È ora di cominciare davvero la battaglia contro gli appestatori del web
La libertà non può essere libertà di insulto. La libertà non può essere impunità. La licenza di offendere via web non si può ammantare del diritto all'anonimato, del passamontagna di un nick. Siamo in un paese libero, non sotto una dittatura in cui chi esprime un pensiero o un'opinione non ortodossa rischia qualcosa. Colpire dall'ombra è il metodo dei sicari e dei codardi, e sui social è l'arma dei burattinai di troll, delle mosche lanciate a sciame per ferire e fare massa critica. Non si capisce perché quel che è vietato nella realtà fisica della nostra società dovrebbe essere invece concesso nella realtà "virtuale" di Internet.
Da tre anni metto in fila questi concetti, perché osservo una tendenza all'impunità sempre più estesa, e a un uso sempre più ribaldo del vuoto legislativo, lamentato anche dai dirigenti della Polizia Postale, sceriffi senza pistola del Far Web. Ogni tentativo di dibattito sull'argomento viene deriso da autoproclamati esperti (uno è finito a fare il segretario di un deputato M5s, chissà se sulla sua targa a Montecitorio c'è il nome vero o un nick).
Ma i tempi sono maturi per affermare per legge due concetti di fondo: la diffamazione via web vale quella a mezzo stampa, e nessuno può nascondersi dietro finte identità, sfruttando l'asimmetria territoriale tra forze dell'ordine italiane e proprietario extraeuropeo del social network. La legge sul cyberbullismo è solo un primo tassello del mosaico legislativo necessario per combattere lo strapotere degli avvelenatori dei pozzi, dei prepotenti incappucciati e dei loro zelanti teorici.
Enrico Mentana
Lezione di bullismo di Salvini
A teatro si chiama “abbattimento della quarta parete”. È il momento in cui l’attore entra in contatto diretto col pubblico per meglio captarne il consenso. Un tempo i puristi lo consideravano un arbitrio sgradevole, greve. Poi è diventato un’abitudine. Tipo i regolamenti di conti nel Pd.
Matteo Salvini lo ha sublimato in politica, per simulare, l’affabilità che gronda da tutti i canini. Un selfie, un altro, un tweet, un altro, finché qualche nativo digitale non ha capito come trasformare la narrazione farlocca in attentato social: avvicinarsi al Capitone, mettersi in posa, far partire la registrazione. E attaccarlo a favore di camera. Chiedendo più accoglienza e più 49 milioni, come un ragazzo di Ozieri. O addirittura – il che è oggettivamente più spiacevole, da evitare – equiparandolo ai rifiuti prodotti dal corpo dopo la digestione. Come ha fatto un’altra teenager che, pure lei, ha subito condiviso l’esito della bravata su Internet.
Come tutti i mattatori, il leader leghista non ha gradito lo scippo dello scettro, il passaggio da soggetto del tasto “invio” a oggetto del medesimo. Forse perché da teppista social a vittima di bullismo virtuale il passo è doloroso. Così, ieri, quando un gruppo di ragazzi sardi l’ha accolto intonando canti partigiani, il (vice)premier non ha esitato a riprenderne i connotati e irriderli su Facebook: «La solita foltissima protesta incontrata stamattina in Sardegna, con pugno chiuso e “Bella Ciao”, perfetto duetto per il prossimo Sanremo».
A seguire, le emoticon del saluto comunista e quella della bandiera arcobaleno. Perché una delle contestatrici, allegra, composta, bellissima, la sventolava: una bottarella omofoba per la claque non si nega a nessuno.
Il Ministro della Paura aveva già additato alla gogna dei suoi tre «poverette» – parole sue – che lo avevano blandamente contestato nel novembre scorso. Ma allora nessuno aveva studiato le contromisure che oggi paiono funzionare benone. Ché insieme alla quarta parete, stavolta, è andata giù la maschera del capocomico. Uno che i nemici, specie quelli non violenti, li fa identificare o li consegna ai propri kapò virtuali. Giustamente preoccupato. Perché sa che per qualunque mattatore saranno proprio i giovani a decidere quando cala il sipario
Luca Bottura
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