lunedì 19 novembre 2018

I padrini del Blues scelti dai Rolling Stones


I padrini del Blues scelti dai Rolling Stones

Il gruppo ha scelto 42 brani della storia di questo genere. Un viaggio tra il Mississippi e Chicago, alla riscoperta dei grandi.  

E il blues è l'ultima volta di ogni cosa. È la malattia che non guarisce, è tutto quello che sei. È un canto di schiavi che prende la chitarra, diventa elettrico, diventa di moda, si riscatta, ma resta gatto selvatico, che non si fida, che non addomestichi mai davvero. È facile da fare, le solite 12 battute, ma difficile da sentire, da essere. È quella cosa che non sai cosa sia, ma o ce l'hai, oppure non ce l'hai e allora meglio lasciar perdere. E non ha senso prendere una chitarra se prima non hai capito il blues.
 
Il blues è l'inizio e la fine di tutto, anche dei Rolling Stones che finiranno come hanno cominciato, che due anni fa hanno fatto un disco di standard quasi per sbaglio, a 55 anni dalle prime acerbe cover, vendendo 3 milioni di copie e adesso hanno curato una raccolta in due dischi, un vero e proprio viatico con i pezzi che considerano indispensabili. Per dire a chi li ascolta che sta tutto lì, che si ricomincia sempre da capo. Una educazione che non è solo sentimentale, una critica di una ragion pura musicale che, in 42 brani, recupera anche episodi risuonati nell'ultimo Blue & Lonesome. «Facciamogli sentire gli originali, scopriranno qualcosa di nuovo», devono essersi detti. Confessin' the blues, per Bmg/Universal, esce in formati diversificati: 2cd, set di lp 2x2 e in cinque vinili da 10" (imitando le versioni originali di 78 Rpm) per i superpuristi. Tutte le versioni includono le note di copertina del critico musicale Colin Larkin, mentre un bookpack contiene le stampe artistiche del famoso illustratore del blues Christoph Mueller. La copertina, bellissima, è un disegno apposito di Ron Wood, che ha curato anche la parte grafica. Quarantadue classici e, nei solchi, una foresta di storie, di tragedie, di misteri, di dolore scintillante.

VIAGGIO NELLA CHICAGO CAPITALE

La raccolta offre, come è sacrosanto, uno spettro esauriente della prima metà del Novecento – dopo, sarebbero arrivati proprio loro, i nuovi ragazzi, a ritradurre la musica del diavolo per la modernità -, ma è chiaro che la scelta non poteva non privilegiare la Chicago elettrica. Così, a spasso per le canzoni torna la competizione a distanza fra Howlin' Wolf e Muddy Waters.
Howling' Wolfe e la sua chitarra elettrica.

HOWLIN' WOLF, IL GIGANTE

​Il primo tradiva tutto il disagio e la diffidenza di un contadino del Mississippi scaraventato nella metropoli e risolto ad adottare uno stile viscerale; fisico da peso massimo, un enorme ponte da West Point a Chicago dove giunse chiamato dai Chess nei primi Anni 50. Questo fu Howlin' Wolf, che ruggiva e ululava accompagnato dalla chitarra blues-garage di Hubert Sumlin: insieme definirono uno stile dentro al blues. Nella voce Chester Arthur Burnett aveva la nera profondità di un popolo. Mr “Back Door Man” è stato un gigante in tutti i sensi, ululava come nessuno, ma tutti dopo di lui hanno cercato di imitarlo, fino al metal.

MUDDY WATERS E LA CHESS RECORDS

Più elegante, capace di proporre una versione non meno “autentica” ma più commestibile di un genere che, provenendo da artisti marginali, per giunta di colore, non poteva non ingenerare preoccupazione e pregiudizio, Muddy Waters spicca il volo per il successo con la leggendaria Chess Records, e, quando ascolta per la prima volta un suo disco, non può credere che quella voce gli appartenga, che sia proprio lui a cantare: è quasi scioccato dalla possibilità di ascoltarsi. Quando, nel 1964, gli esordienti, imberbi Rolling Stones si spingono a Chicago, sulle tracce del blues, trovano proprio alla Chess, il loro Shangri-la, Muddy intento a dipingere le pareti del soffitto; scende dalla scaletta e, chiazzato com'è di vernice, si offre di aiutarli a scaricare i loro strumenti. I ragazzini sono sconvolti, un loro mito che gli fa da facchino: ricevono una lezione di grandezza e di umiltà che mai dimenticheranno. Questo almeno narra la leggenda, da più parti confutata: ma è una leggenda blues, meravigliosa, e alla fine si è imposta sulla realtà.
Chuck Berry e Keith Richards.

BUDDY GUY E IL BLUES ELETTRICO

In una simile carrellata non poteva mancare Buddy Guy, con cui gli Stones, quando capita, suonano ancora adesso. Buddy lascia la Louisiana per Chicago nel 1957 e lancia la sua carriera lungo la strada di un blues elettrico che influenzerà innumerevoli chitarristi, da Jimi Hendrix a Eric Clapton. Gli Anni 60 sono il suo apice, imperdibile l'album Buddy's Blues, con registrazioni del periodo 1960-1967. Buddy Guy è stato il “pilota” di tanti, con uno stile insieme aggressivo e raffinato. Se capitate a Chicago, un salto al Buddy Guy's Legend fatecelo: magari potete prendervi un po' di Champagne & Reefer. L'importante è non perdere la testa se, intanto che siete lì al bancone, vi vedete entrare quattro tipi dall'aria consumata che, di punto in bianco, chiamano il padrone e insieme si mettono a improvvisare un blues.

