Il
monumento di Jasenovac, chiamato anche "Il fiore di pietra", è composto
da cemento armato precompresso (fotografia di Stefano Fasano, da
"Spomenik, la Jugoslavia che resta")
Prima
delle guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90 e prima
dei nazionalismi che segnano oggi quei Paesi, i Balcani hanno avuto in
eredità un passato scomodo che le nuove generazioni provano a
dimenticare, a cui altri invece guardano con nostalgia e che il resto
del mondo, per la maggior parte, ignora. A distanza di qualche mese
dalla chiusura del Tribunale per i crimini della ex Jugoslavia, avvenuta
nel dicembre 2017, il MoMA di New York ha deciso di dedicare una
retrospettiva su quel mondo perduto e che ora sopravvive attraverso la
sua architettura. Ha inaugurato il 15 luglio e andrà avanti fino al 13
gennaio 2019 la mostra dal titolo Toward a Concrete Utopia – Architecture in Jugoslavia, 1948-1980.
L’intraducibile gioco di parole del titolo (“concrete utopia”, nel
senso di utopia concreta e reale, ma anche costruita in cemento) svela
la ratio dell’esposizione: rappresentare i 45 anni della Jugoslavia di
Josip Broz Tito, attraverso studi, bozzetti, fotografie e materiale
relativi alla produzione architettonica che meglio ha rispecchiato la
sua politica socialista. Toward a Concrete Utopia è la
prima mostra curata da Martino Stierli, curatore di architettura e
design del MoMA, realizzata con il supporto del professor Vladimir
Kulić. L’architettura jugoslava, secondo Stierli, costituisce «un
capitolo importante ma sottostimato della storia nell’assetto mondiale,
diviso in due dalla Guerra Fredda». L’utopia di cui si parla è infatti
quella di una società alla ricerca una terza via alternativa allo
stalinismo del Blocco Sovietico e alle forze liberali statunitensi,
ovvero quella dei Paesi non allineati. L’esposizione, strutturata in 4
parti, esplora i temi dell’urbanizzazione post-bellica, della
sperimentazione tecnologica e la sua applicazione nella vita di tutti i
giorni e infine i monumenti e il processo di costruzione dei memoriali
commemorativi. Nella Jugoslavia di Tito, l’architettura rispondeva a una
spinta centralizzata a produrre uno spazio civico condiviso e una
storia comune in una società altamente diversificata e multietnica, ma
allo stesso tempo era l’espressione spontanea di un desiderio di
modernizzazione che derivava dall’apertura all’estero e dalla facoltà di
viaggiare liberamente, sia a Oriente sia a Occidente. Belgrado, la
capitale della Federazione, costituisce l’esempio più importante in
questi termini: ispirandosi a Brasilia e Chandigarh in India, la Novi
Beograd rappresenta un tipo di periferia costruita su un modello di
pianificazione modernista.
Ma la sezione della mostra che forse è
destinata ad attrarre maggiore curiosità è l’ultima, dal titolo
“Identità”, che riguarda i memoriali e monumenti commemorativi della
Seconda guerra mondiale dedicati ai partigiani e alle battaglie
unificatrici. Si tratta di opere di grande fascino, dallo stile spesso
astratto e surrealista, dislocati lungo le sette ex Repubbliche e che
rievocano il mito fondativo dell’antifascismo, non solo contro le forze
dell’Asse, ma anche contro le singole spinte nazionaliste che
minacciavano la pace e l’unità della nascente Jugoslavia. Tra i più
importanti autori di queste opere, anche note con il nome di spomenik,
spicca il nome di Bodgan Bogdanović, architetto e intellettuale di
spicco (a cui il museo dedica ampio spazio con una pubblicazione
parallela al catalogo): è stato sindaco di Belgrado tra il 1982 e il
1986, e poi oppositore del regime di Milošević, posizione che gli causò
l’allontanamento a Vienna, dove morì nel 2010. Il monumento Kosmaj, vicino a Belgrado.Gli
spomenik vantano ad oggi lo status di attrazioni turistiche per
jugo-nostalgici e semplici curiosi, oltre che fenomeno social, grazie al
contributo di progetti di ricerca e divulgazione come SpomenikDatabase (di cui uscirà un volume fotografico a settembre) e alla crescente attenzione mediatica a livello internazionale, citati tra gli altri da Atlas Obscura e Lonely Planet.
Un culto iniziato nel 2007, quando il fotografo olandese Jan Kempenaers
ha ritratto i monumenti più importanti, realizzando un progetto dal
titolo Spomenik, risultato in alcune mostre e un catalogo diventato presto introvabile. Come molti accademici hanno fatto notare, il termine spomenik
nelle lingue di origine serbo-croata identifica un qualsiasi tipo di
monumento. Kempenaers è stata la prima persona non originaria dell’ex
Jugoslavia ad utilizzarlo per definire quei particolari monumenti,
sdoganandolo in tutto il mondo e creando perciò una risemantizzazione
del termine, con una connotazione politica molto specifica. La
commemorazione della guerra per la Jugoslavia aveva un enorme
significato ideologico, che si fondava sulla necessità di ricordare
circa un milione di vittime. Come risultato, i memoriali furono
costruiti in gran numero (ne sono stati contati oltre cento) in tutto il
paese, in posizioni diverse (dai centri abitati delle città più
importanti, fino a territori disabitati) nonché su iniziative di
differenti gruppi (dalle piccole comunità locali allo stato federale).
Bogdanović in particolare ha ricreato uno stile peculiare per
commemorare il trauma della guerra, attraverso opere come il memoriale
di Jasenovac in Croazia, dove sorgeva un campo di concentramento
nazista-ustascia, e il Cimitero Partigiani di Mostar in Bosnia
Erzegovina.
Dietro l’hype e la jugo-nostalgia che adesso
gli spomenik portano con sé, vi è quindi un retaggio culturale spesso
sconosciuto, all’estero come in patria. Proprio il “Fiore” di Jasenovac è
stato al centro della polemica che a inizio luglio ha investito Valley Eyewear, un marchio australiano, colpevole di aver usato il memoriale del genocidio ebraico come
set per la sua ultima campagna pubblicitaria, generando l’indignazione
del pubblico online e conclusasi con il ritiro della campagna. Non solo,
gli spomenik di Tjentište e Podgarić fanno da teatro anche del recente
video della canzone “Darkside” di Alan Walker, sempre accostati a
un’ambientazione sci-fi e post-apocalittica.
Ciò che in effetti
accade con questi monumenti e che li rende così importanti è una
continua riflessione sulla memoria e sul rapporto con il proprio passato
jugoslavo: fatto che nelle ex Repubbliche non è mai univoco e anzi,
subisce una costante ridefinizione. Se infatti da un lato gli spomenik
sono apprezzati come elemento esotico dagli stranieri, in patria accade
spesso che questi siti vengano lasciati all’incuria, se non al
vandalismo. Lo scorso febbraio il monumento di Tjentište è stato colpito
da una frana che ne mette a rischio la salvaguardia, così come il
Cimitero dei Partigiani di Mostar, vandalizzato e abbandonato per anni e
che solo negli ultimi mesi è stato ristrutturato grazie all’intervento
dell’Unione Europea. C’è da scommettere che la monumentale operazione di
ricerca lanciata dal MoMA riporterà il dovuto lustro a questa
espressione architettonica e soprattutto sarà in grado di fare da
traino, ricordando l’esistenza di queste opere anche nel resto del
mondo. E se gli spomenik ormai sono sempre più diffusi sui giornali,
nelle pubblicità e nei video musicali per la loro estetica, la vera
sfida è restituire la chiave di lettura corretta che si cela dietro a
questi baluardi, testimoni di un’utopia politica tragicamente implosa a
un braccio di mare di distanza da noi.
Politica,IL FATTO QUOTIDIANO
Salvini-Di Maio, governa l’ignoranza. Ma chi scende al livello del cretino perderà sempre

di Andrea Viola
28 agosto 2018
Per chi ha la capacità di capire, ormai è abbastanza chiaro: non esiste
alcuna emergenza migranti. Esiste, invece, una sempre più evidente
emergenza socio-culturale: ad emergere in maniera preoccupante è lo
stato di superficialitàe ignoranza di una buona fetta di opinione
pubblica. E a vagabondare sono sempre di più gli ignoranti. E’ questo il
tessuto sociale, emerso “grazie” alla rete e ai social (Umberto Eco
aveva ragione da vendere), che viene cavalcato dai principini degli
ignoranti: Matteo Salvinie Luigi Di Maio. Oramai da oltre tre mesi
di questo governo brasiliano abbiamo visto, oltre le solite chiacchiere,
l’incompetenza dei vari ministri e la loro preoccupante inconcludenza.
