2001 Odissea nello spazio è Dio, il mondo e
Nietzsche. Ma anche nulla di tutto questo
Quando lo vide Rock Hudson uscì dalla sala:
“Qualcuno può dirmi di che diavolo parla questo film?”. Non c'è nulla da
trovare. La cosa migliore da fare, forse, è perdersi.
Nicola
Mirenzi Giornalista e blogger
Quando la prima proiezione di 2001: Odissea nello spazio non
era ancora finita, Rock Hudson si alzò dalla poltrona e uscì dalla sala
domandando: "C'è qualcuno che può dirmi di che diavolo parla questo
film?". Da allora – era il 29 marzo 1968, proiezione per Life, prima
dell'uscita al cinema il 2 aprile 1968– sono state date a questa domanda
decine, forse centinaia di risposte scritte, interpellando il mistero, la
divinità, l'infinito, la magia, i totem, l'alchimia, i miti, la psicoanalisi,
la numerologia: interi saperi sono stati mobilitati a decifrare l'enigma.
"Ciascuno è libero di fare tutte le speculazioni che
vuole sul significato filosofico e allegorico del film", disse Stanley
Kubrick in un'intervista con "Playboy", una delle poche volte in cui
ne parlò. L'intervistatore, Eric Norden, gli aveva sottoposto l'ipotesi che il
suo fosse "il primo film nietzschiano" della storia, individuando una
corrispondenza tra l'avvento del super-uomo profetizzato dallo Zarathustra di
Friederich Nietzsche e il figlio delle stelle concepito nell'universo alla fine
della sua Odissea. "Non è un messaggio che ho mai inteso comunicare a
parole", risponde il regista: "2001 è una esperienza non
verbale".
Nelle due ore e diciannove minuti del film, i dialoghi tra i
personaggi occupano meno di quaranta minuti. Si parla poco, pochissimo nel film
– ma, quando è finito, non si fa altro che parlarne. "Per le sue sapienti
ellissi e i suoi vuoti, così come per le sue sovrapposizioni arbitrarie di musica
e immagine – scrive Michel Chion ne "L'umano, né più né meno"
(Lindau) – il film di Kubrick è una macchina per far salivare nello spettatore
la ghiandola interpretativa". Le scene diventano così un rimando, un'esca
lanciata per far abboccare all'amo del significato, facendo scorgere dietro di
esse una chiave che apre la porta del senso. E più le immagini tacciono, più si
moltiplicano le esegesi. Sopratutto, filosofiche.
Il preludio di "Also sprach Zarathustra, Op. 30", –
la sinfonia composta da Richard Strauss nel 1896 e usata da Stanley Kubrick
all'inizio e alla fine del film – rimanda immediatamente al testo di Nietzsche
a cui è ispirata, stabilendo – secondo Jerold J. Abrams – un legame tra le due
opere. "Attraverso le immagini in movimento – scrive in "The philosophy
of Stanley Kubrick" – il regista cattura l'intera epica evolutiva di 'Così
parlo Zarathustra'". Il suo film attraversa i medesimi stadi
dell'evoluzione nietzschiana, "partendo dalla scimmia, procedendo
attraverso l'umanità e culminando in una nuova forma (oltre umana)" di
vita, raffigurata da Kubrick con l'immagine del feto che nasce in orbita, nel
grembo dell'universo, senza una madre e un padre, volteggiando nel cosmo come
la "stella danzante" di cui parlava Nietzsche e che è stata partorita
dal caos.
C'è un guastafeste, tuttavia, in questo castello
interpretativo: e si chiama Dio. Nietzsche, infatti, è il filosofo che ha
annunciato la sua morte. Kubrick, invece, dice – addirittura – che il concetto
di Dio è "al centro" del suo film. Ma quale Dio? Il regista non ha in
mente "un'immagine tradizionale, antropomorfa di Dio", bensì crede
sia "possibile formulare un'affascinante definizione scientifica una volta
accettato il fatto che esistono circa cento miliardi di stelle solo nella nostra
galassia". Leggendo queste righe, il gesuita e scienziato John Braverman
ha avanzato "un'interpretazione teologica" del film (è contenuta in
"Interviste extraterrestri, Isbn Edizioni). "Il Dio presente in 2001:
Odissea nello spazio – scrive – è il Dio dei filosofi. Non è il Dio personale,
amorevole, delle relazioni intime caro a Isacco, Abramo e Gesù". Tuttavia,
aggiunge, la definizione di Dio che propone Kubrick offre una "teologia
molto profonda", giacché i passi logici che egli compie per arrivare ad
abbozzare la sua idea della divinità ricalcano le linee logiche della teologia
classica, in particolare quelle della "Summa" di San Tommaso
d'Aquino. Le due formulazioni hanno uno spettacolare particolare in comune:
"L'uso delle informazioni sul mondo naturale per inferire l'esistenza di
esseri più intelligenti". Così – conclude Braverman – anche se Kubrick non
crede a nessuna delle religioni monoteiste della Terra, la linea del suo
pensiero ne segue perfettamente le orme.
