giovedì 22 novembre 2018

SPETTACOLO 50 anni fa Compleanni, il White Album dei Beatles

SPETTACOLO 50 anni fa Compleanni, il White Album dei Beatles: perché uno dei dischi meno belli è anche uno dei più amati Non contiene brani iconici, non è l’emblema di un momento storico particolare e non è - musicalmente parlando - rivoluzionario. Eppure... Tweet di Diego Antonelli 22 novembre 2018 Parlando del White Album - o Doppio bianco o Album bianco, come potete indifferentemente chiamare senza tema d’essere fraintesi quel candido doppio album - intitolato in realtà semplicemente “The Beatles”, pubblicato 50 anni fa, il 23 novembre del 1968, nessun esperto o appassionato di Beatles vi potrà onestamente dire che si tratti del miglior lavoro dei quattro di Liverpool. Non contiene brani iconici, non è l’emblema di un momento storico particolare (come lo è stato il Sgt. Pepper’s per la summer of love) né di un momento particolare nella storia dei Fab Four (come il tormentato Let it be) e non è – musicalmente parlando – rivoluzionario, come lo furono Rubber Soul e Revolver, quando la crisalide divenne farfalla. Eppure. Eppure tantissimi appassionati di Beatles considerano il Doppio bianco (o White Album o Album bianco, quel che è certo è che nessuno lo chiama con il suo vero nome) un disco straordinario. Forse perché, come ha scritto con una bella intuizione qualche giorno fa sul suo profilo Facebook Marino Bartoletti, “(in questo album) trovo tutto quello che voglio a seconda delle mie sensazioni, dei miei momenti, dei miei umori”. Vero, verissimo. In effetti la cifra caratterizzante di questo lavoro è la sua varietà, il suo essere sfaccettato. Certo, in 30 brani c’è anche qualche caduta e – come scrivono alcuni critici – probabilmente si sarebbe potuto ricavare un singolo album notevolissimo facendo una selezione del materiale. Ma così non fu per una serie di ragioni che, a distanza di 50 anni sono più facili da comprendere. Il White Album arriva in un momento complicato nella storia dei Fab Four e nella storia della musica in generale. Arriva dopo una irripetibile sequenza composta da Rubber Soul/Revolver/Sgt. Pepper’s, un crescendo rossiniano di innovazione che in 18 mesi (dicembre ’65 - giugno ‘67) ha determinato un nuovo modo di fare musica e che segnerà per sempre un prima e un dopo. Ecco, il White Album è il subito dopo. E’ l’istante dopo il big bang, con tutto lo sgomento di cui può essere sovraccarico il momento in cui bisogna ricominciare daccapo a fare qualcosa che si è sempre fatto, ma in un contesto completamente rivoluzionato. E il fatto che a fare la rivoluzione siate stai voi non aiuta, anzi. Non è dato sapere se quella copertina immacolata dopo l’orgia di colori del Sgt.Pepper’s volesse essere anche la metaforica rappresentazione della sindrome da foglio bianco che colpirebbe qualsiasi umano in una situazione del genere. Quel che è certo è che questo improvviso understatement estetico marca da subito una precisa scelta di campo: quella di non entrare in competizione con il suo predecessore. E’ il segnale che il gioco a spostare sempre più in là il confine della rivoluzione è finito. Meno esperimenti, meno acrobazie da sala d’incisione, meno sovraincisioni e riversamenti. Meno lavoro per “il quinto Beatle”, il produttore George Martin, e molte più sessioni contemporanee. Come se i quattro avessero iniziato quella ricerca del loro originario spirito di gruppo che diventerà dichiarata, ossessiva e disperata oltreché fallimentare nel loro “quasi ultimo” lavoro, Let it be (il cui titolo originario doveva proprio essere Get Back). Ma la linea del tempo è una strada a senso unico e tornare indietro non è mai possibile. Rispetto alle origini i quattro ragazzi del Cavern (o di Amburgo) sono cresciuti e molto più dei 10 anni scarsi che li separano da quelle prime esperienze. L’ego di John e Paul è aumentato in maniera proporzionale al successo avuto e al loro fianco sta crescendo in capacità compositiva e consapevolezza di sé anche George. C’è un aneddoto che spiega bene questa evoluzione. I Beatles si trovano a Abbey Road per registrare While My Guitar Gently Weeps in tre lunghe sessioni: il 16 agosto, il 3 e il 5 settembre del 1968. Presenti e partecipanti tutti e quattro. Alle 3.45 del mattino dopo tre sfiancanti sedute di lavoro e di affinamento si decide che il nastro 25 è quello buono e definitivo. Tutti contenti tranne George che è l’autore della canzone e che torna nella sua villa di Esher nel Surrey per nulla soddisfatto. La canzone è bella, molto bella, decisamente la sua migliore fino a quel momento, il problema non è lì. Il punto è che John e Paul sono abituati a non prendere troppo sul serio i suoi brani, non si impegnano, non danno il massimo. E la canzone ne risente. Il giorno dopo l’appuntamento a Abbey Road è per le 19.00. George scrocca un passaggio in macchina dal suo amico Eric Clapton, che abita non lontano da lui. Durante