LA LEGGENDA CHUCK BERRY

E figuriamoci se, nel cuore degli Stones, poteva mancare Chuck Berry, passato alla storia come l'inventore – o uno degli inventori – del rock and roll, ma, prima di tutto, bluesman autentico: lui, anzi, voleva farsi conoscere proprio come cantante e chitarrista blues, senonché alla splendida The Wee Wee Hours, Leonard Chess preferì Maybellene, che fondeva elementi blues e country in un modo nuovo e irresistibile: così nacque la leggenda di questo artista straordinario, un misantropo carogna capace di raccontare la gente alla gente come nessuno. Ha subito il razzismo più becero, la persecuzione giudiziaria, è passato dalle rapine giovanili, anzi minorili, a mano armata alle suite dei migliori alberghi della terra: ma non è mai cambiato, furbo, carogna e sospettoso. Se un giornalista gli chiedeva quando fosse nato davvero, sapeva già l'immancabile risposta: «Questi sono solo fottuti c**** miei» (Trump al confronto è un'orsolina). Non ha mai partecipato a eventi o festival di beneficenza, perché «conosco un solo ente di beneficenza e si chiama Chuck Berry». Unico anche nell'impresa di prendere a pugni Keith Richards senza farsi uccidere, anzi quello andava in giro tutto fiero a mostrare l'occhio nero: «Me l'ha fatto Chuck!». Anni dopo, Berry si sarebbe scusato con... Ronnie Wood. E, a chi gli faceva notare che aveva confuso i chitarristi, opponeva una risposta impeccabile: «Ma che diavolo ne so io, sono quei bastardi di bianchi a essere tutti uguali».
E chi immagina, poi, che tra il 1943 e il 1949 B. B. King studia il blues, lo trasmette e poi lo incide? B. B. King sta per “Blues Boy”, uno dei nomi con cui il bluesman si segnala come disc-jokey alla radio Wdia di Memphis. Ma il passaggio dalla musica trasmessa a quella suonata è dietro l'angolo: nel 1949 King comincia a registrare per la Rpm Records con Sam Phillips (futuro fondatore della Sun Records): ecco Whole Lotta Love, Sweet Little Angel, Woke Up This Morning... e il successo. Una vita sul palco, B. B. King è il vero “Re del Blues”, titolo che ha conquistato definitivamente negli Anni 70, quando il suo stile, influenzato da Charlie Christian e Django Reinhardt, si è imposto a suon di concerti: anche 300 l'anno.
Maestro nel combinare il Blues con la pulizia del Jazz, gli basta una sola nota, stirata, rivoltata, allungata, per sciogliere l'anima. In pista già da una decade, B. B. King entra nella leggenda a metà degli Anni 60 grazie al suo stile chitarristico sopraffino e all'album Live at The Regal, che lo spara nella leggenda; completa il suo status la cover di The Thrill Is Gone di Roy Hawkins, che nel 1969 porta il suo nome in cima alle classifiche. E, siccome dietro ogni grande bluesman c'è (almeno) una grande chitarra, resta celeberrima l'avventura di King con la sua Lucille: nel '49 a Twist, Arkansas, dopo una rissa il locale va a fuoco, tutti fuggono ma B.B. non trova la sua seicorde: torna dentro, riesce a salvarla ed esce mentre il locale crolla dietro di lui. Una visione epica. Quando viene a sapere che la rissa era scoppiata, manco a dirlo, a causa di una ragazza, certa Lucille, King non esita: una volta e per sempre sarà Lucille tra le sue dita.
Robert Johnson.

IL MISTERO DI ROBERT JOHNSON

L'epilogo di questo excursus tinto di blues non può non coincidere con l'origine, quantomeno nella vulgata: di Robert Johnson si è detto di tutto senza sapere quasi niente. Non v'è certezza su nulla, non la data di nascita, forse tra il 1910 e il 1912, non il suo vero padre, nessuno fra i due che lo tirarono su era quello biologico, non la sua vita, men che meno la sua morte. Ovviamente, l'arcano più profondo riguarda la sua inquietante abilità come chitarrista. Quello che si sa, si sa soprattutto per l'opera meritoria dello storico Mack Mc Cormick che, partendo dalle uniche due fotografie attribuite con certezza al più misterioso dei bluesman, è riuscito a cavarne una biografia. Di certo, o almeno verosimile, abbiamo che il giovanissimo Robert apprese i rudimenti dell'armonica e della chitarra da uno dei suoi innumerevoli fratelli e fratellastri: suonava come poteva, cioè malissimo, il che gli guadagnava le bonarie, ma feroci, prese in giro di Son House e Willie Brown. Finché una sera, dilaniato nell'orgoglio, sparì e nessuno lo vide più. Tornò dopo sei mesi, imbracciò una chitarra e, quella volta, restarono tutti muti. A bocca aperta, però. Lui, malizioso, ambiguo e abile, si ritagliò la leggenda di un patto col diavolo: il blues contro l'anima.

LO ZAMPINO DEL DIAVOLO

Probabilmente trovò qualche maestro sconosciuto, forse certo Ike Zimmerman, con cui si esercitava di notte nei cimiteri. Come a dire che, mettila come vuoi, lo zampino del diavolo in un modo o nell'altro c'entra sempre. Sta di fatto che, come ci ricorda Roberto Caselli nella sua splendida Storia del Blues (Hoepli), Johnson superò in tecnica e intensità anche il maestro Son House, diventando archetipico e insieme propulsore per un blues più moderno, addirittura imperituro. Ha lasciato appena 29 pezzi, incisi in cinque session tra il 1936 e il 1937, prima che il diavolo, nelle sembianze di un marito geloso, tornasse a riprendersi quel che gli spettava: il corpo di Robert, stecchito per il veleno, diventava spirito della musica del diavolo da qui all'eternità.

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