È a Dio che torna anche Alberto Moravia, recensendo il film su
l'Espresso del 29 dicembre del 1968, definendolo un prodotto e non un'opera
d'arte, come invece lo concepisce Kubrick. Nell'articolo, Moravia parla dei
monoliti che appaiono per quattro volte nella pellicola e che stanno "a
indicarne l'arcana presenza" divina. Racconta che gli uomini, temerari,
partono in volo per andare a esaminare e decifrare il significato di quella
stele che non capiscono, comportandosi come noi spettatori che, di fronte al
mistero delle immagini dell'"Odissea nello spazio", cerchiamo subito
il conforto di una spiegazione che ci rassicuri, contravvenendo all'ipotesi di
compiere, come desiderava Kubrick, un'"esperienza visuale" che
oltrepassi l'astrazione delle idee e del significato. "Ho voluto che il
film fosse – ha detto il regista – un'esperienza intensamente soggettiva,
capace di raggiungere lo spettatore a un livello di consapevolezza interna,
proprio come fa la musica: 'spiegare' una sinfonia di Beethoven equivarrebbe a
infiacchirla, erigendo una barriera artificiale tra concetto e
comprensione". Per questo, ogni volta che gli hanno chiesto di parlare
dell'interpretazione del film, Kubrick si è rifiutato di dare una risposta,
dicendo che non era sua intenzione fornire una mappa" con la quale
orientare il percorso dello spettatore. Poiché in "2001: Odissea nello
spazio" non c'è nulla da trovare. La cosa migliore da fare, forse, è
perdersi.
"Uno shock anche in musica, quello Strauss mi
ha segnato". Intervista al compositore Franco Piersanti su 2001 Odissea
nello spazio
"Fu "Così parlò Zarathustra" a
segnarmi. È un assunto filosofico soprattutto per la qualità musicale che è
così particolare... è un marchio che rimane"
"2001: A Space Odyssey", un titolo e un film che
sono leggenda. Cinquanta anni fa, il 2 aprile del 1968, veniva presentato in
anteprima a Washington e da allora, quella pellicola ricordata spesso per le
sue atmosfere rarefatte, asettiche e incorporee, non ha smesso mai di piacere
tanto da diventare una pietra miliare del cinema. Il merito va al suo
"creatore", il regista Stanley Kubrick, che la realizzò sulla base di
una sceneggiatura originale portata avanti in parallelo come romanzo dallo
scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke - autore del racconto "La
sentinella", considerato a sua volta l'embrione della storia - ma in
realtà quella sceneggiatura scritta a quattro mani è da ritenersi originale
tanto che gli valse una nomination all'Oscar, assieme a quella per la migliore
regia e per la migliore scenografia, ma la statuetta arrivò solo per i migliori
effetti visivi.
A distanza di cinquant'anni, il film – che segue la missione
di un gruppo di astronauti in viaggio verso Giove affrontando molteplici temi
differenti (da quelli fantascientifici all'identità e al destino dell'umanità
fino al rapporto di quest'ultima con l'universo e con le intelligenze
artificiali) - continua a piacere e ad avere un pubblico enorme di
appassionati, tanto che al 71esimo Festival del Cinema di Cannes, in programma
dall'8 al 19 maggio prossimi, nella sezione "Cannes Classics" sarà
presentato in una versione non modificata in settanta millimetri dal "kubrickiano"
Christopher Nolan, regista, tra gli altri, di "Interstellar" e
"Dunkirk".
"2001: Odissea nello Spazio" ha rivoluzionato la
fantascienza, "è un film che ha cambiato tutti per sempre", recita il
claim della nuova locandina creata ad hoc dalla Warner Bros per la Croisette.
La pensa così anche Franco Piersanti, da quarant'anni uno dei compositori più
apprezzati, amati e richiesti nel nostro cinema, autore di colonne sonore
indimenticabili, il preferito da Nanni Moretti (con cui lavora dal 1976, anno
di "Io sono un autarchico"), Bernardo Bertolucci e Gianni Amelio,
giusto per citarne qualcuno, autore delle inconfondibili musiche de "Il
commissario Montalbano" nonché vincitore di numerosi premi e
riconoscimenti, dai David di Donatello ai Nastri d'Argento.
