascosto, senza che nessuno veda o senta. Certo una volta erano le donne che si sobbarcavano i maggiori oneri della cucina, adesso si sono emancipate, non ci stanno più ad essere considerate l’angelo del focolare: se sono fortunate ad avere ancora qualcuno che prepara loro il pranzo, bene, altrimenti con la scusa della dieta mangiano quello che capita. Comprendo le loro ragioni. Guai se tutto fosse rimasto immobile senza adeguarsi ai tempi. Il mio più gran difetto è che oltre ad essere un buongustaio sono in grado di farmi pressoché tutto, ecco perché prediligo la cucina come stanza principale della casa. Quando ho ospiti dò il meglio di me stesso, anzi al loro arrivo pretendo che facciano un sopraluogo per vedere di persona come procede l’esecuzione dell’opera e ne vado fiero. Oltretutto, ed è innegabile, rappresenta un punto di riferimento, di sicurezza. Anche se è piccola basta accendere un fuoco per prepararsi il pranzo o la cena, disporre poche cose essenziali sulla tavola e ci si sente come il naufrago che finalmente ha trovato un posto tranquillo dove ripararsi. Controllare il placido sobbollire della pasta, aggiustare di sale il sugo, nobilitarlo con qualche foglia di basilico e poi sedersi in santa pace e usare il rito del cibo come terapia rilassante, anzi, certi medici, anziché prescrivere tante medicine, dovrebbero consigliare questo metodo a parecchi pazienti. Avete mai fatto caso a quei film americani dove il protagonista di turno torna a casa la sera dal lavoro, butta via le scarpe, apre il frigo (sono quelli enormi, panciuti dove dentro c’è di tutto tranne quello che serve) prende la bottiglia di latte, un tramezzino, si butta sul divano, accende la televisione e dopo due minuti pure la sigaretta perché ha già finito di mangiare. E’ una questione di cultura. La cucina è cultura. Non serve avere un diploma di cuoco per farsi da mangiare, basta interessarsi al cibo, dargli la sua giusta importanza, trattarlo nella maniera in cui si tratta una bella donna, conoscerlo nei suoi momenti più intimi come se anziché in cucina si fosse in camera da letto. Un arrosto nel forno, del guanciale che sfrigola sul fuoco preludio di una superba amatriciana, una sogliola al burro: dite un po’ non li farete mica in salotto per caso? Una volta alcuni amici mi stuzzicarono chiedendomi quando avrei preparato uno dei miei soliti pranzetti speciali. Quando volete risposi, mi basta solo sapere in quanti siamo e se i gusti di tutti coincidono. Detto fatto ci siamo messi d’accordo per un sabato sera: quattro persone e libertà di fare quello che volevo. Mancavano tre giorni all’appuntamento e tre successive telefonate aggiunsero altre quattro persone: totale otto. Non mi preoccupai più di tanto ero arrivato anche a tredici. Feci un menù un po’ particolare: crostini caldi di lardo speziato, lumache alla bourguignonne, zuppa di cipolle alla francese, granelli di toro al pernod, contorni vari. Quando arrivarono al sabato sera, dopo le rituali presentazioni ( gli altri quattro non li conoscevo) li portai ad ispezionare la cucina, i vecchi amici fecero salti di gioia, eravamo una compagnia di buongustai, gli altri quattro rimasero perplessi:
"Ma quella che roba è?"
"Prova a indovinare" dissi io.
"Prova a indovinare" dissi io.
Aveva un tono di voce mieloso con le parole strascinate; gli fece eco la seconda:
”Se sperate che io mangi quelle cose” disse.
Uno dei ragazzi continuò:
”Non c’è mica un panino?”
Il quarto invece fu più possibilista:
”Io di questa roba non ne ho mai mangiata, però si può provare."
Era già qualcosa. Infatti fu lui a trascinare gli altri che dopo un po’ cominciarono a dire: però che buono, anche questo, meraviglioso, mancava poco che avessero un orgasmo. Il pranzo inutile dirlo fu un successo. Quando al caffè dissi loro che quelle sottili fettine di carne erano i coglioni del toro rimasero allibiti: erano da test psicologico. Non li vidi più però qualcuno mi disse che avevano cambiato abitudini alimentari: meno male a qualcosa ero servito.
Questo racconto ha partecipato al Premio letterario "La Seriola" di Dolo nell'anno 2001 e successivamente è stato inserito nel libro "Gocce di emozioni" 2009 opportunamente riscritto e ampliato.
Checcuswriter
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