domenica 1 aprile 2018

2001 Odissea nello spazio 2


2001 Odissea nello spazio è Dio, il mondo e Nietzsche. Ma anche nulla di tutto questo
Quando lo vide Rock Hudson uscì dalla sala: “Qualcuno può dirmi di che diavolo parla questo film?”. Non c'è nulla da trovare. La cosa migliore da fare, forse, è perdersi.
Nicola Mirenzi Giornalista e blogger

Quando la prima proiezione di 2001: Odissea nello spazio non era ancora finita, Rock Hudson si alzò dalla poltrona e uscì dalla sala domandando: "C'è qualcuno che può dirmi di che diavolo parla questo film?". Da allora – era il 29 marzo 1968, proiezione per Life, prima dell'uscita al cinema il 2 aprile 1968– sono state date a questa domanda decine, forse centinaia di risposte scritte, interpellando il mistero, la divinità, l'infinito, la magia, i totem, l'alchimia, i miti, la psicoanalisi, la numerologia: interi saperi sono stati mobilitati a decifrare l'enigma.
"Ciascuno è libero di fare tutte le speculazioni che vuole sul significato filosofico e allegorico del film", disse Stanley Kubrick in un'intervista con "Playboy", una delle poche volte in cui ne parlò. L'intervistatore, Eric Norden, gli aveva sottoposto l'ipotesi che il suo fosse "il primo film nietzschiano" della storia, individuando una corrispondenza tra l'avvento del super-uomo profetizzato dallo Zarathustra di Friederich Nietzsche e il figlio delle stelle concepito nell'universo alla fine della sua Odissea. "Non è un messaggio che ho mai inteso comunicare a parole", risponde il regista: "2001 è una esperienza non verbale".
Nelle due ore e diciannove minuti del film, i dialoghi tra i personaggi occupano meno di quaranta minuti. Si parla poco, pochissimo nel film – ma, quando è finito, non si fa altro che parlarne. "Per le sue sapienti ellissi e i suoi vuoti, così come per le sue sovrapposizioni arbitrarie di musica e immagine – scrive Michel Chion ne "L'umano, né più né meno" (Lindau) – il film di Kubrick è una macchina per far salivare nello spettatore la ghiandola interpretativa". Le scene diventano così un rimando, un'esca lanciata per far abboccare all'amo del significato, facendo scorgere dietro di esse una chiave che apre la porta del senso. E più le immagini tacciono, più si moltiplicano le esegesi. Sopratutto, filosofiche.
Il preludio di "Also sprach Zarathustra, Op. 30", – la sinfonia composta da Richard Strauss nel 1896 e usata da Stanley Kubrick all'inizio e alla fine del film – rimanda immediatamente al testo di Nietzsche a cui è ispirata, stabilendo – secondo Jerold J. Abrams – un legame tra le due opere. "Attraverso le immagini in movimento – scrive in "The philosophy of Stanley Kubrick" – il regista cattura l'intera epica evolutiva di 'Così parlo Zarathustra'". Il suo film attraversa i medesimi stadi dell'evoluzione nietzschiana, "partendo dalla scimmia, procedendo attraverso l'umanità e culminando in una nuova forma (oltre umana)" di vita, raffigurata da Kubrick con l'immagine del feto che nasce in orbita, nel grembo dell'universo, senza una madre e un padre, volteggiando nel cosmo come la "stella danzante" di cui parlava Nietzsche e che è stata partorita dal caos.
C'è un guastafeste, tuttavia, in questo castello interpretativo: e si chiama Dio. Nietzsche, infatti, è il filosofo che ha annunciato la sua morte. Kubrick, invece, dice – addirittura – che il concetto di Dio è "al centro" del suo film. Ma quale Dio? Il regista non ha in mente "un'immagine tradizionale, antropomorfa di Dio", bensì crede sia "possibile formulare un'affascinante definizione scientifica una volta accettato il fatto che esistono circa cento miliardi di stelle solo nella nostra galassia". Leggendo queste righe, il gesuita e scienziato John Braverman ha avanzato "un'interpretazione teologica" del film (è contenuta in "Interviste extraterrestri, Isbn Edizioni). "Il Dio presente in 2001: Odissea nello spazio – scrive – è il Dio dei filosofi. Non è il Dio personale, amorevole, delle relazioni intime caro a Isacco, Abramo e Gesù". Tuttavia, aggiunge, la definizione di Dio che propone Kubrick offre una "teologia molto profonda", giacché i passi logici che egli compie per arrivare ad abbozzare la sua idea della divinità ricalcano le linee logiche della teologia classica, in particolare quelle della "Summa" di San Tommaso d'Aquino. Le due formulazioni hanno uno spettacolare particolare in comune: "L'uso delle informazioni sul mondo naturale per inferire l'esistenza di esseri più intelligenti". Così – conclude Braverman – anche se Kubrick non crede a nessuna delle religioni monoteiste della Terra, la linea del suo pensiero ne segue perfettamente le orme.