Il premier Conte non esiste: alcuni lo esaltano per il suo stile sobrio
ma ovviamente fanno finta di non sapere il vero motivo. Giuseppe
Conteinterviene poco per una semplice ragione: non può parlare senza il
consenso di Salvini. Quindi, veniamo al punto.
Salvini continua
ad usare le vite umane come giocattoli social. Sequestra persone in una
nave militare italiana senza alcun motivo e senza alcun potere per
farlo. E in tutto questo il vecchio Movimento 5Stelle sta zitto. L’unico
che dissente pubblicamente, il Presidente della Camera, Roberto Fico,
viene sbeffeggiato pubblicamente sempre da Salvini. Di Maio e gli altri?
Non pervenuti. Tutto molto chiaro no? Il Movimento 5Stelle non esiste più. E’ nato un nuovo partito unico Salvini-Di Maio.
Con buona pace della sinistra-sinistra che criticava Renzi e alcuni
ancor oggi provano a proporre alleanze con gli ex grillini. E con buona
pace di Berlusconiche ogni tanto continua a difendere Salvini,
nonostante Di Maio e compagnia sparino tutti i giorni sui precedenti
governi di centrodestra dimenticando, con la solita malafede politica
che li contraddistingue, che quei governi erano sostenuti e formati
anche dalla Lega. Ma che importa, basta fare il lavaggio del cervello
sulla rete e il gioco è fatto! Appena qualcuno osa contraddire,
intervenire, criticare o fare semplicemente la propria libera
professione di giornalista, magistrato, avvocato o esperto che sui
social appaiono pagine, siti fasulli e fotomontaggi per denigrare il
personaggio anti-governo. Ultimo esempio: il magistrato che ha “osato”
iscrivere nel registro degli indagati Salvini.
Contro Luigi
Patronaggio è stato detto di tutto: la rete è stata invasa da
fotomontaggi ridicoli e condivisi da persone che non conoscono neanche
la differenza fra la parola indagato e imputato. Così era accaduto
contro Sergio Mattarella con l’impeachment e così accade contro
giornalisti o semplice politici: un metodo studiato e consolidato,
talmente evidente che lascia veramente sbigottiti. A farne le spese
in questi anni è stato il Pd e i suoi personaggi più in vista. La
calunnia sui social serve solo per alimentare odio, falsità e manipolare
l’opinione pubblica.
Tutto questo arriverà ben presto a farci
vedere i suoi frutti avvelenati: la democrazia può essere esercitata se i
cittadini hanno reale e libera conoscenza dei fatti non diversamente.
Quello che sta accadendo oggi lo leggeranno i nostri nipoti sui libri di
scuola. Una pagina buia della nostra società; un Paese spinto sempre
più in un analfabetismo strutturale, utile a lupi travestiti da
agnellini. Arriverà l’autunno e tutte le promesse svaniranno ma avranno
già un responsabile: l’Europa. E così andrà avanti, fino a portarci
nella braccia di Putin. Se si vuole creare una alternativa a questa
deriva bisogna prepararsi e ricordarsi una cosa molto semplice: se
scendi al livello del cretino vincerà sempre lui. Gli uomini di cultura e
di buona volontà si uniscano e inizino questo cammino prima che sia
troppo tardi. Gli errori sono stati tanti ma è il momento di pensare al
bene comune e rientrare in sintonia con il popolo e con i tempi.
Quante
volte avete visto questa foto? Fu proprio grazie alla diffusione di
immagini come questa, o più cruente, che l'opinione pubblica americana
comprese che in Vietnam il suo governo
stava bombardando la popolazione civile con il napalm. Fu grazie a
immagini come questa che si creò un enorme movimento contro la guerra
che impose il cessate il fuoco. Evidentemente erano altri tempi, quelli
in cui la gente guardava, si indignava e scendeva in piazza. Faceva
concretamente qualcosa per cambiare il mondo. Come oggi purtroppo fanno
troppo poche persone. Agli altri basta la polemica su Facebook con chi
ha diffuso la foto, parlando di un non meglio precisato "rispetto per la
morte". È la vita che va rispettata. È la vita che va protetta. È la vita quella che c'è su quei barconi contro i quali qualcuno scrive "ruspa" come se fosse un gioco. Il problema è la disumanizzazione delle coscienze. Il problema è quello che accade, non le foto che ce lo mostrano.
Le promesse di Lega e M5S alla prova del Def: ecco cosa ci aspetta
L'economia frena, i mercati mandano
segnali preoccupanti e lo Stato deve piazzare quasi 400 miliardi di di
titoli mentre il paracadute Bce si sta per chiudere. I segnali di un
autunno ad alto rischio
di Vittorio Malagutti
C’è un video cliccatissimo in
rete che racconta alla perfezione il distacco tra propaganda e realtà.
Parole e immagini che segnalano il vuoto di senso in cui restano sospese
le promesse irrealizzabili dell’ultima campagna elettorale. «Un impegno
concreto, fattibile», esordisce Matteo Salvini nella clip di Youtube.
Un Salvini dall’aria vagamente professorale, sguardo fisso in camera,
camicia bianca d’ordinanza e giacca scura. È il primo marzo, sprint
finale dell’ultima campagna elettorale. Il leader della Lega, davanti a
un cartellone pieno di numeri, spiega che metà del prezzo della benzina
finisce nelle casse dello Stato sotto forma di tasse. Di accise, per la
precisione. Niente paura. «Se vinco le elezioni faccio giustizia»,
annuncia il futuro vicepremier. «Datemi fiducia e io taglio», promette,
perché «gli italiani non possono pagare la benzina più cara d’Europa».
Facile, no? Zac, gesticola Salvini con due dita che si fanno forbice. E
infatti, una volta vinte le elezioni, arriva la solenne promessa: «Basta
con le accise». Quando? «Alla prima riunione del consiglio dei
ministri», disse il capo leghista.
Ebbene, il governo gialloverde è in carica ormai da tre mesi ma le tasse sulla benzina sono ancora lì
e potrebbero restarci a lungo. «Entro l’anno via le accise», ha
aggiustato il tiro Salvini lo scorso 20 agosto. Intanto però la sua
promessa elettorale è finito nel calderone degli impegni solenni
liquefatti dal sole caldo della realtà. I calcoli sono presto fatti.
Grazie alle accise lo Stato incassa ogni anno circa 25 miliardi. Se si
decide di fare a meno di quei soldi (in tutto o in parte), bisogna
trovare risorse che vadano a coprire il buco in bilancio, oppure ridurre
la spesa in altri settori, oppure ancora le due cose insieme.
L’alternativa è gonfiare il deficit e quindi il già colossale debito
pubblico. Il fatto è che il taglio delle accise è solo uno dei tanti
capitoli del gigantesco libro mastro delle promesse elettorali dei due
partiti di governo. Flat tax e reddito di cittadinanza, innanzitutto. Da
come sono state presentate in campagna elettorale, queste due novità
comporterebbero una spesa complessiva pari al 6-7 per cento del Pil,
poco meno di 100 miliardi. A questa somma andrebbero poi aggiunti una
serie di impegni meno roboanti ma comunque costosi, come per esempio la
revisione della legge Fornero sulla previdenza o la cosiddetta pace
fiscale, eufemismo che serve a nascondere il più classico dei condoni.
I conti non tornano, come era evidente sin da principio, ma il tempo delle chiacchiere adesso sta per finire.
Nell’ultima settimana di settembre l’esecutivo gialloverde è atteso al
primo esame concreto. In vista della legge di bilancio per il 2019, da
chiudere entro il 20 ottobre, va presentata alle Camere la Nota di
aggiornamento al Def, il Documento di economia e finanza che riassume
obiettivi e interventi del governo in tema di conti pubblici.
