sabato 24 marzo 2012

FUGA TRA CONFUSIONE E REALTA' - terza parte

Terza parte



Dopo alcuni giorni mi ritrovai pensieroso a chiedermi cosa ci facevo in quel posto dimenticato da tutti, pensavo a una guarigione miracolosa dei miei affanni in quest’oasi di pace e tranquillità, invece stava montando in me un nervosismo verso me stesso che, forse, era peggio di quando ero in pianura, sarà la noia pensai, il non fare niente da mattina alla sera, ritornare sempre con  la testa ai soliti pensieri, non essere riuscito a scacciarli.

Mi venne in mente di riprendere la mia vecchia passione di scrittore in erba, detto fatto comperai carta, penna e tutto l’occorrente e felice come non mai mi misi a riempire pagine su pagine di quaderno, scrivevo tutto quello che mi passava per la mente senza nessuna logica,con rabbia, cancellando frasi, riscrivendole, strappando pagine; la Tina, seduta accanto alla stufa a rammendare tutto quello che c’era da aggiustare e altro, scuoteva la testa e borbottava:
“Lei ha studiato troppo, tutto quello scrivere, troppa sapienza, deve distrarsi, interessarsi di qualcos’altro, altrimenti ritorna in pianura che è ridotto peggio di prima; se, da quel poco che ho capito, lei è venuto in cerca di pace e di tranquillità, prima deve guardare se stesso, poi vedrà che qui non le mancheranno le occasioni per capire e trovare quello che cerca.”
Rimasi stupefatto dalla logica stringente della donna, poche parole semplici e mi aveva spogliato di tutte le ragnatele che avevo nel cervello, e pensare che è analfabeta, mi dissi, dandomi dello scemo, comunque aveva ragione, cominciavo a dubitare di questa mia fuga, sicuramente inutile, sulla frenesia di ricercare qualcosa che neanch’io sapevo bene cosa fosse; In fin dei conti perchè me ne ero andato via da casa? Cos’è che mi mancava? Forse la colpa era della monotonia quotidiana nel lavoro che mi faceva scoppiare il cervello, non riuscire a capire quello che succede tutti i giorni, quando accendi la televisione o leggi i giornali e ti rendi conto che vince chi urla più forte, chi usa gli insulti più feroci.
Osservavo gli abitanti del posto, gente decisa che vive in simbiosi con la natura, che sa scandire le ore e i minuti, il passare del tempo, fatto di piccole cose e di grandi silenzi, cosa c’era di diverso tra me e loro, cos’è che non riuscivo a capire. Una mattina mi ero alzato troppo presto, era domenica e la campana chiamava i fedeli alla messa; senza sapere bene perchè mi incamminai verso la chiesa, ombre veloci e furtive, vestite di nero, mi passavano accanto; entrai, era buio, solo nei pressi dell’altare c’era un pò di luce, rimasi in un angolo ad ascoltare la funzione, non partecipavo al dialogo tra il prete e le donne, non ne sarei stato capace, da troppo tempo non entravo in una chiesa, non ascoltavo una messa, sentivo però che quella funzione religiosa voleva dirmi qualcosa;  quando uscii mi sedetti su di una panca di legno a riflettere, cominciavo senza volerlo a capire ciò che non avevo trovato nemmeno nel silenzio della montagna o che, forse, non avevo voluto trovare: mi mancava l’umiltà di parlare con me stesso, cercavo di inserirmi nella natura, seppur bella e affascinante, e negli uomini che mi circondavano, senza capire la  mia arroganza, era come se io avessi voluto comperare la felicità; usavo la quotidiana merce di scambio a cui ero abituato, senza rendermi conto che quello che cercavo e mi mancava, non era possibile comperare in nessun modo, dovevo cercarlo dentro di me.
“Cosa fa lì seduto al freddo, venga a casa a scaldarsi, le preparo una bella tazza di brodo caldo, vedrà che cambia subito colore, poco ma sicuro.”
Sorrisi tra me alle parole della vecchia Tina e mi avviai verso casa, mi sentivo più leggero del solito, libero, non mi ponevo neanche il problema se tornare in pianura da mia madre e mia sorella e riprendere le vecchie abitudini di un tempo che ormai consideravo lontanissimo.
Scesi in corriera a S.Stefano, cercai l’ufficio postale e spedii un telegramma:
“E’ una splendida giornata di sole, tutto è normale, anzi normalissimo e io sto finalmente bene.
Non aspettatemi presto: anzi non aspettatemi più.” Roberto


fine


Copyright Checcuswriter  24 Marzo 2012 Tratto da "Gocce di emozioni 1" racconti di Francesco Danieletto


Era una giornata normalissima quando Roberto scomparve, e il fatto più insolito della sua scomparsa fu che nessuno la notò, nemmeno sua madre. Ma andiamo con ordine.”