il tragitto in macchina ha un’intuizione e chiede a Calpton di fermarsi a Abbey Road per suonare la chitarra nella “sua” canzone. Clapton prova a obiettare che “nessuno ha mai suonato in un disco dei Beatles e gli altri non gradirebbero”, ma George non vuole sentire ragioni: “La canzone è mia e io vorrei che tu ci suonassi”. Con la stessa determinazione, arrivato a Abbey Road, annuncia (non chiede, annuncia) agli altri tre che per l’occasione il gruppo si allarga. Il risultato fu eccezionale non solo per lo straordinario contributo di Clapton che fa piangere la sua chitarra come George non era riuscito a fare in tre giorni di registrazioni, ma anche perché, come disse lo stesso Harrison, la presenza di “slowhand” in studio spinse tutti a dare il loro meglio. Insomma, il White Album è il primo disco in cui i Beatles cominciano a essere meno gruppo. Tra Paul e John la sana competizione ha cominciato a sporcarsi di invidia e George reclama i propri spazi. Un album solo non può bastare a contenere l’ego dei tre musicisti a meno che tutti siano disponibili a rinunciare a qualcosa in nome del gruppo. In assenza di ciò la soluzione è un compromesso: si raddoppia lo spazio e nessuno rinuncia a nulla. La qualità viene sacrificata in nome della quantità. Il risultato finale è un album vario e sfaccettato, discontinuo e disomogeneo, certamente con alti e bassi, meno corale dei lavori precedenti e comunque… bellissimo. Perché anche se un po’ meno compatti, loro restano pur sempre i Beatles. Date queste caratteristiche possiamo dire che il White Album è un lavoro che ben si presta a una consultazione selettiva più che a una fruizione lineare, guidata dal mood del momento. Per celebrare il suo cinquantesimo compleanno vi suggeriamo una degustazione composta da 10 brani. Iniziate facendovi accarezzare dalla solare Dear Prudence, scritta per convincere Prudence Farrow, sorella dell’attrice Mia Farrow nonché compagna dell’avventura indiana dei Beatles, a uscire dalla sua capanna di Rishikesh dove si era rinchiusa da tre settimane a meditare: “Dear Prudence, won't you come out to play? Dear Prudence, greet the brand new day. The sun is up, the sky is blue, it's beautiful and so are you…”. Fate devota tappa sul malinconico assolo di chitarra di Eric Clapton nella splendida While My Guitar Gently Weeps. Sperimentate la felicità che dà tenere in mano una pistola calda inseguendo nella vertigine di mille nonsense (o doppi sensi) la “ragazza che non se ne fa scappare uno” di Happiness Is A Warm Gun. Crogiolatevi nella stanca pigrizia di John che in I’m So Tired scrive il secondo episodio di una storia cominciata su Revolver con I’m Only Sleeping (già che ci siete riascoltatevi anche quella). Ascoltate con indulgente curiosità Don’t Pass Me By, la prima canzone a firma “Starkey” (Richard Starkey è il vero nome di Ringo Starr) a finire in un disco dei Beatles. Commovetevi per la struggente dichiarazione d’amore che John fa a Julia (il nome è quello della madre persa in gioventù ma John dirà che la musa che ha ispirato questi versi va cercata in un ibrido tra la madre e Yoko Ono): “Half of what I say is meaningless but I say it just to reach you, Julia”. Forse il verso d’amore più bello scritto da Lennon. Fate un passaggio dovuto – data l’occasione – su Birthday di Paul Sorseggiate un acido bicchiere di vetriolo con l’invettiva Sexy Sadie dedicata al santone Maharishi Yogi colpevole di aver tradito la fiducia dei quattro dimostrandosi, nei suoi comportamenti assai terreni con le ragazze al seguito dei Fab Four a Rishikesh, non poi così santo. Ascoltate l’esperimento heavy metal di Paul che in Helter Skelter spinge i quattro a sputare l’anima (tanto che la canzone si chiude con l’urlo liberatorio di Ringo “I’ve got blisters on my fingers!”, ho le vesciche alle mani), non dimenticando che la canzone è diventata tristemente famosa perché Charles Manson dichiarò di aver trovato nel suo testo l’ispirazione per organizzare con la sua “Family” la mattanza di Cielo Drive in cui la notte del 9 agosto 1969 trovarono la morte Sharon Tate – moglie incinta all’ottavo mese del regista Roman Polanski – e altre quattro persone. E infine divoratevi tutta la scatola di cioccolatini Good News della Mackintosh, come fece Eric Clapton a casa dell’amico George, nonostante il mal di denti cronico che lo affliggeva all’epoca. La scena colpì a tal punto il Beatle da spingerlo a mettere in musica in questo divertissement intitolato Savoy Truffle i curiosi nomi dei cioccolatini contenuti nella scatola. Il tutto per dare una saggia raccomandazione all’amico Eric: “Creme Tangerine and Montelimar, a Ginger Sling with a Pineapple Heart, a Coffee Dessert, yes you know it's Good News. But you'll have to have them all pulled out after the Savoy Truffle”, te li dovrai far strappare tutti (i denti) dopo aver mangiato (anche) il Savoy Truffle!

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