A metà ottobre quelle carte dovranno essere recapitate anche alla
Commissione europea. L’Italia, che negli anni scorsi ha ottenuto margini
di manovra ben più ampi rispetto agli altri Paesi Ue, corre da tempo
sul filo della bocciatura per deficit eccessivo. I piani di rientro
messi nero su bianco dai precedenti governi, quello di Matteo Renzi e
poi del suo successore Paolo Gentiloni, indicano obiettivi che oggi
sembrano irrealistici alla luce della nuova congiuntura economica, con
il Pil che rallenta rispetto alle previsioni. Come dire che il confronto con Bruxelles si presentava già pieno di insidie ancora prima della svolta sovranista e populista della nuova maggioranza.
In largo anticipo rispetto alla politica, però, potrebbero essere i
mercati a fischiare la fine della ricreazione per il premier Giuseppe
Conte e i suoi ministri. Se gli investitori dovessero convincersi che
Roma non è in grado di tenere sotto controllo la spesa pubblica, le
tensioni sui tassi dei titoli di Stato italiani si moltiplicherebbero.
Dalla metà di maggio, quando ha cominciato a prendere forma il nuovo
governo, la differenza di rendimento tra i Btp decennali e i bund
tedeschi di pari durata, meglio nota come spread, è quasi raddoppiata e
ormai corre intorno ai 260-270 punti. Questo significa che il costo del
nostro debito pubblico è in netto aumento, quando ancora non si
conoscono i dettagli della legge di bilancio. Questi oneri si vanno ad
aggiungere alle somme necessarie per finanziare gli impegni, di certo
rivisti al ribasso, che Cinque Stelle e Lega si sono presi di fronte
agli elettori.
Per dare un’idea delle cifre in gioco basta segnalare che secondo uno
studio dell’Ufficio parlamentare di bilancio, nel 2019 l’Italia dovrà
piazzare sul mercato titoli per 380 miliardi. In caso di spread in
rialzo, la spesa per interessi tornerebbe quindi a crescere dopo anni in
cui, anche per effetto degli acquisti della Bce, il cosiddetto
Quantitative easing (Qe), questa voce si è ridotta dai 64,2 miliardi del
2012 ai 53,2 miliardi del 2017.
Un taglio di 11 miliardi che ha contribuito a migliorare i conti
pubblici. Alla luce dell’impennata dello spread, e di nuovi possibili
futuri aumenti dei tassi, questa spirale virtuosa sembra destinata a
interrompersi. Anche perché ad ottobre la Bce ridurrà i suoi acquisti di
titoli di Stato, per poi fermarli del tutto entro fine anno.
Ricapitoliamo: a bocce ferme, cioè senza calcolare gli oneri per
finanziare le riforme promesse, la legge di bilancio parte già con un
handicap pari a circa a un punto di Pil, una zavorra prodotta dal
rallentamento dell’economia e dalla maggiore spesa per interessi.
Previsto inizialmente (nei piani del governo Gentiloni) intorno allo 0,8
per cento, il rapporto tra deficit e Pil viaggia verso quota 2 per
cento e minaccia di andare a sbattere contro il muro del 3 per cento,
fissato dalle regole europee come limite massimo da non superare.
A questo punto però, la preoccupazione principale non sembra neppure più
il confronto con Bruxelles. A breve termine sono gli investitori
internazionali che vanno rassicurati. Questa sembra essere la missione
principale a cui si sta dedicando il ministro dell’Economia Giovanni
Tria, impegnato a spegnere i focolai di tensione che si accendono sui
mercati attorno ai piani del governo gialloverde. «L’avvio delle misure
principali del contratto di governo è compatibile con i vincoli di
finanza pubblica», ha dichiarato Tria al Sole 24Ore lo scorso 8 agosto.
La frase contiene una parola chiave, “avvio”, che serve a salvare la
faccia ai due azionisti di controllo del governo, Di Maio e Salvini.
Entrambi possono così rinviare a un futuro indefinito l’attuazione delle
riforme annunciate in campagna elettorale, a cominciare da flat tax e
reddito di cittadinanza, prendendosi allo stesso tempo il merito di aver
comunque messo le basi della rivoluzione economica populista.
Niente da fare, quindi, per la tassa piatta. Il nuovo sistema fiscale
propagandato per anni dal leghista Armando Siri, ora sottosegretario
alle Infrastrutture, avrebbe dovuto alleggerire il peso del imposte sui
cittadini e rilanciare l’economia grazie al maggior reddito reso
disponibile per i consumi. La riforma potrebbe alla fine risolversi in
una più modesta revisione delle aliquote Irpef, che passerebbero da
cinque a tre. Anche questo intervento, però, richiede tempo e risorse
finanziarie, almeno 10 miliardi. Se ne riparla nel 2019, o forse più
avanti ancora. Pure il reddito di cittadinanza si fermerà all’antipasto.
Più soldi per i centri per l’impiego e una nuova legge sulla cassa
integrazione, con l’obiettivo di allargare la platea dei lavoratori che
ne avrebbero diritto. Poca cosa davvero, in confronto alla promessa dei
Cinque Stelle, che vagheggiavano un sussidio pubblico per tutti i
cittadini in cerca d’impiego.
Intanto, mentre si avvicina l’appuntamento decisivo con la legge di
bilancio, il dibattito politico segue un canovaccio che ha del surreale.
Ministri, sottosegretari e parlamentari della maggioranza lanciano
proposte che sembrano studiate apposta per tenere alto il morale della
truppa, cioè dei milioni di elettori che hanno votato Cinque Stelle e
Lega. Ecco qualche esempio. Tagli alle pensioni d’oro, che poi sarebbero
quelle sopra i 4 mila euro al mese, per finanziare l’aumento delle
minime. Nuovi sgravi per le partite Iva. Incentivi alle aziende appena
nate. E adesso, dopo il disastro di Genova, è stato sganciato anche il
ballon d’essai di una ipotetica nazionalizzazione di Autostrade. Una
misura estrema che potrebbe costare, solo di indennizzo al venditore,
cioè la holding Atlantia dei Benetton, una somma nell’ordine dei dieci
miliardi, ma forse di più. Per non parlare, restando in tema di
trasporti, del salvataggio di Alitalia, di cui, secondo il governo,
dovrebbe farsi carico almeno in parte lo Stato.
In coda a questo florilegio di promesse mancano del tutto, o sono molto
vaghe, le indicazioni su come reperire il denaro destinato a finanziare
le nuove spese. L’elenco dei possibili interventi è lungo, ma tutti
hanno il medesimo difetto: risulta quantomeno difficile quantificare le
risorse che potrebbero garantire. Si parla di privatizzazioni, di tagli
alla spesa corrente, di lotta all’evasione fiscale, accompagnata dal
riordino delle cosiddette tax expenditures, cioè gli sconti d’imposta
elargiti a svariate categorie di cittadini e imprese. Tutte le misure
citate hanno un gettito incerto, se non aleatorio. Un esempio: quanto
potrà fruttare la pace fiscale predicata da Salvini e affidata, se mai
si farà, ad Antonio Maggiore, il generale della Guardia di Finanza
appena messo a capo dell’Agenzia delle Entrate? La Lega pronosticava
introiti per 50-60 miliardi, ma i dati più attendibili in circolazione
autorizzano a prevedere che il provvedimento non frutterà più di 3-4
miliardi. Un incasso una tantum, comunque. E quindi l’anno successivo,
in mancanza di quei soldi, si dovrà cercare un’altra pezza per il
bilancio dello Stato.
In passato, nel tentativo di arginare il deficit, i governi hanno preso
la scorciatoia dei tagli agli investimenti pubblici. Dai grandi lavori
fino agli interventi per scuole, strade e ospedali. Adesso Roma vuole
invertire la rotta e chiederà all’Unione Europea nuovi margini di
manovra, anche al di fuori delle regole comunitarie di bilancio, per
affrontare l’emergenza infrastrutture.
Già nel 2016, la Commissione aveva autorizzato spese supplementari per
un importo pari allo 0,25 per cento del Pil, circa 5 miliardi di euro.
Il governo però non è riuscito a realizzare tutti gli investimenti
programmati in opere pubbliche e quindi la flessibilità concessa si è
alla fine ridotta allo 0,21 per cento.