“FUGA TRA CONFUSIONE E REALTA”
parte prima

Avevo deciso di andarmene, ci avevo pensato sopra tutta la notte, non ne potevo più di questa situazione; c’erano giorni in cui mi sembrava di scoppiare dalla rabbia per l’incapacità di gestire il solito menù quotidiano, mi sentivo come prigioniero di un guscio; che fossi dentro o fuori casa era lo stesso, l’impotenza di non poter fare niente altro che le solite monotone cose, mi creava  una profonda frustrazione che faticavo a scacciare, tanto che gli amici e i collaboratori di lavoro mi guardavano preoccupati, erano arrivati perfino a contattare mia madre e mia sorella, volevano capire cosa avessi e, se possibile, cercare di aiutarmi. Quale che fosse il mio male sicuramente non era curabile, da nessun dottore, l’unica cosa di cui sentivo il bisogno era di rimanere solo, senza rinchiudermi nella mia stanza naturalmente, dove chiunque poteva entrare a suo piacimento.  
Erano le cinque del mattino e alla chetichella scivolai fuori dalla finestra della mia camera, sicuro che in quel modo nessuno si sarebbe accorto di nulla, nè mia sorella, nè tanto meno mia madre, e, naturalmente, speravo il più tardi possibile.
Camminavo con passo spedito, guardandomi attorno e sperando vivamente di non incontrare qualche conoscente, al quale non avevo certo voglia di dare spiegazioni; avrei potuto prendere l’autobus per Venezia, ma sarebbe stato pieno di lavoratori della zona industriale e io mi sarei ritrovato come una mosca bianca in mezzo a loro. Qualche chilometro a piedi e arrivavo al paese successivo, lì c’era più abbondanza di autobus e avrei deciso cosa fare e che direzione prendere, in lontananza si vedevano il fumo e le fiamme delle ciminiere del petrolchimico di Marghera: l’odiata Marghera, quella che ti fa vomitare ma che ti permette di vivere, quella che sta facendo esplodere le mille contraddizioni di questa società, che ti pone di fronte alla realtà, che ti mette con le spalle al muro: devi scegliere, senza mezzi termini, in maniera assoluta, senza se e senza ma; ci sono momenti nella vita in cui ci facciamo mille domande, mille perché e il castello di finzioni e di bugie dette a noi stessi crolla miseramente: era quello che mi stava succedendo.
Ero quasi arrivato e mi fermai per qualche istante, i miei polmoni erano in deficit di ossigeno, decisamente non ero più abituato a camminate di questo genere, anche se mi aveva fatto bene, a volte la stanchezza aiuta a rilassarti; alle otto ero davanti alla biglietteria della stazione di Mestre, dove acquistai un biglietto di sola andata e salii sul treno diretto a Calalzo, poi da lì in corriera sarei arrivato a S. Stefano di Cadore, anche se la mia meta era ancora più in alto: Costalissoio, piccola frazione di poche anime che dominava la vallata; i posti li conoscevo alla perfezione perché, da piccolo, venivo sempre con mia madre a passare le vacanze estive.
Riflettevo su quanto stavo facendo, pensavo a mia madre e a mia sorella, chissà se si erano accorte della mia scomparsa, o se avevano pensato a una delle mie solite assenze, senza preoccuparsi minimamente, prese com’erano dalle loro pressanti occupazioni quotidiane, sicuramente all’ora di cena si sarebbero rese conto che non c’ero più, ero sparito, mi sarebbe piaciuto vedere le loro facce, chissà che reazione: rabbia, sgomento, delusione per non essere riuscite a capire i motivi del mio gesto, apprensione per un mio eventuale incidente, disgrazia o altro, che avrebbe scosso e interrotto la loro frenetica quotidianità. Tutto  sommato la cosa aveva ben poca importanza, si sarebbero dovute rassegnare, e comunque  non avevo volutamente dato spiegazioni proprio per essere lasciato in pace, non ne volevo sapere di quell’affetto preoccupato e apprensivo, tipico di quei genitori vampiri che, se potessero riuscire a respirare al posto tuo, sicuramente sarebbero all’apice della felicità.
Volevo capire se ero diventato una ruota impazzita, incapace di fermarsi, se un uomo poteva ancora essere tale senza dover accettare situazioni ipocrite, che accontentano tutti con il falso sorriso sulle labbra, con la convinzione di essere nel giusto perchè quella è la regola, perchè  così ti hanno costruito, se vuoi cambiare sei matto.    
Il treno continuava a correre, avevamo già passato la pedemontana, cominciavano le prime gallerie, e, con esse, anche i ricordi che mi evocavano queste cime; pensare a ieri quando, bambino venivo quassù proprio con mia madre e il consueto stuolo di parenti in settembre, il mese più bello per godersi la montagna, le passeggiate, l’andare per funghi nelle malghe, io curioso di tutto, tagliare il fieno con la falce più grande di me, la gerla che trascinavo per terra con fatica ma orgoglioso e provare pure a mungere le mucche e a berne subito il latte ancora  caldo del loro corpo.

