domenica 1 aprile 2018

Di Maio e Salvini, due leader condannati alla rivoluzione

Di Maio e Salvini, due leader condannati alla rivoluzione

Non si può prometterla e non realizzarla nemmeno un po'. Che a governare siano il Movimento e la Lega insieme o solo uno dei due, serviranno mosse iniziali esemplari. A noi non resta che incrociare le dita.



La storia dei governi italiani dice che il Di Maio I venturo, o il Cinquestelle I e chi ci sta, o il centrodestra salviniano I, o comunque il nuovo governo, ha tutto il tempo per venire a maturazione. Dopotutto ci sono state e neanche in anni lontanissimi gestazioni quadrimestrali o quasi, dalle dimissioni dell’esecutivo precedente all’insediamento del successore, durate 127 giorni (dopo il Dini 1996), e 104 giorni (dopo il Prodi 2, 2008) per non parlare dei quattro mesi circa dopo l’Andreotti I e V (1971 e 1979). Tanto tempo quindi. Sempre seguito tuttavia a breve o medio da elezioni anticipate, dopo Dini, Prodi e i due Andreotti. Questa volta con i Cinquestelle soprattutto e anche con Salvini scattano però le logiche “rivoluzionarie” che hanno sempre tempi limitati: non si può aver promesso e promettere la “rivoluzione”, ora dopo le urne a portata di mano, senza realizzarla almeno un po’, e con mosse iniziali esemplari e rapide. L’attesa della rivoluzione stanca, sia essa “il governo dei cittadini” promesso dai Cinquestelle o il “non vedo l’ora di essere al governo per cambiare le cose” di Salvini e Giorgetti.
URGE LA RIVOLUZIONE. La rivoluzione ha tempi stretti, urgono mosse comprensibili che consentano di rivolgersi al popolo e dichiarare – cosa in genere non vera - che l’“odiato” mondo di ieri non c’è più. Per ora siamo all’omaggio colorito e sceneggiato di Beppe Grillo sotto la statua di Jean-Jacques Rousseau, patrono della vittoria, sulla ginevrina vecchia Ȋle aux Barques, da tempo Ȋle Rousseau. Sarebbe inopportuno diffondere per il mondo immagini e testo. Si possono anche vincere le elezioni in Italia, ma non è con questi show che si difende l’italianità nel mondo. C’è poi quanto osservava mezzo secolo fa Hannah Arendt, importante studiosa di rivoluzioni e totalitarismi e critica di un Rousseau pre-totalitario, quando diceva che «il più radicale dei rivoluzionari diventerà un conservatore il giorno dopo la rivoluzione». Finita e vinta la campagna elettorale, non sempre le promesse hanno lo stesso suono e rivelano lo stesso volto speranzoso. Hanno anche altri volti più preoccupanti.
QUEI VALORI OTTOCENTESCHI. Sia la Lega salviniana che i Cinquestelle di Di Maio e Grillo credono nella realtà di alcune mosse giuste e rapide che sistemino molte cose. E hanno un senso di onnipotenza perché a entrambi sono riuscite due operazioni eccezionali. Primo partito italiano in appena nove anni il Movimento, fondato nel 2009 dopo le sporadiche liste alle amministrative di quell’anno. Solo Emmanuel Macron ha fatto meglio, in Francia. E la quasi quintuplicazione dei voti dopo lo sfascio della Lega di Bossi per Salvini. Da veri rivoluzionari, e anche questa è una annotazione della Arendt, più che combattere per il potere «hanno capito quando il potere se ne stava gettato per strada e quando era possibile chinarsi per raccoglierlo». I governi degli ultimi 15 anni, chi più chi meno, lo avevano lasciato su un parapetto non riuscendo a spiegare agli italiani chi eravamo, dove volevamo andare, dove potevamo andare. E sono arrivati Grillo-Di Maio e Salvini con prospettive “rivoluzionarie”, più o meno nazionaliste, quindi fondate su valori in definitiva ottocenteschi. Solo allora la Nazione era tutto.