Non è un bel precedente per un Paese che reclama risorse per aggiustare
strade, ponti e gallerie. E per un governo che tende a scaricare la
colpa dei suoi problemi di bilancio sui burocrati di Bruxelles.
"L’Albania si è mostrata solidale a questo Paese non a lei Signor
Ministro. L’Albania è un popolo di migranti, è un popolo generoso e ospitale
nonostante ancora povero. E soprattutto l’Albania non dimentica di
essere stata aiutata dai suoi vicini italiani, ma non dimentica anche le
sue dichiarazioni disprezzanti come questa nella foto. O le becere
frasi dei suoi seguaci scritte nei muri della Lombardia come ad esempio:
“Albanesi tutti appesi!” Oh no, noi non dimentichiamo la dichiarazione
della vostra deputata (ai tempi Lega Nord) e allora Presidente della
Camera, Irene Pivetti, che senza il minimo pudore e sensibilità, disse
che gli albanesi ANDAVANO BUTTATI A MARE! E a mare ci finimmo davvero
pochi giorni dopo: si chiamava Katër i Radës quella piccola nave
affondata a Otranto. Ci morirono 81 di noi tra bambini, donne, uomini
giovani e vecchi. Chiamarono quel naufragio “La Tragedia del Venerdì
Santo” (28 Marzo 1997). Piangemmo quei morti da nord a sud e un intero
Paese si vestì di nero. Ma poi i barconi ripartirono, era questione di
sopravvivenza e lei lo sa bene anche se fa finta di non sapere. Lei fa
finta di non capire perché la gente lascia casa e rischia la vita in
mare. Lei fa finta Ministro, fa finta su molte cose, anche sul fatto che
il più grande problema di questo Paese, a sentir lei, sembra siano gli
immigrati. Non abbiamo avuto il tempo di asciugarci le lacrime per i
morti di Genova e Civita, che ecco che arriva lei con le sue crudeli
decisioni per farci piangere e vergognare di altre vittime! Non siamo
riusciti a consumare qualche giorno di lutto per quelle perdite e
capirci qualcosa sulle responsabilità di quel crollo, che ecco che
rispuntano le sue lagne puntando il dito solo verso gli immigrati! Per
non parlare della fuga dei capitali, della disoccupazione, della Mafia,
del degrado sociale, della povertà in crescita, ecc. Tutto in ombra!
Oggi dice nei suoi comizi, quelli dove i suoi fan si divertono con il
suo triste sarcasmo, che l’Albania si è comportata meglio della
Francia!! Suvvia Ministro, sappiamo bene che la Francia non si farà il
minimo problema per questo suo ridicolo paragone. E sappiamo bene anche
come la pensa su di noi: fosse stato per lei e i suoi, noi albanesi non
saremmo stati accolti allora e non saremmo ben accettati nemmeno oggi.
L’Albania, posizionandosi al fianco dell’Italia, si è dimostrata
riconoscente e generosa perché questo Paese se lo merita e questo Paese
non è rappresentato solo da lei. Non usi questo bel gesto a suo favore personale, non ci tratti da stupidi. Grazie!"
Grazie Sonila Alushi!
sabato 25 agosto 2018
Il fenomeno della solitudine tra biologia, creatività e depressione
Uno studio ha scoperto 15 varianti genetiche
associate all'isolamento sociale. Ma "sentirsi in compagnia anche da
soli" aiuta lo sviluppo del senso d’identità. L'analisi di L43 con la psicanalista Giustino.
La solitudine - sono parole dello scrittore e aforista Roberto Gervaso - o ci fa ritrovare o ci fa perdere noi stessi. Ed è proprio nella sua ambivalenza, nel suo essere condanna o stato di grazia,
frustrazione oppure libertà, che la solitudine è stata ed è ancora
oggetto di indagine di scrittori, poeti, e naturalmente ricercatori. E
se con l’estate la solitudine, specie quella degli anziani, torna agli onori della cronaca, stavolta fa discutere anche per una ricerca condotta dall’Università di Cambridgeapparsa sulla rivista Nature Communications.
POTENZIALE FATTORE BIOLOGICO
Secondo lo studio, frutto del lavoro del gruppo di ricercatori guidati da John Perry, esisterebbe un potenziale fattore biologico alla base delle solitudine patologica. E gli studiosi avrebbero individuato 15 varianti genetiche associate all’isolamento sociale. Gabriella Giustino, membro ordinario della Società psicanalitica italiana, commenta a Lettera43.it: «Il lavoro apparso su Nature Communications è molto interessante perché correla una vulnerabilità genetica e biologica di alcuni soggetti alla tendenza all’isolamento e al ritiro dalle interazioni umane».
La tendenza all'isolamento potrebbe essere dovuta a una vulnerabilità genetica.
La psicanalista spiega: «Le aree cosiddette “emotive” del cervello
sembrano in primo piano in questa correlazione tra predisposizione
genetica e tendenza all’isolamento sociale. Ma il lavoro stesso, in
premessa, problematizza il fatto che non è chiaro se è nato prima l’uovo
o la gallina: cioè se è l’isolamento sociale a influire su queste
caratteristiche biologiche o viceversa». Sia come sia, a mettere
d’accordo psicologi e psicanalisti resta il fatto che la solitudine dolorosa e melanconica e la tendenza all’isolarsi e ritirarsi dalle relazioni interpersonali siano fattori che possono favorire l’emergere di una “psicopatologia da isolamento”. E il “tempo di vacanza”, con le città che si svuotano e i negozi che chiudono i battenti, non aiuta chi è più emotivamente vulnerabile.
STARE DA SOLI ABBASSA LE DIFESE IMMUNITARIE?
Ma in che misura la solitudine può predisporre più facilmente il nostro corpo alla malattia, favorendo, per esempio, l’abbassamento delle difese immunitarie? Secondo Giustino «le neuroscienze
e gli studi che correlano il funzionamento cerebrale con altri sistemi
biologici e col sistema immunitario ci aiutano a capire le basi
biologiche di funzionamenti e comportamenti. Ma la psiche umana è complessa e non dobbiamo correre il rischio di semplificare, confondere la mente e l’interiorità della persona con il cervello tout court».
Abbiamo bisogno di interazioni emotive per svilupparci e se qualcosa,
dentro o fuori di noi, ci allontana troppo dalle interazioni umane ci
ammaliamo
L'esperta aggiunge: «Essenzialmente direi che molti studi neuroscientifici vanno nella direzione della psicoanalisi e della psicologia dello sviluppo poiché affermano che noi nasciamo come esseri intrinsecamente relazionali,
abbiamo bisogno di interazioni emotive per svilupparci e se qualcosa,
dentro o fuori di noi, ci allontana troppo dalle interazioni umane
(anche quella con noi stessi) ci ammaliamo».
PSICOANALISI COME CURA DELLE EMOZIONI
La psicoanalisi, in questo senso, si pone come “cura delle emozioni”.
E descrive molto bene il concetto relativo al senso di solitudine:
un’esperienza interiore profonda e fondante per il senso di identità di
ciascun essere umano. Come spiega Melanie Klein, il senso di solitudine ha le sue radici nelle primissime esperienze di interazione con l’oggetto - la madre o altra figura che accudisce - di cui la mente e il corpo del bambino conservano la memoria dentro di sé per tutta la vita. E questa esperienza di un rapporto di intima unione con la madre lascia una profonda nostalgia dentro ogni essere umano.
Con l’estate la solitudine, specie quella degli anziani, torna agli onori della cronaca.
«Una nostalgia», chiarisce la Giustino, «che è come un “dolce dolore” di qualcosa che non c’è più ma che, nel tempo dello sviluppo, crea uno spazio interno
per costruire un rapporto creativo con sé stessi, un dialogo interno
che permette di conoscerci e riflettere sui fatti della vita». E
sottolinea: «L’esperienza di sentirsi bene anche da soli è dovuta al
fatto che si crea un sostituto dentro noi stessi, una sorta di coppia interna che comunica e che permette di “sentirci in compagnia anche da soli”».
RISCHIO DI DISAGIO E VUOTO INCOLMABILE
E quando la dimensione di contatto con sé stessi, cioè la solitudine “creativa”, manca, accade perché «le vicissitudini con l’oggetto primario sono state difficili o traumatiche; allora permane invece dentro di noi un profondo disagio,
un vuoto incolmabile che ci fa vivere l’esperienza del mondo esterno e
interno come persecutoria e tormentosa». Un altro psicoanalista, Donald Winnicott, ha spiegato come la solitudine sia una capacità che ogni persona acquisisce nel suo sviluppo a partire dall’essere “soli insieme” con il primo oggetto che accudisce il bambino.
