Il furto della felicità che ci uccide ogni giorno
Le aspettative. L'essere messi da parte. Il mondo che ci è stato
consegnato. Il mondo che vorremmo. Il furto della felicità. Il libero
arbitrio. La libertà di suicidarsi. La libertà di inseguire un sogno, e
la mancanza di forze per raggiungerlo.
La lettera di Michele ci ingorga di realtà. Di quel disorientamento dentro cui noi trentenni di oggi siamo immersi. In quell'idea - assolutamente folle, in grado di produrre solo dicotomia e frustrazione - secondo cui per esistere sia necessario imporsi. Diventare qualcuno. Essere rappresentati, e rappresentarsi. Ricercare il massimo che dovremmo avere a disposizione, e che mai riusciamo in realtà a conquistare.
La sopportazione di cui parla Michele è quella che tutti abbiamo provato. Tutti i giorni siamo chiamati a ingurgitare milioni di sofferenze dalle diverse sfumature: sopportiamo, illudendoci o semplicemente sperando, che le cose cambino. Ma le cose non cambiano mai. E le energie che abbiamo a disposizione non sono per tutti uguali. Purtroppo.
Michele ha provato a fare "del malessere un'arte". Ha provato a superare la sua "sensibilità". Ma è precipitato. Dalle sue parole esce fuori il ritratto della nostra vita, della nostra società dove la sofferenza viene arginata, e il malessere psicopatologico viene isolato.
Il suicidio di Michele non è solo il fallimento della società politica, e del mondo "che ci è stato consegnato ed è un mondo intollerabile". La morte di Michele è il più drammatico urlo di dolore, che lascia in sottotraccia la libertà di suicidarsi e l'incapacità del nostro mondo di accogliere l'individuo nella sua essenza: la fragilità. La morte di Michele è lo strazio devastante che racconta il fallimento quotidiano di noi trentenni, incastrati fra il sogno e la realtà.
La lettera di Michele è avvolta nell'illusione - o speranza, ancora una volta il tragico gioco delle prospettive - che queste parole non cadano nel vuoto. Ma la realtà è un'altra: queste parole verranno inghiottite dalla cronaca, dalla routine che è la vita, dall'egoismo che ci naviga intorno. Queste parole scompariranno. Resterà il dolore degli amici, il dolore dei genitori. Qualche ricordo. Domani noi non ricorderemo altro che un titolo di giornale. Prima che un'altra storia, cinicamente e atrocemente, non seppellisca tutto.
Intanto, la generazione perduta di cui facciamo parte noi trentenni continuerà ad auto-cannibalizzarsi ancora di più. Morso dopo morso, fino a non far restare più niente. Neanche il ricordo di quella cosa chiamata felicità.
La lettera di Michele ci ingorga di realtà. Di quel disorientamento dentro cui noi trentenni di oggi siamo immersi. In quell'idea - assolutamente folle, in grado di produrre solo dicotomia e frustrazione - secondo cui per esistere sia necessario imporsi. Diventare qualcuno. Essere rappresentati, e rappresentarsi. Ricercare il massimo che dovremmo avere a disposizione, e che mai riusciamo in realtà a conquistare.
La sopportazione di cui parla Michele è quella che tutti abbiamo provato. Tutti i giorni siamo chiamati a ingurgitare milioni di sofferenze dalle diverse sfumature: sopportiamo, illudendoci o semplicemente sperando, che le cose cambino. Ma le cose non cambiano mai. E le energie che abbiamo a disposizione non sono per tutti uguali. Purtroppo.
Michele ha provato a fare "del malessere un'arte". Ha provato a superare la sua "sensibilità". Ma è precipitato. Dalle sue parole esce fuori il ritratto della nostra vita, della nostra società dove la sofferenza viene arginata, e il malessere psicopatologico viene isolato.
Il suicidio di Michele non è solo il fallimento della società politica, e del mondo "che ci è stato consegnato ed è un mondo intollerabile". La morte di Michele è il più drammatico urlo di dolore, che lascia in sottotraccia la libertà di suicidarsi e l'incapacità del nostro mondo di accogliere l'individuo nella sua essenza: la fragilità. La morte di Michele è lo strazio devastante che racconta il fallimento quotidiano di noi trentenni, incastrati fra il sogno e la realtà.
La lettera di Michele è avvolta nell'illusione - o speranza, ancora una volta il tragico gioco delle prospettive - che queste parole non cadano nel vuoto. Ma la realtà è un'altra: queste parole verranno inghiottite dalla cronaca, dalla routine che è la vita, dall'egoismo che ci naviga intorno. Queste parole scompariranno. Resterà il dolore degli amici, il dolore dei genitori. Qualche ricordo. Domani noi non ricorderemo altro che un titolo di giornale. Prima che un'altra storia, cinicamente e atrocemente, non seppellisca tutto.
Intanto, la generazione perduta di cui facciamo parte noi trentenni continuerà ad auto-cannibalizzarsi ancora di più. Morso dopo morso, fino a non far restare più niente. Neanche il ricordo di quella cosa chiamata felicità.
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