Ero arrivato a Calalzo che erano le undici passate e come previsto dovetti aspettare la corriera per S. Stefano che arrivò dopo quasi un ora, nell’attesa avevo mangiato qualcosa di rapido in un bar nel piazzale della stazione, sapevo che ci sarebbero volute ancora alcune ore per arrivare alla destinazione finale che mi ero riproposto.
Raggiunsi Costalissoio che ormai era buio, eravamo alla fine di novembre e le giornate erano  sempre più corte, sapevo che quassù non avrei trovato alberghi, ma ero sicuro, se le cose non erano cambiate, di trovare qualcuno disposto ad affittarmi una camera e a darmi qualcosa da  mangiare un paio di volte al giorno, non ero uno di grandi pretese e mi sapevo accontentare.
Già quel silenzio irreale, interrotto dalle grida acute dei corvi, stava cambiando il mio umore, mi infondeva tranquillità; quella sera andai a letto di buon ora e dormii parecchio, ne avevo bisogno. Mi svegliai presto, non mi ricordavo neanche dov’ero, fu il cellulare che mi riportò alla realtà, era mia sorella ma non le risposi, anzi spensi l’apparecchio, spalancai le imposte e rimasi a bocca aperta ad ammirare lo spettacolo che si presentava davanti ai miei occhi, c’era una leggera foschia che ricopriva la valle e tutto era ricoperto di neve caduta durante la notte.
Mi vestii per bene, faceva un freddo siberiano anche se la “Tina” aveva messo dei piccoli bracieri sparsi intorno al letto, l’avevo sentita quando era entrata silenziosamente nella stanza e io, per non imbarazzarla, avevo fatto finta di dormire. Sceso in cucina trovai del caffé nero bollente con del latte a parte:
“Non sapevo come preferiva la colazione, così ho pensato di fare tutte e due le cose e lasciare che si arrangiasse lei.”
“Grazie ma non si disturbi troppo con me, vedrà che saprò adattarmi alle vostre usanze.”
La stufa a legna diffondeva un rassicurante calore e mentre mangiavo il pane con il caffelatte, la guardavo affascinato impastare con mani abili e sicure i “canederli” che sarebbero stati serviti sicuramente a pranzo.
“Dovrà accontentarsi di mangiarli con il sugo di salsiccia anche perchè non ho fatto in tempo a preparare il brodo -disse un pò contrariata, si vedeva che voleva fare bella figura – e, comunque, mi fa piacere che si fermi qui dà me qualche giorno, così almeno ho la possibilità di fare due chiacchiere con qualcuno, mio nipote è in trasferta per lavoro in Sicilia, ed è l’unico parente che mi è rimasto, poi sono sola.”
Mi faceva sorridere quel suo cadenzare l’italiano come fosse quasi una straniera, ma era tipico di queste valli, se si fosse messa a parlare in ladino, loro lingua ufficiale, sarebbe stato sicuramente peggio.
Uscii e mi incamminai verso la piazza, salutando le persone che incrociavo e mi fermai al bar tanto da prendere un po’ di dimestichezza con la gente del posto, notai la gentile diffidenza da  parte di chi vedeva in me un estraneo venuto a turbare la loro tranquillità, mi informarono che, televisione a parte, quassù giornali non ne arrivavano se non su ordinazione e venivano recapitati dalla corriera al mattino presto; era proprio quello che volevo, d’altronde il paese era rimasto quello di prima: il forno che faceva il pane anche per tutte le case sparse sul dorsale, con incorporato negozio di alimentari, cartoleria, tabacchi, bar.


2°  Continua ---- 17 Marzo 2012   


Tratto da "Gocce di emozioni 1" Racconti di Francesco Danieletto


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