Quando sentiamo di poter “essere soli anche in presenza di un altro”,
allora abbiamo acquisito la capacità di stare soli, cioè un’identità
separata dall’oggetto primario che prima era tutt’uno con noi
«Noi esseri umani», ricorda la Giustino, «nasciamo con un enorme bisogno di relazioni intime e appaganti che ci permettono poi nella vita di sentire la solitudine come un momento creativo e di armonia
con noi stessi. Quando sentiamo, dice Winnicott, di poter “essere soli
anche in presenza di un altro”, allora abbiamo acquisito la capacità di
stare soli, cioè un’identità separata dall’oggetto primario che prima era tutt’uno con noi».
L'ISOLAMENTO COMPORTA UNA NON COMUNICAZIONE
Dunque la solitudine ha due facce: una indispensabile alla crescita, allo sviluppo del senso d’identità e della creatività; l’altra depressiva e persecutoria,
che si accentua ovviamente durante tutti i momenti difficili della
vita, e comporta un profondo senso d’isolamento. «È importante
distinguere l’isolamento dalla solitudine», avverte la Giustino.
«L’isolamento comporta quasi sempre una non comunicazione con sé stessi e con gli altri, un ritiro dal mondo delle relazioni umane».
INTELLIGENZA EMOTIVA PER COMPRENDERSI
La risposta che dà la psicoanalisi e, in genere, le psicoterapie
psicodinamiche, a molte forme di solitudine depressiva oppure di
isolamento o ritiro dal mondo della relazioni è quella di aiutare a
sviluppare l’intelligenza emotiva che serve per
comprendere sé stessi e gli altri. Naturalmente ci sono anche molti
libri sulla solitudine che affrontano il problema dell’isolamento e
della solitudine dolorosa e persecutoria, spesso connessi col senso
d’identità.
La solitudine può anche aiutare la crescita, lo sviluppo del senso d’identità e della creatività.
Letture che - specie in questo periodo di tempo “vacante” - possono contribuire a far riflettere su un sentimento così complesso. Basti ricordare il successo letterario della Solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano (Mondadori, 2008) dedicato all’adolescenza. Oppure il libro di D.H. LawrenceL’uomo che amava le isole. Una metafora letteraria poetica sul senso doloroso della solitudine.
MONDO CHE NON ACCOGLIE LA SOLITUDINE DELLE DONNE
«Recentemente», suggerisce la Giustino, «un nostro collega psicoanalista, Sarantis Thanophulos, ha affrontato il tema della solitudine della donna in relazione ai femminicidi
in rapido aumento nella società. Una prospettiva interessante sul mondo
che non accoglie la solitudine delle donne a causa della violenza dell’ordinamento sociale che trasforma le relazioni in forme di dominio e potere». (La solitudine della donna, Quodlibet , 2018).
Ho aspettato a scrivere perché, di fronte a tragedie enormi come
quella di Genova, c’è il rischio di essere fraintesi. Però, in questi
giorni, ne ho lette tante, che vorrei provare a svolgere qualche
riflessione.
Se cercate un post di lettura istantanea, non è qui
che lo troverete. Di fronte a questioni complesse, non sono capace di
semplificazioni. È un mio limite, dovete prendermi così. Non sono un
ingegnere. Quindi non sono in grado di fare valutazioni tecniche. Per
questo starei sulla prospettiva che mi appartiene. Quella giuridica,
partendo dalle intenzioni espresse dal Presidente Conte quando si è
insediato. Disse: “io sarò l’avvocato degli italiani”.
Ebbene,
vediamo come dovrebbe comportarsi un bravo avvocato in un frangente come
questo. Anzitutto, un bravo avvocato sa che, nel suo agire, deve avere
due stelle polari: l’interesse dei suoi assistiti e i fatti. È proprio
partendo dai fatti che il bravo avvocato traccia gli obiettivi
raggiungibili, avendo sempre cura di dire la verità ai propri assistiti.
Perché non c’è avvocato peggiore di quello che mente a chi gli ha
affidato il bene più caro, ossia la tutela dei propri diritti.
Gli interessi dei cittadini dunque, ossia i “clienti” che Conte ha
scelto di rappresentare. Mi pare che in questo caso siano tre:
1. ottenere misure urgenti e immediate che preservino il più possibile
la viabilità di Genova e riducano il terribile impatto economico del
crollo sulla città, assicurando il ripristino dell’opera e la
realizzazione di vie d’accesso alternative.
2. ottenere che i
responsabili paghino fino all’ultimo centesimo i danni materiali e non,
tenendo conto del rischio oggettivo che lo Stato possa essere chiamato
in causa in quanto proprietario della rete autostradale.
3.
creare le condizioni, ove ritenuto opportuno, per poter sciogliere i
vincoli contrattuali in essere, mettendosi al riparo dal rischio di
soccombere in eventuali contenziosi.
Quanto ai fatti, proviamo a metterli in fila:
Il crollo del ponte Morandi non è una fatalità. Non c’è stato un
terremoto, una valanga, un evento esterno di portata tale da farà
crollare il ponte.
Ciò detto, nessuno è ancora in grado di affermare con certezza quale sia la causa esatta del crollo del ponte.
La gestione di quel ponte autostradale è in capo ad Autostrade per
l’Italia, società privata quotata in borsa che opera sulla tratta in
forza di una concessione il cui testo (contrariamente a quanto affermato
da alcuni membri del Governo) è pubblico. Non era così fino a poco fa.
Oggi, invece, il documento è consultabile (salvo alcuni allegati tecnici
che sono secretati per ragioni antitrust) grazie a quanto deciso dal
precedente Esecutivo.
La concessione è disciplinato da uno schema
di convenzione sottoscritto da Anas e Autostrade nell’ottobre 2007 ma
divenuto operativo solo nel 2008, con il Decreto Legge 59 del Governo
Berlusconi/Lega. Come ben spiegato da Chiara Braga, tale Decreto
prevedeva, tra l’altro, “l’approvazione per legge di tutte le nuove
convenzioni con i concessionari autostradali già sottoscritte da ANAS ma
che ancora non avevano ricevuto il parere favorevole di NARS, CIPE e
Commissioni Parlamentari”.
In tal modo, la convenzione è stata
adottata senza possibilità per il Parlamento di dire la propria sulle
clausole ivi contenute, compresa quella che riconosceva aumenti
tariffari annuali di almeno il 70% dell’inflazione reale,
indipendentemente dalla valutazione sulla qualità del servizio e la
realizzazione degli investimenti. Tale previsione sarebbe stata
inesigibile in forza di norme approvate dal Governo Prodi nel 2006, che -
sempre come ricorda puntualmente Chiara Braga - legavano la possibilità
di aumenti tariffari a qualità del servizio e investimenti realizzati e
davano titolo ad Anas di revocare la concessione e metterla a gara se
la concessionaria non avesse accettato la richiesta di applicare
migliori condizioni per interesse pubblico. Norme abrogate dal Governo
Berlusconi/Lega. Lo schema di convenzione prevede una durata della concessione fino al dicembre 2038.
Nel 2017, il Governo Gentiloni ha notificato alla Commissione EU (DG
Competition) un piano di investimenti volto a consentire la
realizzazione di una serie di opere di ammodernamento e adeguamento di
alcune delle tratte stradali date in concessione ad Autostrade. In
sostanza, il piano contempla che, a fronte di una proroga della scadenza
della concessione di 48 mesi, dal 2038 al 2042, Autostrade realizzi con
tempistiche stringenti una lista di interventi. La proroga è funzionale
a evitare che l’incremento degli investimenti richiesti ad Autostrade
si trasformi in un eccessivo aumento dei pedaggi stradali pagati dagli
utenti.