È a Dio che torna anche Alberto Moravia, recensendo il film su l'Espresso del 29 dicembre del 1968, definendolo un prodotto e non un'opera d'arte, come invece lo concepisce Kubrick. Nell'articolo, Moravia parla dei monoliti che appaiono per quattro volte nella pellicola e che stanno "a indicarne l'arcana pre­senza" divina. Racconta che gli uomini, temerari, partono in volo per andare a esaminare e decifrare il significato di quella stele che non capiscono, comportandosi come noi spettatori che, di fronte al mistero delle immagini dell'"Odissea nello spazio", cerchiamo subito il conforto di una spiegazione che ci rassicuri, contravvenendo all'ipotesi di compiere, come desiderava Kubrick, un'"esperienza visuale" che oltrepassi l'astrazione delle idee e del significato. "Ho voluto che il film fosse – ha detto il regista – un'esperienza intensamente soggettiva, capace di raggiungere lo spettatore a un livello di consapevolezza interna, proprio come fa la musica: 'spiegare' una sinfonia di Beethoven equivarrebbe a infiacchirla, erigendo una barriera artificiale tra concetto e comprensione". Per questo, ogni volta che gli hanno chiesto di parlare dell'interpretazione del film, Kubrick si è rifiutato di dare una risposta, dicendo che non era sua intenzione fornire una mappa" con la quale orientare il percorso dello spettatore. Poiché in "2001: Odissea nello spazio" non c'è nulla da trovare. La cosa migliore da fare, forse, è perdersi.

"Uno shock anche in musica, quello Strauss mi ha segnato". Intervista al compositore Franco Piersanti su 2001 Odissea nello spazio
"Fu "Così parlò Zarathustra" a segnarmi. È un assunto filosofico soprattutto per la qualità musicale che è così particolare... è un marchio che rimane"




"2001: A Space Odyssey", un titolo e un film che sono leggenda. Cinquanta anni fa, il 2 aprile del 1968, veniva presentato in anteprima a Washington e da allora, quella pellicola ricordata spesso per le sue atmosfere rarefatte, asettiche e incorporee, non ha smesso mai di piacere tanto da diventare una pietra miliare del cinema. Il merito va al suo "creatore", il regista Stanley Kubrick, che la realizzò sulla base di una sceneggiatura originale portata avanti in parallelo come romanzo dallo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke - autore del racconto "La sentinella", considerato a sua volta l'embrione della storia - ma in realtà quella sceneggiatura scritta a quattro mani è da ritenersi originale tanto che gli valse una nomination all'Oscar, assieme a quella per la migliore regia e per la migliore scenografia, ma la statuetta arrivò solo per i migliori effetti visivi.
A distanza di cinquant'anni, il film – che segue la missione di un gruppo di astronauti in viaggio verso Giove affrontando molteplici temi differenti (da quelli fantascientifici all'identità e al destino dell'umanità fino al rapporto di quest'ultima con l'universo e con le intelligenze artificiali) - continua a piacere e ad avere un pubblico enorme di appassionati, tanto che al 71esimo Festival del Cinema di Cannes, in programma dall'8 al 19 maggio prossimi, nella sezione "Cannes Classics" sarà presentato in una versione non modificata in settanta millimetri dal "kubrickiano" Christopher Nolan, regista, tra gli altri, di "Interstellar" e "Dunkirk".
"2001: Odissea nello Spazio" ha rivoluzionato la fantascienza, "è un film che ha cambiato tutti per sempre", recita il claim della nuova locandina creata ad hoc dalla Warner Bros per la Croisette. La pensa così anche Franco Piersanti, da quarant'anni uno dei compositori più apprezzati, amati e richiesti nel nostro cinema, autore di colonne sonore indimenticabili, il preferito da Nanni Moretti (con cui lavora dal 1976, anno di "Io sono un autarchico"), Bernardo Bertolucci e Gianni Amelio, giusto per citarne qualcuno, autore delle inconfondibili musiche de "Il commissario Montalbano" nonché vincitore di numerosi premi e riconoscimenti, dai David di Donatello ai Nastri d'Argento.
