Eric Clapton ieri e oggi "Niente più tour, mi ritiro l'era della chitarra è finita"
TORONTO
«MI RITIRO». Esordisce così Eric Clapton, 72 anni, quando lo
incontriamo tra Chinatown e il Fashion District per presentare il suo
documentario, Life in 12 bars.
«Sì, smetto di suonare. Mi restano
altri quattro concerti, poi chiudo bottega». Il chitarrista inglese
nasconde le mani nel taschino di una giacca nera, due anelli al dito.
Gli occhiali come oblò. Poi sorride: «Quante volte avrò detto addio alle
scene?». Ci pensa su. «La prima, se ricordo bene, a 17 anni».
Ma
fa sul serio stavolta? «Andare in tour è diventato insopportabile.
Forse non sono io, è la chitarra ad aver dato tutto. Fine dell'epoca a
sei corde». In un film che copre vita e carriera di Eric "mano lenta"
Clapton, l'uomo del Blues sembra farsi in mille pezzi, consegnando
personalmente fuori scena, fotografie, pagine di diario, lettere scritte
a mano, clip e memorie a Lili Fini Zanuck, regista e produttrice (un
Oscar per A spasso con Daisy). E parla a ruota libera dello stato di
salute dell'industria: «Non sono rassegnato né mi dà fastidio l'idea che
questa sia la fine del rock» dice. «Se mi chiedete cosa pensi del
mercato digitale, cascate male. Sono fuori dal giro, non so che succede.
Ma ho fatto un lavaggio del cervello preventivo alle figlie. Per
questo, loro, amano ancora il suono della chitarra elettrica».
Stando a un articolo del Washington Post, le vendite di chitarre
sarebbero scese da un milione e mezzo l'anno a un milione, mentre i
grandi produttori, Gibson e Fender, stanno attraversando una brutta
crisi finanziaria. Clapton usa spesso la parola "odissea" per parlare di
Life in 12 bars (lo distribuirà Lucky Red a dicembre). Il documentario
lo ritrae nei momenti energici e in quelli più cupi, senza censure o
manomissioni; dalla morte di Conor, 4 anni, figlio di Clapton e Lory Del
Santo, volato giù dal cinquantatreesimo piano di un grattacielo nel
'91, ai ricoveri per alcol e droga, a un lungo braccio di ferro con la
depressione.
È stato Clapton a dare il via al progetto,
accompagnato da interviste e materiale d'archivio di chi l'ha conosciuto
meglio: B.B. King, Jimi Hendrix e George Harrison, tra gli altri. «Il
blues per me è una questione personale » spiega. «È sempre stata la mia
chitarra contro il mondo». Cinquant'anni di dischi e band, tra The
Yardbirds, Cream, John Mayall & the Bluesbreakers, Blind Faith,
Derek and the Dominos, e i suoi anni da solista, fino alla genesi di For
your love, Layla e Tears in heaven.
Nel film si raccontano
episodi curiosi, soprattutto nella prima parte: come quando Clapton
entrò a far parte degli Yardbirds come rimpiazzo alla chitarra, poi li
mollò proprio mentre usciva l'album For your love (1965), convinto che
si stessero svendendo. John Mayall, il guru del blues inglese, gli diede
la caccia per tutta l'Inghilterra e lo reclutò nei Bluesbreakers;
finirono per provare e suonare insieme così spesso che Clapton si
trasferì a casa dello stesso Mayall.
«Quando ho visto e
riascoltato le mie interviste, mi sono reso conto di quanto fossi
pomposo da giovane» dice imbarazzato. «Tutto quello che usciva dalla mia
bocca era chiacchiera. Per me è difficile riguardarmi. Forse vale per
tutti noi: quando si è giovani domina un certo livello di arroganza, un
generico "So tutto io". Non appena invecchiamo, ci rendiamo conto di non
sapere nulla». Al concetto di verità, Clapton è attentissimo: «Volevo
un film sulla mia vita mentre ero ancora tra voi. E non da morto. Ci ho
messo tutta la mia integrità ». Clapton definisce Life in 12 bars un
testamento biografico e musicale: «Non ho toccato alcol per tanto tempo
e, per i primi dieci anni di quel periodo, gran parte del mio modo di
pensare e vedere le cose è stato alterato, è cambiato». Prosegue: «Dopo
essere diventato padre (il musicista ha quattro figlie: Julie Rose,
Ruth, Sophie Belle e Ella May, ndr), una forma di disperazione mi ha
sopraffatto. Ho preso atto delle responsabilità nei riguardi della mia
famiglia. Ecco, il mio vero lascito sono loro, le persone che amo. Mi
sta ancora stretto il fatto che il mio comportamento pubblico abbia un
impatto sulle vite degli altri. Ci sto lavorando. Il mio impegno e la
devozione verso la musica sono indiscutibili. Mi sono sempre considerato
un portavoce».
Da autentico messaggero, la rock legend si augura
che il suo film faccia il giro del mondo: «Voglio mostrare a tutti che,
sotto tutto quel casino, sono, ragionevolmente, un bravo essere umano».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
"
IL BLUES
Per me è una questione personale: la sei corde contro il mondo