Tra gli investimenti previsti dal piano vi è quello
relativo alla realizzazione della così detta Gronda, la tratta
necessaria per consentire di alleggerire il traffico del ponte Morandi e
che, se oggi esistesse, avrebbe evitato di avere Genova tagliata in
due. La Commissione EU ha esaminato approfonditamente il piano
presentato dal Governo e ha autorizzato la proroga (qui si trova il
testo della decisione http://ec.europa.eu/competit…/elojade/isef/case_details.cfm…)
dando atto di come l’approvazione del progetto relativo alla Gronda
abbia richiesto 15 anni (sono note le opposizioni feroci a tale progetto
da parte di comitati appoggiati dal M5S) e di come, in questi 15 anni, e
stanti tutte le modifiche via via richieste o rese necessarie dalle
mutate esigenze, l’opera inizialmente prevista per 34,1 km e per un
costo di 1,8 miliardi di Euro oggi debba essere realizzata per 72 km con
un costo di 4,32 miliardi di Euro. Un costo, grazie alla proroga,
interamente coperto da Autostrade che, pertanto, contrariamente a quanto
affermato dal Ministro Salvini, non è calcolato ai fini dei parametri
europei.
Alla data di notifica alla Commissione del progetto
descritto la norma dello Sblocca Italia (ripetutamente invocata dal
Ministro Di Maio e che contemplava la possibilità di estendere le
concessioni autostradali) non era più in vigore, essendo stata abrogata
dal Codice dei Contratti pubblici del 18 aprile 2016. È, quindi, una
norma che non ha avuto alcuna rilevanza sulla proroga della concessione
con Autostrade. In ogni caso, quella proroga è del tutto ininfluente
rispetto alla circostanza che alla data del crollo fosse in vigore la
concessione disciplinata dalla convenzione del 2008, posto che sin
dall’origine è previsto che tale concessione scadrà nel 2038, ossia tra
20 anni.
Chiariti gli obiettivi ed ricostruiti i fatti, il buon
avvocato deve mettere in campo la propria strategia, evitando
innanzitutto di scoprire le proprie carte con annunci non basati su un
attento studio delle carte. Attento studio da cui emergerebbe come lo
schema di convenzione con Autostrade preveda due fattispecie distinte:
la decadenza, che può essere invocata dal concedente a fronte di gravi
inadempienze e che non contempla indennizzi in favore del
concessionario, ovvero la revoca (quella annunciata dal Presidente
Conte), a fronte della quale Autostrade ha diritto a vedersi
riconosciuto un indennizzo pari ai ricavi previsti fino alla data di
scadenza della concessione. La decadenza può essere attivata solo
seguendo una procedura precisa di contestazioni e contraddittorio con il
concessionario. Quindi, se vuole evitare di far pagare ai propri
assistiti/cittadini italiani un indennizzo miliardario e se vuole
ottenere da Autostrade la messa in sicurezza del sito, il ripristino
dell’opera, la realizzazione degli investimenti, prima di parlare, il
buon avvocato avvia tutte le necessarie verifiche tecniche, legali ed
economiche (anche solo ipotizzare una quantificazione dei danni, in un
caso come questo, richiede un enorme lavoro da parte di espertissimi).
Il buon avvocato procede così non solo per disporre di un quadro
informativo completo ed esaustivo sulla base del quale fondare le
proprie valutazioni sull’opportunità e la convenienza della decadenza,
ma anche e soprattutto per raccogliere tutte le evidenze utili a
costruire un dossier solido da utilizzare nei confronti di Autostrade,
qualora fossero accertate sue responsabilità, ed essere così pronti a
ribattere colpo su colpo in un eventuale contenzioso con la stessa
concessionaria e, particolare di non poco conto, a disporre degli
elementi utili nell’ambito di eventuali cause civili di terzi.
Questo è il modo in cui procederebbe un bravo avvocato, quello che non
si preoccupa di alimentare il proprio ego e di ottenere un facile ed
effimero consenso, ma che persegue con determinazione assoluta un unico
solo obiettivo: portare a casa risultati per i propri assistiti.
Poi c’è quello che in gergo chiamiamo avvocaticchio. Si tratta di una
tipologia di leguleio che spara contestazioni al buio, promettendo la
luna ai propri assistiti, assicurando che, lui sì, menerá le mani, mica
come gli altri. L’avvocaticchio perde puntualmente le cause, con
condanna alle spese per i clienti. Quando questi attoniti chiedono “ma
come, non dovevamo vincere a mani basse?”, risponde, scuotendo la testa,
“guardate, sono imbufalito, questo sistema è marcio, ci sono le lobby,
le pastette, uno schifo, ci vorrebbe una rivoluzione. In appello, però,
li facciamo neri”....
Lisa Noja
venerdì 17 agosto 2018
E' morto Claudio Lolli, cantautore senza compromessi
Il cantautore bolognese si è spento a 68 anni dopo una lunga malattia. E' stato uno dei più significativi artisti degli anni 70
All'inizio della sua carriera
capitava di ascoltarlo nelle leggendaria Osteria della Dame a Bologna,
prima dei concerti di Francesco Guccini. Claudio Lolli è stato uno dei
cantautori simbolo della scena italiana degli anni 70. Si è spento oggi,
a 68 anni, dopo una malattia.
Era nato a Bologna nel 1950 e venne portato alla Emi proprio da Guccini:
il suo stile divenne immediatamente riconoscibile, simbolo
dell'insoddisfazione più profonda e letteraria della canzone politica
post '68.
Il suo primo disco, Aspettando Godot del 1972, era uno dei più
evidenti segnali della volontà della discografia di inestire sui
portavoce della protesta giovanile più radicale e incupita. Lolli si
rivelò subito come un personaggio vero, capace di trasformare in canzoni
la malinconia del vivere quotidiano. Così come il successivo Un uomo in crisi, che conteneva anche un brano dedicato ad Antonio Gramsci, Quello lì, e un deciso inno antimilitarista come Morire di leva.
Le canzoni erano aspre e gli arrangiamenti ridotti ed essenziali, ma il
suo stile e le sue parole erano in sintonia con i tempi: in breve Lolli
divenne uno degli autori più trasmessi dalle celebri "radio libere".
Divenne così uno degli esponenti di maggior talento della seconda
generazione cantautorale, quella degli anni Settanta immersa in
dibattiti ideologici e sociali.
Dopo le aperture strumentali di Canzoni di rabbia del 1975, Lolli si liberò definitivamente dell'etichetta di cantautore triste con un album capolavoro come Ho visto anche degli zingari felici
(1976). Un disco che affrontava senza metafore argomenti di attualità
come il terrorismo e gli attentati, emarginati e femminismo ma con una
ricchezza musicale e lirica difficilmente eguagliabile. Quell'album
resta uno dei lavori più riusciti e significativi dell'intera
discografia italiana anni 70.
"La musica mi ha salvato la vita dalla banalità", raccontò in
un'intervista, "è uno scopo: cercare di guardare la realtà con occhi
diversi e raccontarla". Gli Zingari raccontavano le ansie di
una generazione alle prese con l'utopia della rivoluzione: Lolli impose
anche un prezzo "politico" al disco, che venne messo in vendita 3.500
lire.
Dopo il successo dell'album, Lolli decise di lasciare la Emi per
approdare all'etichetta indipendente Ultima Spiaggia. Il disco
successivo, Disoccupate le strade dai sogni (un libro di testi
da lui pubblicato lo scorso giugno portava lo stesso titolo), fu un atto
di coraggio musicale, pieno com'era di riferimenti jazz e di
arrangiamenti insoliti, ma fu anche un suicidio commerciale. La sua
scarsa disponibilità nei confronti della promozione e una fama
controversa (veniva accostato all'ala più estremista del movimento del
'77) fecero il resto: per tre anni rimase fuori dal circuito
discografico.
Gli anni 80 e 90 furono caratterizzati da una serie di album di buon livello ma non troppo fortunati. Fu nel 2000 con Dalla parte del torto che Lolli ritrovò una dimensione consona al suo talento. Album pubblicati da piccole etichette come La scoperta dell'America del 2009, Lovesongs e il più recente Il grande freddo (uscito
nel 2017 grazie a un crowdfunding) lo avevano fatto riscoprire anche al
pubblico più giovane, oltre che alla critica: con quel disco aveva
conquistato la Targa Tenco per il miglior album dell'anno.
Un riconoscimento forse tardivo per un cantautore "non per tutti", ma
pieno di passione e talento. “Ci siamo conosciuti nel 1976 - ha
raccontato sua moglie Marina - ci siamo messi insieme, non ci siamo più
lasciati”. Il 1976 fu l’anno che rivelò Claudio Lolli con Ho visto anche degli zingari felici.
