Una "nuova
Yalta" è all'orizzonte. E noi mandiamo Dibba?
Gli equilibri tra Usa e
Russia andranno ridisegnati. E l'Europa, al tavolo, è chiamata a essere
protagonista. Impensabile con una delegazione infarcita di nazionalisti.
Grillo, Di Maio e Di Battista compresi.
Mario Margiocco
Tra non molto gli europei
potranno forse capire che cosa significa la fine del mondo di ieri. Le novità
investiranno l’Europa nel suo complesso, rendendo poco praticabile la logica
delle fughe nazionaliste, chacun pour soi, di cui noi in Italia siamo
testimoni, fino all’esasperazione, proprio in questi giorni. Beppe Grillo,
Matteo Salvini, Giorgia Meloni e altri esponenti del "No" – non tutti
– sono fautori di un ritorno alla via nazionale e hanno nel nazionalismo il
minimo comun denominatore. È una ricetta semplice che sembra facile nei momenti
difficili, ma dura da applicare in un’Europa stretta tra le nuove richieste
russe e un’America che deve pensare di più a se stessa, e alla Cina.
VERSO UN NUOVO ORDINE. Si parla, a sproposito ma non del tutto, di una nuova
Yalta, di un nuovo accordo sugli equilibri europei, o euroasiatici come
preferiscono dire a Mosca. Già nel settembre 2015, all’Onu, il presidente
Vladimir Putin ricordava che l’intesa di Yalta aveva offerto «un fondamento
solido per l’ordine postbellico». Cioè la Guerra Fredda, esecrabile ma
ordinata. Yalta è nella Crimea meridionale e una lettura storica frettolosa, un
mito quasi, vuole che lì i tre grandi del fronte anti-Hitler - Franklin Delano
Roosevelt, Winston Churchill e Josip Stalin - abbiano deciso nel febbraio 1945
il destino dell’Europa
contemporanea. Questo a te e
questo a me. In realtà, il processo fu ben più lungo.
TUTTO INIZIÒ A TEHERAN. Cominciò alla Conferenza di Teheran a fine 1943, dove
si parlò in particolare del futuro di Lituania, Lettonia ed Estonia oggi di
nuovo al centro della “nuova Yalta”. Passò da quella che i britannici chiamano
la Seconda conferenza di Mosca dell’ottobre 44, Churchill e Stalin i
protagonisti, americani solo di rango inferiore (Roosevelt era convinto che
l’isolazionismo Usa lo avrebbe escluso dalla partita europea, a guerra finita).
I due leader stilarono il famoso papiro sulle “percentuali” di influenza in
ciascuno dei Paesi dell’Est, presto stravolto da Stalin convinto, come ebbe a
dire allo jugoslavo Milovan Gilas, che «ciascuno impone il suo sistema fin dove
arriva il suo esercito», rammaricandosi di non averne uno per arrivare sino a
Parigi. Dove nel 1814 era arrivato, ricordò in altra occasione, lo zar
Alessandro I.
Il tutto si concluse
nell’estate 1945 alla lunga Conferenza di Potsdam, con già nell’aria i prodromi
della Guerra Fredda. Quindi Yalta è simbolo di qualcosa di assai più lungo e
complesso. Quella spartizione con Churchill nel 44 andava incontro alle
aspirazioni russe che, dopo le grosse mutilazioni subite nel 1918 (Trattato di
Brest-Litovsk) e dopo avere invano cercato con Lenin di riprendersi la loro
tradizionale parte di Polonia (1919-1921), riuscivano con Stalin a tornare alla
massima espansione e oltre, fino a Berlino.
UN IMPERO MUTILATO. Tutto crollava tra il 1989 e il 1991 e da allora la
Russia, non più Urss, doveva subire nuove forti mutilazioni rispetto al suo
“impero” del secondo dopoguerra, vedere i suoi ex satelliti entrare nella Ue e
nella Nato, e le frontiere “atlanticiste”, come dicono al Cremlino, prima con i
loro blindati a oltre 1.000 chilometri da Mosca, avanzare a circa 500 dalla
capitale russa, con le tre stagioni di ampliamento dell'Alleanza, tra il 1999 e
il 2009. Una Nato allargata fortemente richiesta dai nuovi Paesi membri,
soprattutto i Baltici militarmente molto esposti, e altri - a partire dalla
Polonia - desiderosi di non ripetere l’esperienza della dominazione russa.