"2001: Odissea nello Spazio" è sicuramente un film fuori dalla temporalità: sarà per questo che piace così tanto?
"Sicuramente, ma soprattutto perché è un film che ha segnato e ha indicato in maniera profetica il futuro del cinema di fantascienza o comunque scientifico con dei risvolti forti e profondi anche sul piano filosofico. Quando uscì era il 1968, subito dopo la tecnologia è avanzata molto...è un film che ha dato un'accelerazione a tante cose. Ancora oggi vediamo dei film straordinari che non sono però a quel livello tecnico e pertanto, questo continua a rimanere sempre come un film di paragone sul piano della realizzazione tecnica".
Nel film c'è un'immagine iniziale e un'immagine finale che non presentano alcun tipo di dialogo per un totale di quasi cinquanta minuti veicolati solo da immagini, suoni e musiche: che effetto le fece vederlo all'epoca?
"Me la ricordo come uno shock e anche piuttosto angosciante ad un certo punto. La mia testimonianza non è di uno spettatore adulto e con un bagaglio culturale...credo che tutti siano stati aggrediti da quel film in senso buono".
Quale fu la sua reazione dopo averne ascoltato le musiche?
"Quando lo vidi, dell'intera colonna sonora, forse, a malapena, conoscevo solo "Sul bel Danubio blu" di Johann Strauss jr. Avevo diciotto anni, studiavo da qualche anno al conservatorio, ma il mio bagaglio culturale era ancora tutto da formare. Fu comunque "Così parlò Zarathustra" di Richard Strauss, il brano che segna l'inizio e la fine, a segnarmi particolarmente. È un assunto filosofico soprattutto per la qualità musicale che è così particolare... è un lemma, è come un marchio che rimane, ma quando vidi il film non lo conoscevo come brano musicale".
Come spiegherebbe quella colonna sonora oggi a chi non ha una certa cultura musicale ed esperienza come lei?
"Da musicista posso dire solo che quel film, offre spunti di riflessione profondi a 360°. Sulla musica, non è stato il primo, ma certamente questo è il film dove Kubrick ha usato soltanto musica di repertorio, una cosa che ha poi ha continuato a fare anche successivamente, penso a Shining ad esempio e Barry Lyndon. Ha sempre usato musica di repertorio".
Come saprà, la gestazione di questa colonna sonora non è stata facile, ma lunga e faticosa...
"Sì, infatti all'inizio sarebbe dovuta essere completamente diversa in quanto realizzata da Alex North – autore della musica del kolossal Spartacus, poi, però, quel noto compositore hollywoodiano fu messo da parte, perché Kubrick aveva già in mente di usare questa musica di repertorio. North non era assolutamente consapevole delle scelte del regista, non ne sapeva nulla. I brani erano stati registrati, ma poi non furono inseriti e la partitura originale di North è rimasta una leggenda nel mondo della cinematografia, forse anche perché venne respinta da Kubrick".
A livello musicale, scelte come queste, a dir poco drastiche, cosa comportano?
"Per la musica del cinema è un dato importante perché ancora oggi la musica di repertorio è per alcuni compositori un po' come il diavolo e l'acqua santa, dal momento che quando si trovano a combattere con una musica preesistente, combattono con un'idea già realizzata su cui il regista deve sovrapporre la sua di idea".
Oltre a quelli già ricordati, cosa ci dice degli altri brani del film?
"Ognuno di quei brani è perfetto per quel film, mi riferisco anche a "Atmosfere" "Luce Eterna" "Avventure" e "Kyrie" di Gyorg Ligeti o la suite del balletto "Gayane" di Aram Kachaturian. Le sue intuizioni musicali che ha avuto Kubrick sono state formidabili. L'inizio è straordinario, ha a che fare con l'assoluto, l'infinito, il crescendo, l'alba sulla terra, il sole che sorge...sono tutte immagini che sono diventate delle vere e proprie icone del Novecento assieme alla musica. Dello stesso peso sono state poi anche tutte le altre trovate, come la ruota della stazione spaziale con il "Sul bel Danubio blu" è straordinaria. Colpisce la leggerezza della trovata spiazzante, perché non è una musica certamente che a che fare con la tecnologia quel valzer lì, ma con l'impero viennese e con tutta un'altra cultura. Fa roteare la ruota come quella della ruota circolare al Prater di Vienna, sicuramente. Le ispirazioni e i motivi di abbinamento musicale sono formidabili per questo, perché per la prima volta non è musica scritta apposta, ma trovata apposta e le analogie sono stupende da questo punto di vista. Le due musiche di cui ho parlato all'inizio - "Sul bel Danubio blu" e "Così parlò Zarathustra" - sono quelle che restano di più dentro".