"2001: Odissea nello Spazio" è
sicuramente un film fuori dalla temporalità: sarà per questo che piace così
tanto?
"Sicuramente, ma soprattutto perché è un film che ha
segnato e ha indicato in maniera profetica il futuro del cinema di fantascienza
o comunque scientifico con dei risvolti forti e profondi anche sul piano
filosofico. Quando uscì era il 1968, subito dopo la tecnologia è avanzata
molto...è un film che ha dato un'accelerazione a tante cose. Ancora oggi
vediamo dei film straordinari che non sono però a quel livello tecnico e
pertanto, questo continua a rimanere sempre come un film di paragone sul piano
della realizzazione tecnica".
Nel film c'è un'immagine iniziale e un'immagine
finale che non presentano alcun tipo di dialogo per un totale di quasi
cinquanta minuti veicolati solo da immagini, suoni e musiche: che effetto le
fece vederlo all'epoca?
"Me la ricordo come uno shock e anche piuttosto
angosciante ad un certo punto. La mia testimonianza non è di uno spettatore
adulto e con un bagaglio culturale...credo che tutti siano stati aggrediti da
quel film in senso buono".
Quale fu la sua reazione dopo averne ascoltato le
musiche?
"Quando lo vidi, dell'intera colonna sonora, forse, a
malapena, conoscevo solo "Sul bel Danubio blu" di Johann Strauss jr.
Avevo diciotto anni, studiavo da qualche anno al conservatorio, ma il mio
bagaglio culturale era ancora tutto da formare. Fu comunque "Così parlò
Zarathustra" di Richard Strauss, il brano che segna l'inizio e la fine, a
segnarmi particolarmente. È un assunto filosofico soprattutto per la qualità
musicale che è così particolare... è un lemma, è come un marchio che rimane, ma
quando vidi il film non lo conoscevo come brano musicale".
Come spiegherebbe quella colonna sonora oggi a chi
non ha una certa cultura musicale ed esperienza come lei?
"Da musicista posso dire solo che quel film, offre spunti
di riflessione profondi a 360°. Sulla musica, non è stato il primo, ma
certamente questo è il film dove Kubrick ha usato soltanto musica di
repertorio, una cosa che ha poi ha continuato a fare anche successivamente,
penso a Shining ad esempio e Barry Lyndon. Ha sempre usato musica di repertorio".
Come saprà, la gestazione di questa colonna sonora
non è stata facile, ma lunga e faticosa...
"Sì, infatti all'inizio sarebbe dovuta essere
completamente diversa in quanto realizzata da Alex North – autore della musica
del kolossal Spartacus, poi, però, quel noto compositore hollywoodiano fu messo
da parte, perché Kubrick aveva già in mente di usare questa musica di
repertorio. North non era assolutamente consapevole delle scelte del regista,
non ne sapeva nulla. I brani erano stati registrati, ma poi non furono inseriti
e la partitura originale di North è rimasta una leggenda nel mondo della
cinematografia, forse anche perché venne respinta da Kubrick".
A livello musicale, scelte come queste, a dir poco
drastiche, cosa comportano?
"Per la musica del cinema è un dato importante perché
ancora oggi la musica di repertorio è per alcuni compositori un po' come il
diavolo e l'acqua santa, dal momento che quando si trovano a combattere con una
musica preesistente, combattono con un'idea già realizzata su cui il regista
deve sovrapporre la sua di idea".
Oltre a quelli già ricordati, cosa ci dice degli
altri brani del film?
"Ognuno di quei brani è perfetto per quel film, mi
riferisco anche a "Atmosfere" "Luce Eterna"
"Avventure" e "Kyrie" di Gyorg Ligeti o la suite del balletto
"Gayane" di Aram Kachaturian. Le sue intuizioni musicali che ha avuto
Kubrick sono state formidabili. L'inizio è straordinario, ha a che fare con
l'assoluto, l'infinito, il crescendo, l'alba sulla terra, il sole che
sorge...sono tutte immagini che sono diventate delle vere e proprie icone del
Novecento assieme alla musica. Dello stesso peso sono state poi anche tutte le
altre trovate, come la ruota della stazione spaziale con il "Sul bel
Danubio blu" è straordinaria. Colpisce la leggerezza della trovata
spiazzante, perché non è una musica certamente che a che fare con la tecnologia
quel valzer lì, ma con l'impero viennese e con tutta un'altra cultura. Fa
roteare la ruota come quella della ruota circolare al Prater di Vienna,
sicuramente. Le ispirazioni e i motivi di abbinamento musicale sono formidabili
per questo, perché per la prima volta non è musica scritta apposta, ma trovata
apposta e le analogie sono stupende da questo punto di vista. Le due musiche di
cui ho parlato all'inizio - "Sul bel Danubio blu" e "Così parlò
Zarathustra" - sono quelle che restano di più dentro".
