“Into the Wild” non abita più qui
Troppo frequentato e poco sicuro: in Alaska rimosso il Magic Bus in cui visse e morì Christopher McCandless, il viaggiatore solitario che ispirò Sean Penn
di PAOLO COGNETTI
L'altro giorno, 18 giugno 2020, qualcosa di importante è finito per quelli come me, o forse chissà, è passato una volta per tutte alla storia. In Alaska la Guardia Nazionale ha rimosso, con un potente elicottero militare, il Magic Bus, detto anche Bus 142, in seguito a troppi interventi di soccorso per salvare i ragazzi che vi si recavano, viaggiatori di tutto il mondo che andavano fin lassù come pellegrini verso un santuario. Il monte Denali è lì all’orizzonte, è la cima più alta d’America ma non c’entra con questa storia.
L’autobus si trovava alla fine di una pista sterrata chiamata Stampede Trail, a 40 chilometri dalla cittadina di Healy; circa a metà del percorso quel sentiero accidentato, spesso allagato dalle piogge, dalle acque del disgelo e dagli stagni dei castori incontra un grande fiume, il Teklanika, il cui guado ha messo nei guai tanti di noi. L’autobus era un modello degli anni ’50 del trasporto pubblico di Fairbanks, e all’epoca era stato portato su quella pista per fare da bivacco ai minatori, ai cercatori d’oro e ai cacciatori che sono da sempre i pionieri d’Alaska. Tolti i sedili, era stato attrezzato con due brande e una stufa e lasciato lì, e più tardi dimenticato. Anche lo Stampede Trail era andato in disuso. Ai giorni nostri, a non sapere la storia, si sarebbe detta una delle tante bizzarrie che si incontrano nel Grande Nord: un bus d’epoca abbandonato in mezzo alla tundra, ancora con il numero 142 dipinto sulla fiancata e le sue belle forme arrotondate.
Anche Christopher McCandless era in fondo un cercatore d’oro, ma l’oro che cercava lui non aveva a che fare con il biondo metallo. Era nato nel 1968, figlio di una buona famiglia dell’East Coast, ottimo studente, eccellente sportivo. Chris era un idealista e un anticonformista che nel 1990 si laureò con una tesi sulla piaga della fame in Africa, poi donò i suoi risparmi a un’organizzazione che se ne occupava e partì, senza salutare, per un viaggio che non sarebbe più finito. Probabilmente la causa scatenante fu il conflitto con il padre, un ingegnere di successo, un self-made man milionario e un bigamo con cui Chris non voleva più avere niente a che fare. E così, mentre la sua famiglia lo cercava, lui passò due anni da vagabondo, da hobo, prendendo passaggi e saltando sui treni e vivendo di lavoretti occasionali, ma anche facendo amicizia con altri vagabondi d’America e innamorandosi dei grandi spazi aperti del suo paese, l’Ovest, l’oceano Pacifico, il Grand Canyon che discese illegalmente in canoa.
Intanto leggeva: lesse Thoreau e Tolstoj, lesse Jack London e cominciò a venirgli voglia di foreste e di Nord. Progettò una grande avventura che consisteva nell’addentrarsi da solo nella tundra d’Alaska, accamparsi da qualche parte e viverci in povertà e autonomia per qualche tempo, nutrendosi di erbe commestibili e piccola selvaggina. Era il progetto di Thoreau, ma non in riva al laghetto dietro casa (questo l’equivoco in cui probabilmente era caduto). Chris lo fece davvero nell’aprile del ’92: si avviò lungo lo Stampede Trail, guadò il Teklanika che in quella stagione era povero d’acqua e ancora in parte ghiacciato, trovò casualmente il Bus 142.
Fu lui a ribattezzarlo Magic Bus, nel suo scarno diario. I Magic Bus originari erano i mezzi di fortuna con cui gli hippie partivano per l’India dall’Europa, e il Magic Bus più famoso di tutti è quello su cui Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, girò l’America insieme ai suoi amici nell’estate del 1964, improvvisando concerti e distribuendo Lsd. Guidava Neal Cassady, eroe della Beat Generation, e l’autobus era tutto dipinto con colori psichedelici. Questo per capire quali fossero i riferimenti culturali di Chris. che non era un survivalista né un neo-eremita: era un beat, un hobo, uno sperimentatore che visse da solo lassù per più di tre mesi, e infine ci morì. Morì d’agosto dentro il suo sacco a pelo, e che la causa fosse la fame si capì dallo stato in cui trovarono il cadavere qualche settimana dopo. Aveva con sé uno zaino pieno di libri, un fucilino e poco altro.
