Il
Paese che non c’è e delle cose che non vanno
A
voler parlare di politica, di questi tempi, si rischia di infilarsi in un
imbuto, visto che è diventato motivo quotidiano di proteste.
Magari
se ne fosse parlato prima, quando c’era bisogno di farlo e, al contrario, tutti
battevano le mani ma non voglio essere quello che aggiunge cose già dette,
tranne alcune mie riflessioni personali.
Che
la situazione, economica, sociale, sia pesante, è sotto gli occhi di tutti, che
i sacrifici richiesti per uscire da questa guerra di cifre, perché è di questo
che ormai da mesi sentiamo parlare, è innegabile. Purtroppo viviamo in un
regime capitalistico, quindi, nel bene e nel male, l’economia è il fattore
primario in ogni azione politica; aggiungiamoci che la crisi è internazionale e
che il precedente governo anziché cavalcarla con provvedimenti impopolari ma
necessari, l’ha lasciata galoppare arrivando all’attuale drammatica situazione
e continuando allegramente nei suoi intrallazzi è altrettanto innegabile. Mario
Monti e il suo governo di professori, purtroppo sono stati chiamati a fare
quello che, per inettitudine non è stato fatto, da chi governava prima e da un opposizione
confusa e dilaniata da conflitti interni, l’alternativa il dissolversi economico
e politico di questo Paese, anche se qualcuno sostiene il contrario. Giuste le
lamentele di chi si trova a pagare in prima persona e anche pesantemente, è il
caso di dirlo, gli errori di altri, ma il problema è squisitamente politico. I
partiti vorrebbero che la colpa delle leggi impopolari, ricadesse solo sull’attuale
governo ma, allo stesso tempo, pretendono di condizionarne l’azione per non
deludere la base elettorale che rappresentano. Siamo alla farsa, chi ha
contribuito pesantemente alla catastrofe, non vuole governare per ignavia, e
contemporaneamente pretende di correggere chi lo fa al posto suo.
Dopo
sei mesi stiamo assistendo allo stato confusionale dei partiti che sostengono
questo Governo e che nello stesso tempo cercano, disperatamente, di rifarsi una
verginità ormai perduta, visto che ormai quasi il 40 per cento degli italiani
non ne vuole più sapere di loro; dei giuramenti più o meno credibili che
vengono fatti, sulla durata e sulla loro fedeltà al governo, leggiamo
(ultim’ora) che hanno scoperto l’acqua calda: sciolgono le vecchie consorterie
partitiche per rifarle nuove, mantenendo le stesse facce di prima, magari con
l’innesto di qualche tecnico, lusingato con promesse di gloria e qualche
industriale, catapultato in politica, non si capisce se per servire il paese o
altri interessi. Sicuramente il professore arriverà a portare a termine il suo
compito di risanamento, ma nello stesso tempo, riuscirà a certificare, se mai
ce ne fosse stato bisogno e in maniera sempre più evidente, la spaccatura
dell’Italia tra ricchi e poveri. Tra chi può e chi non può; che non vuol dire,
tra chi compra l’utilitaria e chi la macchina di lusso, ma tra chi non mangia e
chi nel lusso ci sguazza comunque. Sicuramente l’azione del professore sarebbe
più convincente se, oltre ai soliti noti a reddito fisso o ai pensionati, tanto
per citare due categorie a caso, i sacrifici venissero richiesti anche a chi di
soldi ne ha tanti. Con i dovuti distinguo tra chi ha lavorato sodo e si è
creato una nicchia di mercato, grande o piccola che sia, comportandosi secondo
etica civile e sociale e chi, invece, si fa chiamare imprenditore solo perché,
altrimenti non saprebbe come catalogarsi e che i soldi se li è fatti con
intrallazzi politici e affari sporchi. Ovvio che tutto questo stato di cose
crea e alimenta un clima di odio sociale tra padroni e operai, di antica
memoria; se poi ci aggiungiamo i politici, le cui ruberie appaiono
quotidianamente sui giornali, la loro
impunità di cui vanno fieri, il loro sorriso ironico nei confronti di chi vorrebbe
consegnarli alla giustizia senza riuscirci, il gioco è fatto; senza contare i
soldi che vanno in finanziamento ai partiti stessi e che sono pagati da noi
contribuenti. Sono convinto che è sempre meglio un partito finanziato
pubblicamente, piuttosto che un partito sponsorizzato economicamente da un solo
soggetto che ne condiziona le scelte e manovra i suoi esponenti come marionette
e non serve certo andare indietro nel tempo per capire a cosa mi riferisco,
resta il fatto che regole chiare e meno soldi diventano una necessità. Non sono certo uno che privilegia la lotta di
classe com’era intesa il secolo scorso anzi sono un convinto assertore che,
accanto alle giuste rivendicazioni degli operai, ci sia posto anche per le
istanze, sacrosante di chi si è costruito un’azienda artigianale e che, nel suo
piccolo, si è creato una condizione, non di privilegio ma di giusto diritto a
non vedere sciupato il suo lavoro. Per le grosse imprese, invece, il discorso è
un altro; raggiunto l’apice del successo, anziché consolidarlo con nuovi
investimenti, giocano i guadagni in borsa alla ricerca della illusoria
moltiplicazione degli stessi o si appoggiano al politico di turno che gli
garantisce soldi rapidi e fatti senza tanti scrupoli, magari con la sicurezza
dell’impunità. A ben vedere, l’incognita
principale è l’italiano, soggetto che,
per sua natura, si disinteressa della cosa pubblica, conferendo ad altri il
compito di gestire la società, senza controllare l’operato di chi ha votato,
pur che non venga disturbato nella coltivazione del suo orticello, salvo,
quando le cose vanno male, cominciare a urlare e pretendere giustizia sommaria.
