domenica 4 dicembre 2016

Una "nuova Yalta" è all'orizzonte.



Una "nuova Yalta" è all'orizzonte. E noi mandiamo Dibba?

Gli equilibri tra Usa e Russia andranno ridisegnati. E l'Europa, al tavolo, è chiamata a essere protagonista. Impensabile con una delegazione infarcita di nazionalisti. Grillo, Di Maio e Di Battista compresi.

            

           







             Mario Margiocco















Tra non molto gli europei potranno forse capire che cosa significa la fine del mondo di ieri. Le novità investiranno l’Europa nel suo complesso, rendendo poco praticabile la logica delle fughe nazionaliste, chacun pour soi, di cui noi in Italia siamo testimoni, fino all’esasperazione, proprio in questi giorni. Beppe Grillo, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e altri esponenti del "No" – non tutti – sono fautori di un ritorno alla via nazionale e hanno nel nazionalismo il minimo comun denominatore. È una ricetta semplice che sembra facile nei momenti difficili, ma dura da applicare in un’Europa stretta tra le nuove richieste russe e un’America che deve pensare di più a se stessa, e alla Cina.

VERSO UN NUOVO ORDINE. Si parla, a sproposito ma non del tutto, di una nuova Yalta, di un nuovo accordo sugli equilibri europei, o euroasiatici come preferiscono dire a Mosca. Già nel settembre 2015, all’Onu, il presidente Vladimir Putin ricordava che l’intesa di Yalta aveva offerto «un fondamento solido per l’ordine postbellico». Cioè la Guerra Fredda, esecrabile ma ordinata. Yalta è nella Crimea meridionale e una lettura storica frettolosa, un mito quasi, vuole che lì i tre grandi del fronte anti-Hitler - Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill e Josip Stalin - abbiano deciso nel febbraio 1945 il destino dell’Europa







contemporanea. Questo a te e questo a me. In realtà, il processo fu ben più lungo.

TUTTO INIZIÒ A TEHERAN. Cominciò alla Conferenza di Teheran a fine 1943, dove si parlò in particolare del futuro di Lituania, Lettonia ed Estonia oggi di nuovo al centro della “nuova Yalta”. Passò da quella che i britannici chiamano la Seconda conferenza di Mosca dell’ottobre 44, Churchill e Stalin i protagonisti, americani solo di rango inferiore (Roosevelt era convinto che l’isolazionismo Usa lo avrebbe escluso dalla partita europea, a guerra finita). I due leader stilarono il famoso papiro sulle “percentuali” di influenza in ciascuno dei Paesi dell’Est, presto stravolto da Stalin convinto, come ebbe a dire allo jugoslavo Milovan Gilas, che «ciascuno impone il suo sistema fin dove arriva il suo esercito», rammaricandosi di non averne uno per arrivare sino a Parigi. Dove nel 1814 era arrivato, ricordò in altra occasione, lo zar Alessandro I.


Il tutto si concluse nell’estate 1945 alla lunga Conferenza di Potsdam, con già nell’aria i prodromi della Guerra Fredda. Quindi Yalta è simbolo di qualcosa di assai più lungo e complesso. Quella spartizione con Churchill nel 44 andava incontro alle aspirazioni russe che, dopo le grosse mutilazioni subite nel 1918 (Trattato di Brest-Litovsk) e dopo avere invano cercato con Lenin di riprendersi la loro tradizionale parte di Polonia (1919-1921), riuscivano con Stalin a tornare alla massima espansione e oltre, fino a Berlino.

UN IMPERO MUTILATO. Tutto crollava tra il 1989 e il 1991 e da allora la Russia, non più Urss, doveva subire nuove forti mutilazioni rispetto al suo “impero” del secondo dopoguerra, vedere i suoi ex satelliti entrare nella Ue e nella Nato, e le frontiere “atlanticiste”, come dicono al Cremlino, prima con i loro blindati a oltre 1.000 chilometri da Mosca, avanzare a circa 500 dalla capitale russa, con le tre stagioni di ampliamento dell'Alleanza, tra il 1999 e il 2009. Una Nato allargata fortemente richiesta dai nuovi Paesi membri, soprattutto i Baltici militarmente molto esposti, e altri - a partire dalla Polonia - desiderosi di non ripetere l’esperienza della dominazione russa.