I Cinquestelle più che avere contenuti sono un contenitore. Il loro trademark è la fede nel web e nella rousseauiana democrazia diretta, che negli ultimi 2.500 anni (si favoleggia esistesse ad Atene) non ha mai funzionato
Il futuro è per definizione poco noto ma una cosa certa (o quasi) è che uno dei due schieramenti andrà al governo, forse entrambi. Non si sa per quanto. E non si sa che cosa riusciranno a fare. Il Pd, chiaramente, e non solo, spera che non riescano a combinare molto, eventualmente qualche disastro che porti un numero sufficiente di italiani a un “aridatece er puzzone”. Speriamo invece che si comportino bene e facciano qualcosa di utile, per quel tanto che ci separa dalle prossime elezioni, e dal cruciale voto europeo del maggio 2019, ma due semplici riflessioni non lasciano del tutto tranquilli. I Cinquestelle più che avere contenuti sono un contenitore. Il loro trademark è la fede nel web e nella rousseauiana democrazia diretta, che negli ultimi 2.500 anni (si favoleggia esistesse ad Atene) non ha mai funzionato ed è mediata, ampiamente, da quella rappresentativa nello stesso invocato paradiso svizzero dei referendum cantonali. I grillini si adattano ai tempi. Con la Ue sono diventati più possibilisti perché a Bruxelles, e soprattutto sul filo Berlino-Parigi, potrebbe esservi nel corso del 2018, con l’attivismo europeo di Macron e una Merkel costretta a onorare in qualche modo l’asse con Parigi, qualche novità.
L'ENIGMA SALVINIANO. Meno severità sui deficit, a precise condizioni? La convinzione di alcuni pentastellati, fra quanti masticano di Europa, è che la minaccia di sanzioni è sempre meno efficace e la minaccia di una cacciata dall’euro degli inadempienti, l’Italia e se esce l’Italia anche la Grecia, fa paura a tutti, in una costruzione che non contempla uscite. Ai Cinquestelle e a Di Maio, che si vede già Macron italico, piacerebbe tanto essere gli interlocutori di questa nuova fase. Ma è un gioco complicato, ancora molto incerto, e occorre saperlo giocare, non ci si improvvisa. Dopotutto Macron esce dalle grandes écoles. I nostri hanno una laurea (magari triennale) in Scienze della comunicazione, quando ce l’hanno, e non sono poliglotti. La Lega salviniana sull’Europa è un enigma: con un elettorato in gran parte interessato a mantenere in euro i propri conti correnti, come Marine Le Pen stessa ha ammesso essere il suo elettorato francese, i salviniani attaccano a fondo la moneta unica, auspicano (anzi, per i neo onorevoli Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai è una certezza) la sua fine, e invocano in nome della “sicurezza nazionale” l’uscita italiana, non da soli perché è difficile ma insomma per quello occorre lavorare.
DEBITO, QUESTO SCONOSCIUTO. Sognano la lira. Pilastro di tutto è l’idea che, per una nazione con sovranità monetaria, che batte cioè la sua moneta, il debito non è un problema perché lo monetizza. Mai sentito parlare della Repubblica di Weimar? E come mai dal 1970 al 2008, per prendere solo episodi recenti studiati da Kenneth S. Rogoff, ci sono stati nel mondo una quarantina di default del debito pubblico con ristrutturazioni, ritardi e disastri vari? Non bastava creare moneta, come dice Borghi Aquilini, e perché non lo hanno fatto? Intanto a Ginevra Grillo saluta con enfasi e sbracciandosi come sempre Jean-Jacques, maestro di libertà: «Jean-Jacques, noi dobbiamo democratizzare un popolo, gli italiani. E adesso la tua eredità ce l’ha Casaleggio Davide». Speriamo bene e teniamoci forte

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