Mi chiedo dov’erano tutti quelli che si sono affidati al venditore di pignatte,
quello che ha promesso pascoli verdi e fiumi di miele perenni e il cui disastro
è sotto gli occhi di tutti; del suo alleato che ha fatto dell’onestà e della
secessione dal malgoverno, il suo punto di forza e la cui fine ingloriosa è
sulle pagine dei giornali. Basterebbe entrare nell’ordine di idee che siamo
arrivati al capolinea e che non c’è più spazio per giocare; convincersi, noi
italiani e i politici soprattutto, che basterebbero poche regole, un programma
serio, semplice, pratico e di sicura applicazione e un costante controllo dell’operato
di chi vuole fare il politico di professione:
una
legge elettorale che dia la possibilità di conoscere chi si vota; la riforma
della giustizia e la certezza della pena per tutti, indistintamente;
una
seria programmazione di salvaguardia del territorio contro cementificazioni
selvagge; valorizzazione dell’arte, patrimonio che tutto il mondo ci invidia e
che potrebbe diventare una risorsa importantissima anche in termini economici;
una drastica riduzione delle spese militari, assurde come la guerra; una
guerra, quella sì spietata, all’evasione fiscale, una nuova regolamentazione
della legge bancaria, vera sanguisuga per tutti, lavoratori e imprenditori e garanzia
di un reddito dignitoso per operai e ceto medio che sono a pieno titolo, tessuto
importante della nostra società; nessuno deve avere paura di un futuro precario
tanto meno essere costretto ad ascoltare faccendieri che approfittano della
situazione per un loro tornaconto personale. Purtroppo, l’unico scopo che si
prefiggono, tutti, è la spasmodica corsa a riempire il portafoglio, tanto
quando ho i soldi faccio quello che voglio, è il ritornello più frequente, così
il denaro diventa un feticcio talmente importante da giustificare tutto:
rapporti personali, sociali, con gli operai, tra industriali stessi, giustifica
pure lo scempio ambientale, poco importa se è fatto dalla mafia o
dall’imprenditore senza scrupoli.
A
cavallo tra gli anni 70/80 c’è stata una rivoluzione culturale nei giovani di
allora, tra chi era super politicizzato dopo l’esperienza del 68 e chi, invece,
cominciava a intravedere quel benessere che apriva le porte ai divertimenti e
all’allegra gestione della società; ambedue le cose diventeranno estremi che
hanno lasciato il segno. Con la fine della prima Repubblica le speranze di
ricreare una società più pulita e una maggiore serietà nella gestione della
stessa, erano tante ma poi la storia è andata a finire come tutti ben sappiamo.
Ci vorranno sicuramente più generazioni
per modificare il costume di chi è cresciuto all’ombra delle tante
promesse, dei pochi fatti e del: “non pensate a niente, tanto ci sono io” ed è
forse, proprio questo il danno maggiore. Io ricomincerei dalla cultura che
ritengo fondamentale per la costruzione di una società diversa dall’attuale; la
considero una naturale prosecuzione dell’intelligenza, parola diventata poco di
moda, visto il quotidiano lavaggio del cervello che ci viene fatto dai media,
in quanto presuppone capacità di aggregazione, spontanea e non vincolata da
fattori ideologici esterni, razionalità e analisi dei problemi che vanno
risolti senza demonizzarli, negazione di ogni forma di razzismo, sia esso nei
confronti di altri esseri umani o di differenze sessuali e di qualunquismo,
buono solo per chi passa le sue giornate nei bar. Ragionevolezza ed equilibrio
mentale nel considerare, come detto poco fa, il denaro come uno strumento
necessario ma non fondamentale nell’esercizio della vita quotidiana:
sicuramente non è fonte di eterna felicità, ben altre dovrebbero essere le cose
che integrano il nostro modo di vivere. Ecco, queste sono le mie opinioni,
magari discutibili ma, se è vero che una casa si costruisce mattone su mattone,
con tanta pazienza qualcosa si riuscirebbe a fare anche tra di noi. Stiamo
vivendo una straordinaria trasformazione sociale che influirà pesantemente sul
futuro delle attuali giovani generazioni e stiamo commettendo l’imperdonabile
errore di volerla gestire con i vecchi metodi del passato, le stesse stupide
contrapposizioni ideologiche, anche se non di bandiera. Prendere atto che è
necessaria una nuova coscienza civile, culturale, ambientale, rendere la nostra
mente aperta e pronta ad interpretare il nuovo con vivacità e intelligenza
senza preconcetti e pregiudizi, significa tracciare una strada che porterà
benefici a tutti e, sicuramente renderà il tessuto sociale impermeabile
all’odio e alla violenza. Qualcuno penserà che io sia un utopista,
sognatore ma vale anche la pena di crederci se non altro per stima nei confronti dei giovani,
i quali si troveranno a gestire un’eredità piuttosto pesante e piena di
incognite, anche se sono sicuro che faranno meglio di noi.
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