LE RAGIONI DI MOSCA. C’è poi un altro fatto che conta nella memoria storica dei russi. Roosevelt, preoccupato dall’isolazionismo potenziale americano, aveva detto molte volte ai russi e a Churchill che la gestione dell’Europa distrutta sarebbe stato affare loro. Stalin conosceva l’impossibilità finanziaria britannica di assumersi un ruolo così gravoso. La smobilitazione e il rimpatrio delle unità combattenti americane era concluso nel giugno 47 e in Europa restava una sola divisione in assetto di guerra, oltre al numeroso personale amministrativo. I sovietici non smobilitarono nulla. E Mosca reagì molto male quando, tra il 1948 e il 1949, con un grande sforzo sul Congresso e nel paese, il presidente Harry Truman convinse la nazione a tornare in forze in Europa. C’è ancora adesso, selettivamente. E non c’è da sorprendersi se Mosca chiede un nuovo assetto. Naturalmente cercando di far rientrare del tutto gli Stati Uniti a casa propria il più possibile. Cosa che non sembra, ancora oggi, nell’interesse dell’Europa e degli Usa stessi.


Stalin, Roosevelt e Churchill a Teheran.

Con la fine dell’Urss, Mosca ha perso 300 anni di storia imperiale

Henry Kissinger

«Con la fine dell’Urss, Mosca ha perso 300 anni di storia imperiale», ha osservato in questi giorni Henry Kissinger, intervistato da The Atlantic. È questa débâcle del nazionalismo russo, in versione comunista questa volta, che Mosca vuole in qualche modo superare. Oggi la Russia è molto più debole che in passato e molto più debole degli Stati Uniti, osserva ancora Kissinger con una nota di comprensione, «e chiede di essere riconosciuta come grande potenza, come eguale, e non come un postulante in un sistema a disegno americano». Respingere al mittente potrebbe essere, per Washington e per l’Europa, un errore. Ma accettare la visione russa è molto difficile. Occorre trattare.

TRUMP VUOLE TRATTARE. La presidenza Trump sembra più che disposta a trattare il dossier russo e quindi quello europeo. Anche perché la partita europea è collegata con quella del Medio Oriente e della lotta al terrorismo. Nel dibattito moscovita ufficioso si parla di zone di influenza, come una volta, quella dell’Eurasia andrebbe dall’Asia Centrale fino all’Europa dell’Est e sarebbe di competenza russa, mentre l’ Europa occidentale spetterebbe all’area atlantica di competenza americana. Un forte legame con Washington, e viceversa, è nel chiaro interesse delle due sponde atlantiche. Ma non possiamo più pensare che siano gli americani in primis i responsabili della nostra sicurezza. Né Trump sembra più disposto ad accettarlo. Né l’Europa può accettare di essere oggetto, e non soggetto, di trattativa.

NOI FAREMO UN FIGURONE. Una cosa è fin d’ora chiara: se l’Europa vorrà essere co-protagonista, come è giusto che sia per un continente che non è più distrutto come nel 1945, dovrà parlare collegialmente. Dovrà esserci una posizione europea. Questo dà la misura di come tutte le attuali tendenze neo-nazionalistiche, in Francia, Italia, Germania, Austria, siano fuori dalla logica dei tempi. Spiegate in parte dalle difficoltà economiche, e bocciate dalla geopolitica. Ci sono una trentina di Paesi in Europa su un’area che è meno della metà di quella degli Stati Uniti. Se al tavolo dobbiamo andare in ordine sparso, il governo Di Maio potrà mandare il ministro degli Esteri Di Battista, che ha girato il mondo e se ne intende, con Beppe Grillo consulente speciale. E faremo certamente un figurone.


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