C'è una contraddizione fra le opinioni che Matteo Renzi esprime su Banca d'Italia e l'azione del governo da lui diretto. Il governo Renzi ha realizzato interventi sul sistema bancario attesi da molto tempo e da sempre perorati e sostenuti da via Nazionale, come la riforma delle banche popolari e quella del credito cooperativo.
Torniamo alle due domande. Nei lunghi anni precedenti la stagione di "radicalismo riformista" incarnata da Matteo Renzi la politica aveva difeso lo status quo del sistema bancario e negato a Bankitalia il potere di rimozione degli amministratori. Perché? La mia risposta deriva da un'esperienza sul campo. Sono stato relatore alla Camera della riforma delle banche popolari (marzo 2015) e ho sperimentato in via diretta la forza di pressione e di condizionamento che quel segmento di settore bancario esercitava (credo più o meno da sempre) sulla politica, soprattutto negli ambiti locali di principale insediamento storico (Lombardia, Veneto).
Renzi ha rotto quella consuetudine e ha fatto la riforma come Banca d'Italia l'aveva proposta, obbligando le grandi banche popolari a diventare Spa e a confrontarsi con il moderno mercato dei capitali, che può fornire abbondanti risorse da trasferire alle economie locali sotto forma di credito ma chiede in cambio trasparenza, accountability e una governance dedicata all'efficienza. Ciò che è emerso negli anni successivi su alcune banche popolari grandi e medie dà ragione a Renzi e a Banca d'Italia.
Sia detto per inciso, non dà ragione al M5S, che si è opposto a tutte le riforme, delle popolari e delle Bcc oltre che a ogni altra innovazione normativa finalizzata al contrasto della crisi bancaria, schierandosi in modo ideologico in difesa del modello "banca locale" senza capire che le distorsioni derivavano proprio da quel modello. E che oggi, comodamente e senza pensare di rendere conto di questi clamorosi errori di valutazione, se la prende con Banca d'Italia.
Alla fine del 2015 sono arrivate le crisi di alcuni istituti bancari di dimensione piccola e media, proseguite nel 2016 con ulteriori episodi. Basta guardare la carta geografica per capire che tutte queste crisi hanno origine dal bancocentrismo del sistema produttivo dei distretti italiani, e cioè dal fatto che il canale principale e spesso esclusivo di finanziamento delle imprese, in particolare piccole e medie, è costituito dal credito bancario ordinario.
La crisi dell'economia reale in alcuni tradizionali distretti industriali che hanno sofferto più di altri la Grande Recessione si è trasmessa alle banche locali, poco diversificate sul lato sia degli impieghi che della raccolta. Una crisi che nasce quindi dall'economia reale e che in alcuni casi è stata amplificata da decisioni societarie e manageriali che, pur di evitare l'approdo al mercato dei capitali, che avrebbe potuto fornire risorse ma in cambio avrebbe chiesto trasparenza e modifiche di governance, hanno preferito piazzare obbligazioni subordinate ai piccoli depositanti oppure chiedere alla clientela privilegiata di comprare azioni su linee di credito fornite dalla stessa banca.
È chiaro insomma che i comportamenti di alcuni istituti bancari (soprattutto di quelli locali e non capitalistici, tanto enfatizzati dalle ideologie anti-mercato) possono essere stati poco prudenti o addirittura distorti: su questo valuterà la magistratura nei tanti procedimenti in corso, sperando che non vengano intralciati dalla Commissione parlamentare d'inchiesta appena istituita (io avrei preferito una Commissione parlamentare d'indagine, perché nella storia italiana purtroppo le Commissioni parlamentari di inchiesta sono note per avere ostacolato piuttosto che facilitato il lavoro della magistratura). In nessun caso, però, è emersa finora una responsabilità della vigilanza. Al contrario le inchieste giudiziarie sono state attivate dai rapporti di vigilanza, ovvero si fondano su di essi.
Nessun errore, allora? No, di errori ne abbiamo fatti. Banca d'Italia riteneva che queste crisi avrebbero trovato soluzione – come le tante di piccole banche nei passati decenni – ricorrendo alle risorse del Fondo interbancario di tutela dei depositi. È intervenuta nei primi mesi del 2015 una novità, una cattiva notizia. La Commissione europea si è messa di traverso, per motivi (speciosi e discutibili) in materia di concorrenza: non si possono concedere sostegni pubblici a imprese in crisi e il Fondo interbancario, poiché regolato da norme legislative, anche se interamente finanziato dal settore bancario privato, equivale ad aiuto di Stato.
La Commissione, si badi, non la Banca centrale europea. Le piccole banche italiane in crisi sono state al centro di un conflitto fra Commissione (a tutela di concorrenza e bail in) e Bce (a tutela della stabilità finanziaria). Il circuito di comunicazione fra via Nazionale, via XX Settembre e Palazzo Chigi, nei mesi che vanno da marzo a ottobre del 2015, non ha percepito l'impatto che le nuove posizioni della Commissione avrebbero esercitato sulle crisi bancarie in fieri.
A due anni di distanza l'Italia ha ottenuto risultati importanti: le prescrizioni della Commissione sulle crisi bancarie sono state modificate. Il bail in, come applicato nel 2015, è stato superato da modelli di intervento più soffici (ricapitalizzazioni temporanee, conversioni fra vecchi e nuovi titoli, eccetera). Per le banche sottoposte a bail in sono state effettuate, e oggi accettate in sede europea in via generale, ampie azioni di risarcimento a beneficio dei piccoli obbligazionisti.
A livello macro le sofferenze delle banche italiane, derivanti dalla crisi dell'economia reale in un paese bancocentrico, si stanno considerevolmente riducendo (meno 25 per cento in base agli ultimi dati) grazie agli interventi normativi degli ultimi tre anni sul diritto fallimentare e sulle modalità di composizione delle crisi fra creditori e debitori, e grazie ai meccanismi di garanzia pubblica che stanno aiutando a creare un vero mercato dei crediti deteriorati.
Se nel 2015 c'è stata una sottovalutazione, con onestà va riconosciuto che il governo ne sarebbe responsabile almeno quanto Banca d'Italia, visto che il problema nasceva dalla Commissione europea ed è il governo che interloquisce con quella istituzione, non via Nazionale. Se è da lì, come io credo, che nasce la diffidenza renziana, questo mi sembra un buon motivo per scioglierla e superarla. Ma ce ne sono almeno altri tre.
Il primo è che – come sistema paese – siamo in fase ascendente, di recupero e di ripresa, non solo nell'economia nel suo complesso ma anche rispetto alle crisi bancarie. Il secondo è che questa fase di ripresa si fonda su riforme strutturali che Pd e centrosinistra, soprattutto durante il governo guidato da Renzi, hanno portato a conclusione anche collocandosi, per quanto riguarda il sistema bancario, sulle strade da tempo indicate da Banca d'Italia. Il terzo è che non sono comprensibili comportamenti del Pd di strappo istituzionale all'inseguimento del populismo.
Ieri il Pd a Montecitorio ha commesso un errore. Un errore, spero, veniale, che non cancella le riforme fatte negli ultimi anni. Che segnala però la necessità di riesaminare e valutare con lucidità e onestà intellettuale la vicenda della crisi bancaria e il giudizio sui diversi attori in campo, superando la contraddizione fra un Pd (renziano) che raggiunge molti degli obiettivi di riforma storicamente indicati da Banca d'Italia e un Pd (sempre renziano) che inopinatamente manifesta sfiducia nei confronti di questa istituzione.
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