Quasi un tormentone, per gli anni che seguirono. “Ci siamo sposati –
racconta Marina – abbiamo avuto due figli, Tommaso e Federico. Ma la
vita artistica, ecco, quella era solo sua. Naturalmente lo seguivo,
andavo ai suoi concerti, ma rimaneva la sua vita artistica”. E’
scomparso all’improvviso, “è stato tutto così rapido”. Non era malato,
dice Marina. Certo si muoveva con qualche difficoltà, ma era “tutto
sotto controllo”. Il giorno di Ferragosto, però, non si sentiva bene.
Oggi ha chiesto che fosse chiamata un’ambulanza, il suo cuore si è
fermato nel tragitto verso l’ospedale. “Il suo disco di inediti, Il grande freddo, è di talmente pochi mesi fa – ricorda Marina -. E’ vero, per tanti è rimasto il cantautore degli Zingari felici, ma è assurdo bloccarlo in quella fotografia di così tanti anni fa. E’ stato anche molto altro”.
Il governo M5s è un mostro nel cuore dell'Italia del potere
Non avremmo mai immaginato una patriaconciata così. Non ci siamo mai imbattuti in questi livelli di inciviltà e incompetenza della nuova destra.
Chi ha visto la serie televisiva The Walking Dead,
spaventandosi o entusiasmandosi, può spegnere la tIVù e andare su
Internet per leggere le dichiarazioni dei militanti più accesi dei 5 stelle e di Matteo Salvini.
Lì li ritrovate. C’è di tutto. C’è l’ottantenne regista, l’attore che
ha avuto una bella carriera, l’uomo e la donna comuni, i giornalisti di destra specializzati in «e allora il Pd?», la covata giustizialista. Mostri, sono i nuovi mostri. Con questa gente, molta della quale ha votato a sinistra, la sinistra non può immaginare alcun dialogo. Per la prima volta nella storia repubblicana una parte del Paese non ha nulla da spartire, sul piano dei valori, dell’idea di società e di Stato, con un’altra parte. Nemici nella stessa patria. In verità non è la stessa patria perché uno dei capi degli zombie voleva la secessione e
l’altro è figlio di un personaggio che ha fondato una setta che, come
tutte le sette, definisce e limita l’appartenenza escludendo un territorio comune con altri.
SE IL GOVERNO M5S-LEGA CALPESTA LO STATO DI DIRITTO
La tragedia di Genova (leggete l’Andrea’s Version di oggi di sul Foglio per capire di quale città stiamo parlando) è stata l’occasione per questa «ribellione degli scheletri», come l’avrebbe chiamato Antonio Labriola. Gente violenta che ha calpestato lo stato di diritto, che mentre s’abboffava a sbavo in Sicilia emetteva sentenze contro l’Europa, e infine un uomo indefinibile, come l’ex avvocato di AutostradeGiuseppe Conte, che divenuto premier
a sua insaputa ha annunciato di voler togliere la concessione perché
non ha tempo da perdere con la giustizia. Siamo sicuri che ha la laurea
in Giurisprudenza?
L'ITALIA CADUTA IN MANO AI CAMPIONI DI INCIVILTÀ E INCOMPETENZA
Non avremmo mai immaginato un’Italia conciata così.
Noi di sinistra che siamo stati spesso “tragediatori” ogni volta che ha
vinto la destra, non ci siamo mai imbattuti in questi livelli di inciviltà e incompetenza.
E quelli di destra non hanno mai dovuto confrontarsi con una sinistra
irresponsabile. Siamo caduti in basso e non è ancora finita. Non è
finita perché i voti che questi morti viventi prendono sono frutto di
evidenti e clamorosi errori della destra costituzionale e della sinistra, ma anche di un lavorìo che è stato a lungo sottovalutato. Un decennio di bugie e di infamie, di finta tutela del diritto, di affiancamento ai magistrati più
facinorosi, di promesse palingenetiche hanno creato un’armatura che
oggi protegge dalla pressione esterne, e soprattutto dai fatti, milioni
persone incattivite.
I morti viventi non vogliono vedere niente, inseguono, agguantano,
colpiscono, incuranti del danno che fanno. L’Italia oggi è in mano a
questi. Non credo che un fronte unito dell’opposizione sia una grande idea. Credo però in due cose. Credo che sul piano strategico bisogna imbracciare idee forti e buttarle nella mischia con coraggio anche sfidando l’impopolarità: penso alla democrazia parlamentare, alla giustizia sociale, all’Europa,
alla convivenza fra diversi. Penso alla battaglia quotidiana che
centinaia di migliaia di eroi devono combattere per rintuzzare le bugie
dei “momios” raccontando quello che i capi dei morti viventi fanno, dicono, dicevano.
I SOVRANISTI ODIANO IL NOSTRO PAESE
Salvini e la sua Lega ladrona non possono passarla
liscia. L’offensiva finto-ambientalista per riportare indietro l’Italia
non può più essere accettata. La derisione deve avvolgere la figura di
un premier-bambolina che non sa che cosa dire e quando dirlo. La destra
costituzionale deve fare la sua parte e le varie anime della sinistra la
loro. Eviterei ormai ripiegamenti sugli errori del passato. Se avessimo combattuto il fascismo facendo rivivere le divisioni fra liberali, socialisti, cattolici e comunisti non avremmo liberato, grazie soprattutto agli americani, l’Italia. Penso che chi ha sbagliato deve fare un enorme passo indietro. Che la ribellione degli scheletri pretende leadership giovani o anziane innanzitutto rispettabili. Ma soprattutto abbia bisogno di gente che ama l’Italia. I cosiddetti sovranisti odiano il nostro paese.
A chi spettavano i controlli di Ponte Morandi
Le denunce non ascoltate dal 2013. I carenti
monitoraggi di Autostrade. Il compito di vigilanza dello Stato disatteso
per carenza di risorse. La catena delle responsabilità per la tragedia
di Genova è molto lunga.
Sapere non è agire, ha sottolineato con l'acume da ex pm l'ex ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Antonio Di Pietro suldisastro del ponte Morandi di Genova. E agire, considerato che gli interventi di manutenzione
sul viadotto erano continui, si può ancora dedurre che non sia
matematicamente salvare. I diversi elementi che emergono nella
ricostruzione della storia del ponte e di altri viadotti a rischio, e
sulle responsabilità in materia di viabilità, sono oggetto di esame approfondito delle autorità giudiziarie ma danno già alla tragedia i contorni di una tipica storia italiana. Non a caso è iniziato lo scaricabarile
tra chi porta parti rilevanti di responsabilità. Se forse neanche i più
critici, tra gli addetti ai lavori, potevano immaginare un cedimento così massiccio del controverso ponte, tutti gli addetti ai lavori – politici, funzionari e tecnici statali come del gestore privato, addetti alla sicurezza – sapevano che il Morandi era una struttura gravemente malata, forse la più malata e monitorata d'Italia, e che diecimila ponti sono da anni a rischio di crollo, come sottolineato dal direttore dell'Istituto per le Tecnologie della Costruzione del Cnr, Antonio Occhiuzzi.
Ciononostante raramente vengono chiusi, e men che meno si impongono per
cause di forza maggiore piani di ricostruzione o varianti alternative.
Semplicemente si rimanda fino alla catastrofe annunciata.
I soccorsi dopo il crollo di Ponte Morandi.
L'INTERROGAZIONE IN SENATO DEL 2016 SUL CEDIMENTO DEL MORANDI
È del 28 aprile 2016 (e non è l'unica denuncia) l'interrogazione del senatore genovese Maurizio Rossi in quota Scelta civica all'allora ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Del Rio
sull'eventualità che «il ponte Morandi, viste le attuali condizioni di
criticità, potrebbe venir chiuso almeno al traffico pesante, entro pochi
anni, gettando la città nel caos». Rossi, che dopo il disastro racconta
di «parlare conpreoccupazione di quel ponte dal 2013»
e di «non essere mai stato degnato di una risposta dai ministri
competenti», nell'intervento a Palazzo Madama affermava anche che
«recentemente» il Morandi era «stato oggetto di un preoccupante cedimento dei giunti».