Lei è stato influenzato da questo film e dalla sua musica?
"No, nel mio scrivere musica non c'è stato, ma c'è stato solo un rimanere stupito davanti ad una cosa così profonda. È un film, lo ripeto, che ha dei lati insondabili. Probabilmente lo dico perché la scienza e la tecnologia mi appassionano molto e restano anche un certo mistero. Questo film le racchiude tutte quante da allora. È straordinario, cosa si può dire di più? La parte del cervello HAL 9000 sembra una faccenda shakespeariana quasi, come non amarlo"?
Dunque, un film da consigliare a quei pochi che ancora non lo hanno visto?
"In realtà invidio molto chi non lo ha ancora visto. Sarebbe interessante vedere la reazione di un adolescente, vedere cosa ne pensa alla sua prima visione, anche se in realtà oggi i ragazzi convivono già con quel genere di film. Potrebbero stupirsi che in quegli anni succedeva una cosa del genere nel film, un po' come a noi i film di fantascienza degli anni Quaranta e Cinquanta".
Lo consiglierebbe anche a qualche politico?
"Sì certo, nella maniera più assoluta, magari gli fa bene! Io, personalmente, non lo vedo da tempo, ma la qualità del film dal punto di vista tecnico è straordinaria ancora oggi".
Parliamo di lei: quando scrive una musica per un film è sempre un'esperienza diversa. Qual è la sua regola? Come lavora?
"Gli approcci con un film variano da musicista a musicista e da musicista a regista e al rapporto che hanno. Il regista lo racconta al musicista e già questa è una chiave importante per entrarci. Poi c'è la sceneggiatura, la lettura, ma la cosa più importante è vedere il risultato, non tanto il film finito, ma le prime immagini che sono la proiezione completa del regista stesso. Dalla pagina scritta alla realizzazione: tutte queste cose qua hanno un fattore importante che dipende dal momento, dalle condizioni economiche in cui il regista viene messo per girarle. Sono tutte cose che contribuiscono a renderlo migliore, diverso e tutto quello che si è discusso prima, cambia. Quando c'è il film, anche sen non è finito di montare ed è in una fase provvisoria, lì è il punto cruciale dove l'idea ha finalmente un confronto con quello che è stato progettato e si può cambiare oppure prendere un'altra strada, anche molto velocemente, perché non c'è tanto tempo per pensare".
Scusi la domanda che può sembrare banale o che richiede una risposta molto ampia, ma cos'è per lei la musica?
"È il mio modo di vivere da sempre, una parte essenziale del mio modo di vivere, mi ha permesso di vivere facendo questo lavoro, è un modo di pensare".
Dopo "La Tenerezza", l'ultimo film di Gianni Amelio e i due episodi della serie tv Montalbano, quali musiche farà?
"Farò i due nuovi Montalbano che stanno per iniziare a girare e un film di un regista americano, Joshua Sinclair, intitolato "A Rose in winter", la storia di Edith Stein, una filosofa ebrea convertita al cristianesimo che si è fatta monaca, internata ad Aushwitz dove è morta e poi canonizzata negli anni Ottanta".
Farà anche il film che Amelio sta per girare su Craxi?
"Questo non lo so, si vedrà. Sono esigenze che piano piano devono arrivare, non mi sento di dire nulla, in base a come cambiano le esigenze dei registi. Tornando a Kubrick, può darsi che la musica di repertorio ad un certo punto sia più funzionale per i registi stessi".


Stanley Kubrick e Roger Waters, storia di screzi e incomprensioni di due geni burberi ed egotici. Uniti a loro insaputa da 2001: Odissea nello Spazio
Gianni Del Vecchio Condirettore L'HuffPost


Due geni assoluti, due menti superiori, due ego ipertrofici, due caratteri difficili, due artisti che hanno cambiato musica e cinema e hanno forgiato l'immaginario collettivo di almeno tre generazioni. Due anime destinate a incontrarsi ma che sono finite per scontrarsi. E che solo la magia di 2001: Odissea nello Spazio è riuscita a riunire. A loro insaputa.