Oggi si pensa che si fosse avvelenato con qualche bacca selvatica, o ferito, o comunque indebolito, e non fosse più riuscito a guadare il Teklanika che d’estate era in piena. Su un finestrino dell’autobus aveva appeso un biglietto chiedendo aiuto a chi passasse di lì, ma aveva aspettato inutilmente per giorni e infine era morto. L’avevano trovato in settembre dei cacciatori. La storia all’epoca fece poco scalpore. Intorno c’era l’America di Clinton, l’America che aveva vinto tutto, stava per esplodere il boom della Silicon Valley, la crescita economica sembrava senza fine e la scelta di Chris era del tutto anacronistica per quei tempi di ottimismo sfrenato. Infatti si sarebbe capita meglio dopo, sarebbero stati i figli della crisi ad amarlo e ad andarlo a cercare.
La sua storia è stata raccontata in un libro e in un film, il primo di Jon Krakauer e il secondo di Sean Penn, intitolati entrambi Into the Wild. Fu il film soprattutto a generare il mito. Da allora – era il 2007 – cominciarono i pellegrinaggi. Altri ragazzi, altri scappati di casa, altri cercatori d’oro a cui questa storia aveva cambiato la vita. Nel tempo, anziché calare, il flusso di pellegrini aumentava. I ranger d’Alaska cominciavano a innervosirsi, capitava di andare a soccorrere ragazzi con lo zainetto e le scarpe da tennis, del tutto inadeguati all’Alaska. Almeno due di loro morirono annegati nel Teklanika. Gli ultimi, raccolti semi-assiderati l’inverno scorso, erano cinque ragazzi italiani.
Gli alaskani non hanno mai amato né la storia di Chris né quest’umanità di suoi discepoli, è un paese di duri con il fucile nel pick-up e gli adesivi inneggianti a Trump sulle finestre di casa, la bandiera a stelle e strisce, i nativi ubriachi fuori dai negozi di liquori, gli orsi imbalsamati anche dal benzinaio. L’ho visto coi miei occhi perché ci sono andato anch’io: anch’io ho camminato nel fango e mi sono immerso in un fiume e ho dormito nel Magic Bus, su una di quelle due brande, tra il bidone della stufa e i finestrini sfondati, in una notte d’Alaska in cui non veniva mai buio, una notte di giugno di un anno fa. Sono felice di aver fatto in tempo a farlo, ad andare fin lassù e a dirgli grazie.
Probabilmente in California, in Colorado, ma anche sulle nostre Alpi, con un tesoro del genere per le mani qualcuno avrebbe pensato di attrezzare il sentiero, costruire un ponte tibetano sul fiume, mettere guide autorizzate per accompagnare i visitatori e far pagare un biglietto per dormire nell’autobus. Ne sono abbastanza sicuro. Per cui meglio così, direi. Ringraziamo gli alaskani che la pensano in un altro modo. È molto meglio vedere l’elicottero che si porta via il Magic Bus, quel vecchio santo autobus in volo sulla tundra d’Alaska, Chris è al volante che guida ed è bello e santo come Neal Cassady, dietro ci siamo noi.
L’autobus si trovava alla fine di una pista sterrata chiamata Stampede Trail, a 40 chilometri dalla cittadina di Healy; circa a metà del percorso quel sentiero accidentato, spesso allagato dalle piogge, dalle acque del disgelo e dagli stagni dei castori incontra un grande fiume, il Teklanika, il cui guado ha messo nei guai tanti di noi. L’autobus era un modello degli anni ’50 del trasporto pubblico di Fairbanks, e all’epoca era stato portato su quella pista per fare da bivacco ai minatori, ai cercatori d’oro e ai cacciatori che sono da sempre i pionieri d’Alaska. Tolti i sedili, era stato attrezzato con due brande e una stufa e lasciato lì, e più tardi dimenticato. Anche lo Stampede Trail era andato in disuso. Ai giorni nostri, a non sapere la storia, si sarebbe detta una delle tante bizzarrie che si incontrano nel Grande Nord: un bus d’epoca abbandonato in mezzo alla tundra, ancora con il numero 142 dipinto sulla fiancata e le sue belle forme arrotondate.
Anche Christopher McCandless era in fondo un cercatore d’oro, ma l’oro che cercava lui non aveva a che fare con il biondo metallo. Era nato nel 1968, figlio di una buona famiglia dell’East Coast, ottimo studente, eccellente sportivo. Chris era un idealista e un anticonformista che nel 1990 si laureò con una tesi sulla piaga della fame in Africa, poi donò i suoi risparmi a un’organizzazione che se ne occupava e partì, senza salutare, per un viaggio che non sarebbe più finito. Probabilmente la causa scatenante fu il conflitto con il padre, un ingegnere di successo, un self-made man milionario e un bigamo con cui Chris non voleva più avere niente a che fare. E così, mentre la sua famiglia lo cercava, lui passò due anni da vagabondo, da hobo, prendendo passaggi e saltando sui treni e vivendo di lavoretti occasionali, ma anche facendo amicizia con altri vagabondi d’America e innamorandosi dei grandi spazi aperti del suo paese, l’Ovest, l’oceano Pacifico, il Grand Canyon che discese illegalmente in canoa.