LE RAGIONI DI MOSCA. C’è poi un altro fatto che conta nella memoria storica
dei russi. Roosevelt, preoccupato dall’isolazionismo potenziale americano,
aveva detto molte volte ai russi e a Churchill che la gestione dell’Europa
distrutta sarebbe stato affare loro. Stalin conosceva l’impossibilità
finanziaria britannica di assumersi un ruolo così gravoso. La smobilitazione e
il rimpatrio delle unità combattenti americane era concluso nel giugno 47 e in
Europa restava una sola divisione in assetto di guerra, oltre al numeroso personale
amministrativo. I sovietici non smobilitarono nulla. E Mosca reagì molto male
quando, tra il 1948 e il 1949, con un grande sforzo sul Congresso e nel paese,
il presidente Harry Truman convinse la nazione a tornare in forze in Europa.
C’è ancora adesso, selettivamente. E non c’è da sorprendersi se Mosca chiede un
nuovo assetto. Naturalmente cercando di far rientrare del tutto gli Stati Uniti
a casa propria il più possibile. Cosa che non sembra, ancora oggi,
nell’interesse dell’Europa e degli Usa stessi.
Stalin, Roosevelt e Churchill a Teheran.
Con la fine dell’Urss, Mosca
ha perso 300 anni di storia imperiale
Henry Kissinger
«Con la fine dell’Urss, Mosca
ha perso 300 anni di storia imperiale», ha osservato in questi giorni Henry
Kissinger, intervistato da The Atlantic. È questa débâcle del
nazionalismo russo, in versione comunista questa volta, che Mosca vuole in
qualche modo superare. Oggi la Russia è molto più debole che in passato e molto
più debole degli Stati Uniti, osserva ancora Kissinger con una nota di
comprensione, «e chiede di essere riconosciuta come grande potenza, come
eguale, e non come un postulante in un sistema a disegno americano». Respingere
al mittente potrebbe essere, per Washington e per l’Europa, un errore. Ma
accettare la visione russa è molto difficile. Occorre trattare.
TRUMP VUOLE TRATTARE. La presidenza Trump sembra più che disposta a trattare
il dossier russo e quindi quello europeo. Anche perché la partita europea è
collegata con quella del Medio Oriente e della lotta al terrorismo. Nel
dibattito moscovita ufficioso si parla di zone di influenza, come una volta,
quella dell’Eurasia andrebbe dall’Asia Centrale fino all’Europa dell’Est e
sarebbe di competenza russa, mentre l’ Europa occidentale spetterebbe all’area
atlantica di competenza americana. Un forte legame con Washington, e viceversa,
è nel chiaro interesse delle due sponde atlantiche. Ma non possiamo più pensare
che siano gli americani in primis i responsabili della nostra sicurezza. Né
Trump sembra più disposto ad accettarlo. Né l’Europa può accettare di essere
oggetto, e non soggetto, di trattativa.
NOI FAREMO UN FIGURONE. Una cosa è fin d’ora chiara: se l’Europa vorrà essere
co-protagonista, come è giusto che sia per un continente che non è più
distrutto come nel 1945, dovrà parlare collegialmente. Dovrà esserci una
posizione europea. Questo dà la misura di come tutte le attuali tendenze neo-nazionalistiche,
in Francia, Italia, Germania, Austria, siano fuori dalla logica dei tempi.
Spiegate in parte dalle difficoltà economiche, e bocciate dalla geopolitica. Ci
sono una trentina di Paesi in Europa su un’area che è meno della metà di quella
degli Stati Uniti. Se al tavolo dobbiamo andare in ordine sparso, il governo Di
Maio potrà mandare il ministro degli Esteri Di Battista, che ha girato il mondo
e se ne intende, con Beppe Grillo consulente speciale. E faremo certamente un
figurone.