Lei è stato influenzato da questo film e dalla sua
musica?
"No, nel mio scrivere musica non c'è stato, ma c'è stato
solo un rimanere stupito davanti ad una cosa così profonda. È un film, lo
ripeto, che ha dei lati insondabili. Probabilmente lo dico perché la scienza e
la tecnologia mi appassionano molto e restano anche un certo mistero. Questo
film le racchiude tutte quante da allora. È straordinario, cosa si può dire di
più? La parte del cervello HAL 9000 sembra una faccenda shakespeariana quasi,
come non amarlo"?
Dunque, un film da consigliare a quei pochi che
ancora non lo hanno visto?
"In realtà invidio molto chi non lo ha ancora visto.
Sarebbe interessante vedere la reazione di un adolescente, vedere cosa ne pensa
alla sua prima visione, anche se in realtà oggi i ragazzi convivono già con
quel genere di film. Potrebbero stupirsi che in quegli anni succedeva una cosa
del genere nel film, un po' come a noi i film di fantascienza degli anni
Quaranta e Cinquanta".
Lo consiglierebbe anche a qualche politico?
"Sì certo, nella maniera più assoluta, magari gli fa
bene! Io, personalmente, non lo vedo da tempo, ma la qualità del film dal punto
di vista tecnico è straordinaria ancora oggi".
Parliamo di lei: quando scrive una musica per un
film è sempre un'esperienza diversa. Qual è la sua regola? Come lavora?
"Gli approcci con un film variano da musicista a
musicista e da musicista a regista e al rapporto che hanno. Il regista lo
racconta al musicista e già questa è una chiave importante per entrarci. Poi
c'è la sceneggiatura, la lettura, ma la cosa più importante è vedere il
risultato, non tanto il film finito, ma le prime immagini che sono la
proiezione completa del regista stesso. Dalla pagina scritta alla
realizzazione: tutte queste cose qua hanno un fattore importante che dipende
dal momento, dalle condizioni economiche in cui il regista viene messo per
girarle. Sono tutte cose che contribuiscono a renderlo migliore, diverso e
tutto quello che si è discusso prima, cambia. Quando c'è il film, anche sen non
è finito di montare ed è in una fase provvisoria, lì è il punto cruciale dove
l'idea ha finalmente un confronto con quello che è stato progettato e si può
cambiare oppure prendere un'altra strada, anche molto velocemente, perché non
c'è tanto tempo per pensare".
Scusi la domanda che può sembrare banale o che
richiede una risposta molto ampia, ma cos'è per lei la musica?
"È il mio modo di vivere da sempre, una parte essenziale
del mio modo di vivere, mi ha permesso di vivere facendo questo lavoro, è un
modo di pensare".
Dopo "La Tenerezza", l'ultimo film di
Gianni Amelio e i due episodi della serie tv Montalbano, quali musiche farà?
"Farò i due nuovi Montalbano che stanno per iniziare a
girare e un film di un regista americano, Joshua Sinclair, intitolato "A
Rose in winter", la storia di Edith Stein, una filosofa ebrea convertita
al cristianesimo che si è fatta monaca, internata ad Aushwitz dove è morta e
poi canonizzata negli anni Ottanta".
Farà anche il film che Amelio sta per girare su
Craxi?
"Questo non lo so, si vedrà. Sono esigenze che piano
piano devono arrivare, non mi sento di dire nulla, in base a come cambiano le
esigenze dei registi. Tornando a Kubrick, può darsi che la musica di repertorio
ad un certo punto sia più funzionale per i registi stessi".
Stanley Kubrick e Roger Waters, storia di screzi e
incomprensioni di due geni burberi ed egotici. Uniti a loro insaputa da 2001:
Odissea nello Spazio
Gianni Del
Vecchio Condirettore L'HuffPost
Due geni assoluti, due menti superiori, due ego ipertrofici,
due caratteri difficili, due artisti che hanno cambiato musica e cinema e hanno
forgiato l'immaginario collettivo di almeno tre generazioni. Due anime
destinate a incontrarsi ma che sono finite per scontrarsi. E che solo la magia
di 2001: Odissea nello Spazio è riuscita a riunire. A loro insaputa.
