martedì 19 giugno 2018

Rossini: buffo o serio?

Rossini: buffo o serio?

Il teatro musicale dell'Ottocento è stato oggetto di revisioni infinite sotto la formula di "Renaissance". La prima, negli anni Venti del secolo scorso, è stata la "Verdi-Renaissance" mentre il wagnerismo (non Wagner) moriva sotto gli squilli demolitori della "Petrouska" di Stravinskij e dei foxtrot spietati di Hindemith.
Si iniziava a respirare e gli appassionati di "Aida" o "Trovatore" iniziavano a non vergognarsi della loro passione per il gran bussetano. In realtà, comunque, molte opere di Verdi, tranne le giovanili, erano rimaste ben salde in repertorio riconoscendone il valore sommo di uno dei più grandi geni del genere. Così non accadde, tra le altre, per la successiva e più importante rinascita, data la statura del compositore: la "Rossini Renaissance".
Essa ha il suo epicentro a Pesaro e, specificatamente, al festival dedicato al suo grande concittadino che, con sdegno di Fedele d'Amico, adottò per identificarsi la sigla di R.O.F. (Rossini Opera Festival), in ossequio agli amici americani ai quali si deve una poderosa ricognizione critica.
Questa rinascita, termine adottato da Bruno Cagli, critico musicale assurto agli onori della musicologia grazie alla sua poderosa e primaria opera di rilettura critica delle opere del pesarese e al quale si deve giusto appunto il termine di "Renaissance", è la riproposta sistematica di innumerevoli opere addormentate da decenni se non addirittura dalla prima rappresentazione. Accanto a opere che, in effetti, valevano il loro sonno, sono emerse vere e proprie scoperte, presenze reali direbbe George Steiner, che hanno definitivamente illuminato il mondo del genio indiscusso di Rossini. Fra tutto questo marasma di partiture recuperate, intere scene riproposte in diversi melodrammi che consentono oggi di ascoltare un girotondo di temi che passano da un'opera ad un'altra, conviene ricordare l'opinione che predilige(-va) l'opera seria del Maestro a quella buffa.
Verdi univa indissolubilmente il nome dell'illustre collega al "Barbiere", così come lo stesso Beethoven e che Schumann paragonava ad un'aquila contro la farfalla italiana. Rossini stesso si considerava in quella direzione: "J'etais né pour l'opéra buffa, tu le sais bien": quel "tu" era riferito al Bon Dieu, giudice inappellabile anche di questioni musicali, ovviamente, e a noi quindi non rimane che condividere questo parere. Per opera seria, non ce ne voglia Fedele d'Amico, che ammiriamo sopra ogni dire, si intende la successione che va dal "Ciro in Babilonia" (1812) alla "Semiramide" con la quale si congedò dall'Italia nel 1823: non già i due rifacimenti francesi, "Le Siège de Corinthe" (dal Maometto II), e il "Moise et Pharaon" (dal "Mosè in Egitto") e, tanto meno, il "Guillaume Tell", omaggio ai liberali parigini, non ostante la famosa boutade di Hanslick: "Il 'Guillaume Tell' è il capolavoro di Rossini, però il 'Barbiere' è molto meglio". Boutade ripresa da Fedele D'amico al quale stava a cuore la presenza di una partitura autorevole, del 1829 – a un anno dalla morte di Schubert! -, in cui non vi fosse traccia di quella catabasi (zone oscure della coscienza o, meglio, dell'anima) che definisce la "Romantik" (il bosco del "Guillaume" non è certo quello del "Freischütz" di Weber).
La farfalla aveva quindi pieno diritto all'esistenza, e poteva divenire una opzione etica se non addirittura una predilezione estetica, un vessillo: dalla congiura del suo secondo atto si sarebbe gettata la base di tante altre a partire dall'"Ernani" di Verdi. Non si vuole e non si deve pensare a un Rossini patrono del Quarantotto, ma a un musicista olimpico, capace di sradicare la psicologia a zero e rivalutando ciò che Stendhal deprecava: ridurre il teatro a concerto, l'azione a una successione di arie o "ensembles". Ciò non è opposizione all'Ottocento ma alla stessa rivoluzione di Mozart stimolato da Da Ponte: la questione che a Rossini interessa scartare è il realismo e, di rimando, le creazioni musicali dei personaggi secondo una esigenza interiore: le sontuose note rossiniane ci aprono spazi etico-ontologici vuoti.