Intanto leggeva: lesse Thoreau e Tolstoj, lesse Jack London e cominciò a venirgli voglia di foreste e di Nord. Progettò una grande avventura che consisteva nell’addentrarsi da solo nella tundra d’Alaska, accamparsi da qualche parte e viverci in povertà e autonomia per qualche tempo, nutrendosi di erbe commestibili e piccola selvaggina. Era il progetto di Thoreau, ma non in riva al laghetto dietro casa (questo l’equivoco in cui probabilmente era caduto). Chris lo fece davvero nell’aprile del ’92: si avviò lungo lo Stampede Trail, guadò il Teklanika che in quella stagione era povero d’acqua e ancora in parte ghiacciato, trovò casualmente il Bus 142.
Fu lui a ribattezzarlo Magic Bus, nel suo scarno diario. I Magic Bus originari erano i mezzi di fortuna con cui gli hippie partivano per l’India dall’Europa, e il Magic Bus più famoso di tutti è quello su cui Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, girò l’America insieme ai suoi amici nell’estate del 1964, improvvisando concerti e distribuendo Lsd. Guidava Neal Cassady, eroe della Beat Generation, e l’autobus era tutto dipinto con colori psichedelici. Questo per capire quali fossero i riferimenti culturali di Chris. che non era un survivalista né un neo-eremita: era un beat, un hobo, uno sperimentatore che visse da solo lassù per più di tre mesi, e infine ci morì. Morì d’agosto dentro il suo sacco a pelo, e che la causa fosse la fame si capì dallo stato in cui trovarono il cadavere qualche settimana dopo. Aveva con sé uno zaino pieno di libri, un fucilino e poco altro.
Oggi si pensa che si fosse avvelenato con qualche bacca selvatica, o ferito, o comunque indebolito, e non fosse più riuscito a guadare il Teklanika che d’estate era in piena. Su un finestrino dell’autobus aveva appeso un biglietto chiedendo aiuto a chi passasse di lì, ma aveva aspettato inutilmente per giorni e infine era morto. L’avevano trovato in settembre dei cacciatori. La storia all’epoca fece poco scalpore. Intorno c’era l’America di Clinton, l’America che aveva vinto tutto, stava per esplodere il boom della Silicon Valley, la crescita economica sembrava senza fine e la scelta di Chris era del tutto anacronistica per quei tempi di ottimismo sfrenato. Infatti si sarebbe capita meglio dopo, sarebbero stati i figli della crisi ad amarlo e ad andarlo a cercare.
La sua storia è stata raccontata in un libro e in un film, il primo di Jon Krakauer e il secondo di Sean Penn, intitolati entrambi Into the Wild. Fu il film soprattutto a generare il mito. Da allora – era il 2007 – cominciarono i pellegrinaggi. Altri ragazzi, altri scappati di casa, altri cercatori d’oro a cui questa storia aveva cambiato la vita. Nel tempo, anziché calare, il flusso di pellegrini aumentava. I ranger d’Alaska cominciavano a innervosirsi, capitava di andare a soccorrere ragazzi con lo zainetto e le scarpe da tennis, del tutto inadeguati all’Alaska. Almeno due di loro morirono annegati nel Teklanika. Gli ultimi, raccolti semi-assiderati l’inverno scorso, erano cinque ragazzi italiani.
Gli alaskani non hanno mai amato né la storia di Chris né quest’umanità di suoi discepoli, è un paese di duri con il fucile nel pick-up e gli adesivi inneggianti a Trump sulle finestre di casa, la bandiera a stelle e strisce, i nativi ubriachi fuori dai negozi di liquori, gli orsi imbalsamati anche dal benzinaio. L’ho visto coi miei occhi perché ci sono andato anch’io: anch’io ho camminato nel fango e mi sono immerso in un fiume e ho dormito nel Magic Bus, su una di quelle due brande, tra il bidone della stufa e i finestrini sfondati, in una notte d’Alaska in cui non veniva mai buio, una notte di giugno di un anno fa. Sono felice di aver fatto in tempo a farlo, ad andare fin lassù e a dirgli grazie.
Probabilmente in California, in Colorado, ma anche sulle nostre Alpi, con un tesoro del genere per le mani qualcuno avrebbe pensato di attrezzare il sentiero, costruire un ponte tibetano sul fiume, mettere guide autorizzate per accompagnare i visitatori e far pagare un biglietto per dormire nell’autobus. Ne sono abbastanza sicuro. Per cui meglio così, direi. Ringraziamo gli alaskani che la pensano in un altro modo. È molto meglio vedere l’elicottero che si porta via il Magic Bus, quel vecchio santo autobus in volo sulla tundra d’Alaska, Chris è al volante che guida ed è bello e santo come Neal Cassady, dietro ci siamo noi.
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