La storia è molto semplice ed è questa. Siamo nel 1970 e
Stanley Kubrick, dopo le fatiche di 2001: Odissea nello spazio, sta
lavorando all'altro grande film che l'avrebbe consegnato alla storia del cinema
e cioè Arancia Meccanica. Come suo solito, si getta febbrilmente alla
ricerca delle musiche adatte, visto che per lui la qualità della colonna sonora
viaggia di pari passo con quella della fotografia. Si ritrova per le mani un
disco strano e per certi aspetti rivoluzionario uscito proprio in quell'anno,
riconoscibilissimo per una strana mucca in primo piano come copertina. Si
tratta di Atom Heart Mother, album sperimentale di un gruppo in ascesa
sulla scena anglosassone e che da lì a poco avrebbe composto il più bel disco
della storia del rock: i Pink Floyd. In particolare, il regista si innamora
della title track, una suite di ben 24 minuti per la cui
registrazione la band inglese ha assoldato addirittura un'orchestra sinfonica.
Gli piace così tanto che alza la cornetta e chiama direttamente il leader del
gruppo, il bassista Roger Waters. Ma è qui che purtroppo succede il patatrac, è
qui che i due ego si toccano e inevitabilmente danno luogo a un esplosione. Waters racconta così la telefonata. "Stanley ci chiamò
e ci disse che voleva la nostra canzone. Noi gli dicemmo 'Bene, che ne vorresti
fare?'. Lui rispose: 'Non lo so ancora, ma la voglio usare come voglio e quanta
ne voglio'. Allora non avemmo esitazione e gli rispondemmo: 'Bene, niente da
fare, non te la diamo' ".
Il gran rifiuto bruciò molto a Kubrick che - come raccontano
le innumerevoli biografie - in virtù di un carattere tutt'altro che accomodante
si legò al dito la questione da lì agli anni a venire. Dovette aspettare
suppergiù una ventina d'anni, ma l'agognata vendetta arrivò. Fredda ma allo
stesso tempo gustosa. Nel 1991 Waters sta lavorando al suo terzo album da
solista, Amused to Death, quando decide di usare la voce di Hal 9000, il
celebre computer di bordo di 2001, in una delle canzoni. Forse immemore
dello sgarbo di un paio di decenni prima, gli viene l'incauta idea di chiedere il permesso al regista in
persona. Ovviamente Kubrick coglie l'occasione per liquidarlo con un secco no,
dicendo che se avesse dato il via libera a Waters l'avrebbe dovuto dare a
tutti. Apriti cielo. Paragonare la mente dei Pink Floyd a "qualsiasi altro
cantante", viene vissuto come un reato di lesa maestà da Roger. Tanto che
a sua volta decide di contro-vendicarsi proprio nel luogo dove ci sarebbe
dovuto essere il tributo celebrativo al regista americano. Nella canzone Perfect
Sense - Part 1 inserisce un messaggio alla rovescia non proprio amichevole
nei suoi confronti. Insomma, si scatena la tempesta perfetta fra due geni
burberi ed egotici.
Ma l'alchimia di 2001: Odissea nello Spazio non poteva
lasciare nulla di irrisolto fra due artisti tanto simili e vicini da ineluttabilmente
finire distanti. Qualcosa doveva accadere. E se la scintilla ormai non poteva
più scoccare fra i due, ci avrebbe pensato il destino a riunirli
indissolubilmente. E il destino, si sa, spesso veste i panni dell'ignaro
passante. Nel 2008 a uno sconosciuto utente di Youtube viene la pazzesca idea
di sovrapporre la scena finale di 2001, quella intitolata Jupiter and beyond
the infinite, con Echoes, canzone di chiusura dell'album floydiano Meddle
(1971), uscito curiosamente lo stesso anno di Arancia Meccanica.
Ebbene, il risultato è strabiliante: a parte qualche piccola sfasatura,
immagini e musica viaggiano in sincrono, come se le due cosse fossero nate per
stare assieme nonostante fossero state partorite in posti diversi e in anni
diversi. O forse in realtà sono creature gemelle, divise solo dalla distorsione
dello spazio e del tempo, la stessa che chiude in maniera circolare il
capolavoro di Kubrick. Chissà, forse alla fine anche a Stanley e Roger piace
pensarla così.
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