Si pensi all'"Ermione", scritta per il San Carlo di Napoli nel 1819 (a 27 anni!) e rimasta pressoché sconosciuta dopo il fiasco toccatole e ripresa dal Festival nel 1987: Rossini, che era ascoltato in tutti i teatri d'Europa come un oracolo, non volle mai riprenderla, consapevole della carica innovativa non compresa che questa opera porta con sé. "Ermione" è tratta, incredibile dictu, dall'"Andromaque" di Racine e riflette le passioni dell'autore per i modelli adorati dell'opera aulica, per l'eterno Metastasio, e Rossini gli paga un tributo regale di melodismo e di bel canto di una bellezza sconcertante; dall'altro lato aderisce, quasi in contrapposizione, alle convenzioni della tragédie-lyrique: il contatto, successivo, con la Francia, non fu capriccio momentaneo.
Ma, sappiamo, da Aristotele in poi, che la Tragedia ha principi inflessibili in ogni aspetto e con Racine diventano coercitivi al massimo: nulla, infatti, giustificherebbe, in "Ermione", il ritorno sulla scena di personaggi classici, se essi non venissero intesi come terminus a quo, su cui grava una più grave Ananke (o destino!) che è l'essenza della "Grazia" (Wagner se ne appropierà fino a risultati di gravità incalcolabile). La rivisitazione cristiano/giansenista conferisce alle figure di Euripide una luce oscura che ne svela ancora meglio la fatalità: non più di morte si tratta, ma di dannazione.
La duttilità incredibile dello stile rossiniano, la sua implacabile olimpicità, è in grado di affrontare situazioni estreme che avrebbe fatto tremare i polsi a chiunque, e non già perché le assuma, ma perché ne prescinde: le furie di eroina restano solo oggetto di raffigurazione, sono, infine, pretesti per costruire architetture sonore incredibili. Di esse, il concertato dell'"Ermione" è esempio fra i più mirabili.
Altro caso, diremo allarmante, è un'opera semiseria, alla quale tocco stessa sorte: "La Gazza ladra" scritta a 25 anni!). In essa di comico non vi è quasi nulla anzi, è una faccenda quasi crudele che porta a immaginare sia destinata al lutto, risollevandosi poi alla fine ove qui abbia a trionfare la bontà. Al contrario è presente in questa opera un luogo di patetismo funebre il cui commento è affidato ai legni in orchestra; inoltre vi sono momenti strabilianti – come il terzetto del primo atto! – che risplendono di luce marmorea, in omaggio allo zenit del bello ideale. Tutto questo a onta di formule zeppe a non finire che allungano la durata a proporzioni eccessive ove la stravaganza e l'anomalia sono salvate dalla perfetta consapevolezza del compositore
La mente di Rossini è acuta e vivace, ma non più vasta di quella di un connazionale tipico: vacanze, ozio, belle signore da corteggiare, chiacchiere, "soufflés" e "tournedos" famigerati. Senza mai spostarsi da questa posizione, il musicista inventò un tipo di comicità che sfiora il vortice dell'insensato e di cui, in piena esigenza da "comique absolu" baudelairiana, il teatro francese ne riprese i fondamenti con esiti stupefacenti: Auber, Lecocq, Hervé, Feydeau.
L'acquisizione di queste, e altre ancora, opere, sono acquisizioni indiscutibili: alla miracolosa impostazione teatrale senza sdegno di Mozart o Haydn, è da rilevare una inventiva melodica e ritmica vulcanica, da togliere il fiato. Rossini, fin da giovanissima età, non perde un colpo: una forza inesauribile regge le sue trame che, fin dagli esordi, sono inscalfibili: oltre alla arcinota "Cenerentola" (scritta a 24 anni!), vogliamo ricordare "Il Signor Bruschino" (scritta a 21 anni!) e "L'occasione fa il ladro" scritta a 20 anni!): piccoli, enormi, miracoli!
Ma questi giorni tanto amabili erano destinati alla fine; la psicosi o, come scrive Rossini stesso, "l'ostinato mal di nervi che mi toglie i sonni e direi quasi l'uso della vita". Maggiormente dolorosa fu la consapevolezza di sentirsi irrimediabilmente estraneo: "lo stato d'impotenza mentale e ognor crescente in cui vivo", in un periodo storico nel quale la parola d'ordine è "urlare". Agli inviti, se non preghiere, costanti di riprendere a comporre, Rossini così risponde nel 1850: "la presente disarmonia europea costituirebbe un motivo insuperabile per me".
È lecito pensare che qui, il Maestro, intenda il rifiuto delle innovazioni della armonia romantica scorgendo in questa "disarmonia" la violenza faustiana, l'indagine di spazi fino a ora inesplorati. Così, per opporsi ai tempi "di assassini, rivoluzioni, corruzioni, ecc.", studia il pianoforte consapevole di appartenere ad "una famiglia" che potrà fare la barba ai garibaldini.

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