Senza un'opera straordinaria di manutenzione era «concreto il rischio di
una sua chiusura» e il senatore voleva delucidazioni anche
sull'«attuale blocco dell'iter dei lavori per la costruzione della Gronda di Genova»,
cioè della variante al ponte. Considerato che, nelle prime fasi delle
procedure, la «necessità finanziaria dei lavori» risultava «già nella
disponibilità della società Autostrade, grazie ad aumenti tariffari
concordati e subito applicati su tutto il territorio nazionale», queste
disponibilità finalizzate alla costruzione della Gronda e incassate in anticipo, si chiedeva Rossi, venivano «utilizzate per altre finalità» o erano state «accantonate»?
AUTOSTRADE PER L'ITALIA SI TRINCERA NELL'IMPREVEDIBILITÀ
Quasi due anni e mezzo dopo la bretella della Gronda era diventata lettera morta, come tante incompiute italiane, e la parte finanziaria degli atti delle concessioni tra il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e le società che gestiscono le autostrade è risultata coperta da segreto. Si è scoperto nel frattempo che Autostrade per l'Italia, concessionaria anche del tratto di Genova, aveva accelerato – ma non abbastanza – la preselezioni di un grosso bando di oltre 20 milioni di euro. Una gara da far partire a settembre, per rinforzare i tiranti del pilastro sbriciolatosi il 14 agosto 2018, che da tempo destavamo molte perplessità tra gli ingegneri sulla loro resistenza.
Nulla era presagibile dai controlli più approfonditi svolti sul ponte Morandi
Per il fragile ponte Morandi si sarebbe trattato dell'intervento più
grosso dal rinforzo dei tiranti di un altro pilastro, indispensabile già
negli Anni 90. Il direttore del tronco genovese di Autostrade per
l'Italia Stefano Marigliani lo ha giustificato come un
lavoro che puntava ad «allungare la vita» del viadotto, l'usura nei
tiranti crollati si sarebbe rivelata ancora più lenta rispetto ai
precedenti casi di tiranti difettati. «I controlli approfonditi» svolti
anche il 20 giugno scorso non avevano però individuato un pericolo così
allarmante da rendere immediata la chiusura del ponte. Per la società
concessionaria è la vecchia tesi dell'imprevedibilità e dell'imponderabile che libera da responsabilità penali dolose.
L'OBBLIGO DI VIGILANZA DEL MINISTERO DISATTESO
Autostrade per l'Italia ha ammesso che «qualcosa nel sistema dei controlli non ha funzionato», ma che «nulla era presagibile». E se i i controlli della società che incassa miliardidi eurodai pedaggi e reinveste in media poco più di 500 milioni in l'annomanutenzione sono stati fallaci, anche la vigilanza dello Stato è venuta meno: come ha ricordato Di Pietro, che da ministro inaugurò il contratto di concessione, l'articolo 28 del medesimo assegna un ruolo cruciale di controllo del pubblico
sul concessionario privato: «Il concedente vigila», è scritto,
«affinché i lavori di adeguamento sulle autostrade siano eseguiti a
perfetta regola d'arte».
Se sul ponte di Genova Autostrade per l'Italia ha svolto i controlli
in totale autonomia, senza rendere conto a nessuno, è perché nessuno
dalla Struttura di vigilanza ministeriale si è mosso
Attraverso l'Anas e, dal 2013, anche attraverso una specifica Struttura di vigilanza istituita per legge dallo stesso ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, sulle autostrade lo Stato deve vigilare «anche sui lavori di manutenzione
ordinaria, straordinaria e sui ripristini. Visita e assiste ai lavori
e», continua il testo, «può eseguire prove, esperimenti, misurazioni,
saggi e quant'altro necessario per l'accertamento del buon andamento dei
lavori stessi». È falso quindi dire che ad Autostrade per l'Italia sia stata concessa mano libera:
se sul ponte di Genova ha svolto i controlli in totale autonomia, senza
rendere conto a nessuno, è perché nessuno dalla Struttura di vigilanza
ministeriale si è mosso.
LE DENUNCE DI EX FUNZIONARI SULLA POCA MANUTENZIONE
Anche in Germania, dove il 13% dei ponti è logoro,
è un'agenzia specializzata del ministero tedesco delle Infrastrutture e
dei Trasporti a redigere controlli e report su scala nazionale. Due
occhi, specie in caso di errore umano nei controlli e specie in
controlli di privati, sono meglio di uno. Ma esiste concretamente questa
struttura? Le verifiche del personale del Ministero sulla rete
autostradale sarebbero poche e superficiali per la scarisità di
mezzi e risorse a disposizione, da un punto legale è necessario capire
su Genova anche quali e quanti controlli siano stati effettuati dagli
uffici preposti. Costituirsi parte civile come ha annunciato il neo
ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Danilo Toninelli può, con il corso delle indagini, ritorcersi in un boomerang.
PIÙ DIPARTIMENTI DEL MINISTERO RESPONSABILI PER LE AUTOSTRADE
Il giovane capo pentastellato del dicastero è in carica da pochi mesi
e può anche non aver saputo del dovere di vigilanza dello Stato. Ma
qualcuno al ministero deve saperlo bene e tace. Tanto più che, al
ministero, oltre alla Direzione per la Vigilanza sulle concessionarie autostradali esiste la Direzione per le Strade e le Autostrade e per la Vigilanza sulle Infrastrutture stradali che dovrebbe applicare la legge 35/2011 di recezione della direttiva europea sulla sicurezza delle infrastrutture stradali. Direttiva che addetti al lavori dicono a L43
praticamente inapplicata in Italia. Anche al verificarsi di incidenti,
raramente si eseguono ispezioni per esaminarne le concause, basandosi
solo sui rapporti di polizia e scaricando l'intera responsabilità sui
conducenti.
I soccorsi dei Vigili del fuoco.
È noto da anni poi, tra i tecnici del ministero e gli ispettori di tutti i livelli di controllo (Stato, Regioni, Province, Comuni e Prefetture), anche lo stato critico di migliaia tra ponti e cavalcavia: in una relazione del 2014,
l'ex direttore generale della Vigilanza e della Sicurezza del ministero
delle Infrastrutture Pasquale Cialdini ricordava la necessità di una
«vigilanza permanente», visto e considerato lo sviluppo di «tecniche di
manutenzione molto evolute», per «scongiurare eventi drammatici e vere e
proprie catastrofi». Ne discende, aggiungeva, «che i funzionari e i
dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, di società private sono
direttamente responsabili».
AD AGRIGENTO IL PONTE CHIUSO DAI GIUDICI E NON DALL'ANAS
I protocolli esistono e sono chiarissimi: un controllo annuale generale e completo, nel mezzo ispezioni trimestrali e anche un'ispezione quotidiana degli addetti alla manutenzione, che nei ponti ad alto rischio come il Morandi non dovrebbemai
mancare. Quello che manca agli enti pubblici – ma non ad Autostrade per
l'Italia – è il denaro per svolgere correttamente la propria funzione.
Negli anni dell'incarico tra il 2009 e il 2011 Cialdini individuò oltre 5
mila ponti malmessi e constatò «l'assoluta scarsezza di risorse
necessarie». Quasi 10 anni dopo, in occasione della tragedia a Genova, l'ispettore di una società incaricata dei sopralluoghi ha rivelato che circa60 mila ponti sarebbero sotto monitoraggio.
L'Anas ha aumentato i fondi per la manutenzione ma, come in Germania,
il deterioramento procede a passo più veloce delle riparazioni. Gran
parte delle infrastrutture italiane è degli Anni 50 e 60 e la gran parte
degli ingegneri concorda che, con il cemento armato arrivato a fine vita,
sia a rischio: nel nostro Paese, infatti, cedono una ventina di ponti
l'anno. Comuni e Province sono paralizzati dalla penuria di soldi e
rimandano i lavori, non di rado senza chiudere i viadotti, come è
successo ad Agrigento. Nel 2017 fu la procura locale e non l'Anas a chiudere sulla statale 115
un altro ponte Morandi, dopo aver aperto un'inchiesta su segnalazione
di un'associazione di cittadini. La struttura era infatti in evidente
degrado. Ecco perché, con altri 10 mila ponti a rischio, l'Italia non
può ancora dirsi sicura.