La storia è molto semplice ed è questa. Siamo nel 1970 e Stanley Kubrick, dopo le fatiche di 2001: Odissea nello spazio, sta lavorando all'altro grande film che l'avrebbe consegnato alla storia del cinema e cioè Arancia Meccanica. Come suo solito, si getta febbrilmente alla ricerca delle musiche adatte, visto che per lui la qualità della colonna sonora viaggia di pari passo con quella della fotografia. Si ritrova per le mani un disco strano e per certi aspetti rivoluzionario uscito proprio in quell'anno, riconoscibilissimo per una strana mucca in primo piano come copertina. Si tratta di Atom Heart Mother, album sperimentale di un gruppo in ascesa sulla scena anglosassone e che da lì a poco avrebbe composto il più bel disco della storia del rock: i Pink Floyd. In particolare, il regista si innamora della title track, una suite di ben 24 minuti per la cui registrazione la band inglese ha assoldato addirittura un'orchestra sinfonica. Gli piace così tanto che alza la cornetta e chiama direttamente il leader del gruppo, il bassista Roger Waters. Ma è qui che purtroppo succede il patatrac, è qui che i due ego si toccano e inevitabilmente danno luogo a un esplosione. Waters racconta così la telefonata. "Stanley ci chiamò e ci disse che voleva la nostra canzone. Noi gli dicemmo 'Bene, che ne vorresti fare?'. Lui rispose: 'Non lo so ancora, ma la voglio usare come voglio e quanta ne voglio'. Allora non avemmo esitazione e gli rispondemmo: 'Bene, niente da fare, non te la diamo' ".
Il gran rifiuto bruciò molto a Kubrick che - come raccontano le innumerevoli biografie - in virtù di un carattere tutt'altro che accomodante si legò al dito la questione da lì agli anni a venire. Dovette aspettare suppergiù una ventina d'anni, ma l'agognata vendetta arrivò. Fredda ma allo stesso tempo gustosa. Nel 1991 Waters sta lavorando al suo terzo album da solista, Amused to Death, quando decide di usare la voce di Hal 9000, il celebre computer di bordo di 2001, in una delle canzoni. Forse immemore dello sgarbo di un paio di decenni prima, gli viene l'incauta idea di chiedere il permesso al regista in persona. Ovviamente Kubrick coglie l'occasione per liquidarlo con un secco no, dicendo che se avesse dato il via libera a Waters l'avrebbe dovuto dare a tutti. Apriti cielo. Paragonare la mente dei Pink Floyd a "qualsiasi altro cantante", viene vissuto come un reato di lesa maestà da Roger. Tanto che a sua volta decide di contro-vendicarsi proprio nel luogo dove ci sarebbe dovuto essere il tributo celebrativo al regista americano. Nella canzone Perfect Sense - Part 1 inserisce un messaggio alla rovescia non proprio amichevole nei suoi confronti. Insomma, si scatena la tempesta perfetta fra due geni burberi ed egotici.
Ma l'alchimia di 2001: Odissea nello Spazio non poteva lasciare nulla di irrisolto fra due artisti tanto simili e vicini da ineluttabilmente finire distanti. Qualcosa doveva accadere. E se la scintilla ormai non poteva più scoccare fra i due, ci avrebbe pensato il destino a riunirli indissolubilmente. E il destino, si sa, spesso veste i panni dell'ignaro passante. Nel 2008 a uno sconosciuto utente di Youtube viene la pazzesca idea di sovrapporre la scena finale di 2001, quella intitolata Jupiter and beyond the infinite, con Echoes, canzone di chiusura dell'album floydiano Meddle (1971), uscito curiosamente lo stesso anno di Arancia Meccanica. Ebbene, il risultato è strabiliante: a parte qualche piccola sfasatura, immagini e musica viaggiano in sincrono, come se le due cosse fossero nate per stare assieme nonostante fossero state partorite in posti diversi e in anni diversi. O forse in realtà sono creature gemelle, divise solo dalla distorsione dello spazio e del tempo, la stessa che chiude in maniera circolare il capolavoro di Kubrick. Chissà, forse alla fine anche a Stanley e Roger piace pensarla così.


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